I campioni sono io: il tormentato rapporto dei napoletani con la sigla della Champion’s League

In fondo l’idea migliore la ebbe un tale, la sera del 15 maggio 2011. La sera, ovvero, della prima qualificazione del Napoli alla Champions League. La prima, certo: non valeva molto il ricordo appannato delle sporadiche apparizioni nella vecchia Coppa Campioni, peraltro torneo ben diverso dal suo successore, che erano state fugace, la prima, e dal finale grottesco, la seconda, con la squadra condizionata dagli umori del suo Reuccio ribelle tra le nevi di Mosca.
Quel tale, dicevo, fece l’unica cosa sensata possibile: girare la città in auto, comparire davanti ai crocchi di persone in festa, o semplicemente in uscita davanti ai locali, accendere la radio e mandare a tutto volume la tanto sospirata sigla della Champions League. Quella dal motivo solenne e classicheggiante, di cui la maggior parte delle persone riesce a malapena a distinguere le parole “the champions”, perdendosi nell’indecifrabilità del canto lirico e nel crescendo che attraversa il brano, davvero molto suggestivo. Inutile dire che l’irruzione del tale era salutata, ovunque, da applausi, cori, risate complici, complimenti per la trovata semplice e geniale.
Poi il Napoli ha preso a risalire. Il ritorno in A, le due apparizioni in Europa League, con risvolti altalenanti; ma la frequenza nell’alta classifica si faceva, anno dopo anno, sempre più significativa. E poi la stagione 2010/2011. Qualcuno, vedendo la squadra macinare punti e consolidarsi in vetta, iniziò a sussurrarlo: “Ti immagini noi, con quella sigla...?”. “Zitto”, gli intimavano gli altri “che porta male. E poi a noi di questa sigla non ce n’è mai fregato nulla”. Neanche si capivano le parole. Qualche altro prese a fare le prove: “The champions, the champions, is free”. Is free? Ma che è? Verrebbe: “I campioni, è libero”, quasi più un invito alla toilette che una marcia trionfale.
Perciò basta, non la sappiamo cantare, non è cosa per noi, lasciamola agli altri. Lasciamola a quelli dell’Europa che conta, che probabilmente sanno che è composta in un melange di tre lingue - inglese francese e tedesco - da un tal Tony Britten sulle note di “Zadock the priest” di Hendel, che a sua volta, era il 1727, l’aveva scritta in onore di Giorgio II d’Inghilterra. Il cui significato, in verità, non è che sia così entusiasmante. Traducendola suona così: “Queste sono le squadre migliori, sono tutte le squadre migliori, l’evento principale. I maestri, i migliori, le migliori squadre, i campioni, i grandi ed i migliori! Una grande manifestazione pubblica, l’evento principale: questi sono gli uomini, loro sono i migliori, sono questi i campioni!”, e ricorda più la cantilena di un paranoico di uno sperduto Opg di provincia che la consacrazione della supremazia continentale nella pedata.
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