• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Mondo > Gli Stati imperialisti si dividono i compiti, ma DAESH si rafforza

Gli Stati imperialisti si dividono i compiti, ma DAESH si rafforza

Si direbbe il gioco dei quattro cantoni: la Germania non interviene (ancora) in Siria ma siimpegna ad alleggerire l’impegno della Francia in Africa offrendole rinforzi nel Mali, oltre a preparare l’invio di Tornado per missioni di ricognizione (?) anche in Siria; Cameron vorrebbeportare anche la Gran Bretagna in Siria, ma è momentaneamente frenato dalla resistenza di una parte del Labour Party; Russia e Turchia si sfidano ma evitano di innescare un’escalation diritorsioni a catena, sia per i comuni interessi petroliferi, sia per le pressioni di molti degli attori in scena, a partire dall’attivissimo Hollande; l’Italia per il momento mette il naso un po’ ovunque con droni e aerei da ricognizione, limitandosi ad aiutare la Francia con un rafforzamento della presenza nel Libano. E naturalmente vende a tutto spiano armi (spesso accompagnate daistruttori e specialisti) a vari contendenti, anche legatissimi all’ISIS, come ha ricordato Antonio Mazzeo in L'imperialismo italiano sostiene i regimi feudali del golfo.

Molti commentatori sostengono che in questa fase chi esce rafforzato è proprio il gruppo dirigente del DAESH (o ISIS, se si preferisce), che non vede scalzato minimamente il suo potere nel vasto territorio semidesertico che ha occupato facilmente, verifica ogni giorno l’eterogeneità e scarsa coesione della cosiddetta coalizione che dovrebbe combatterlo, ed è sicuro che le forme scelte per rispondere ai suoi attacchi (inutili rastrellamenti delle periferie europee, e bombardamenti a tappeto delle zone abitate del “Califfato” che inevitabilmente colpiscono prevalentemente i civili, data la grande mobilità delle forze combattenti dello Stato islamico) sono scarsamente efficaci e anzi in gran parte controproducenti, perché provocano risentimenti in coloro che sono coinvolti senza volerlo, ed aumentano quindi la forza diattrazione del Jihad.

Che è un dato reale, anche se non va sopravvalutato: non pochi elementi di riflessione sono presenti nell’ottimo articolo di Rousset – Sabado: Le nostre responsabilità di fronte al terrore.

Intanto vorrei presentare alcune mie considerazioni storiche su questi temi, che ho di recente sviluppato discutendo con un gruppo di liceali.

Qualche cenno storico
Ero partito da un dato: l’imperialismo nel corso di due secoli ha fatto innumerevoli crimini, a cui si è tentato di rispondere in genere con lotte di liberazione a volte violente, ma sostanzialmente impotenti per la clamorosa asimmetria degli armamenti. E che raramente erano animate da un’ideologia religiosa. Per tutta la seconda metà del XIX secolo, con avvio simbolico in quel 1840 in cui inizia la prima guerra dell’Oppio, in cui l’Impero di mezzo viene polverizzato in breve tempo dalle cannoniere britanniche che spazzano via senza subire perdite le giunche cinesi, in tutto il mondo coloniale si tenta di resistere alla dominazione europea, a volte in forma cruenta, spesso intrecciata a conflitti di classe tra i vecchi ceti dominanti locali e i nuovi strati proletari creati dalla necessità di sfruttare le risorse naturali a beneficio dei conquistatori. Ma sempre con obiettivi politici e in genere senza motivazioni religiose.[i]

In quei decenni centrali del secolo ci sono molti altri casi di pesanti ingerenze esterne, più o meno violente, dall’imposizione del Tanzimat [ii] all’impero ottomano nel 1839, all’apertura forzata dei porti giapponesi alle navi statunitensi nel 1854, alle frequenti incursioni militari britanniche e statunitensi in un’America Latina quasi tutta formalmente indipendente e tutta senza eccezioni sostanzialmente dominata.

Una lunga serie di lotte di resistenza ignorate – se non dagli storici specializzati - che costellano in forma non sincronizzata e con diversa intensità i continenti sottomessi, hanno però un sussulto importante e sostanzialmente dimenticato alla vigilia di quella prima guerra mondiale che si preparava proprio per definire una nuova ripartizione del mondo coloniale. Il silenzio della vulgata storica destinata alle scuole è dovuto al fatto che quel sussulto è innescato dalla prima rivoluzione russa, che ha una enorme influenza in tutto il mondo, ma in particolare nei paesi confinanti: in Cina, in India, in Persia, nell’impero ottomano e in Afghanistan.

Crescono movimenti modernizzatori (dal Kuo Mintang ai Giovani Turchi) che inevitabilmente assumono anche caratteristiche più o meno esplicitamente antimperialiste. Non a caso tra l’emiro riformatore dell’Afghanistan Amanullah e Lenin c’era stato uno scambio di lettere e di riconoscimenti reciproci. (vedi La lunga tragedia dell’Afghanistan).

Non posso qui tracciare una panoramica complessiva, che richiederebbe ben altri spazi (e anche energie che non ho più) ma vorrei sottolineare solo che almeno nei primi tre decenni del secolo XX la risposta alla dominazione coloniale e semicoloniale è stata prevalentemente polarizzata da movimenti che facevano più o meno esplicitamente riferimento al marxismo e al socialismo.
L’esempio più interessante, che spazza via tutte le interpretazioni fataliste e deterministe, riguarda l’Iran, in cui negli anni Venti e Trenta esistono gli ayatollah, ma non sono alla testa delle lotte contro lo scià asservito all’imperialismo, in cui sono determinanti invece i lavoratori del petrolio influenzati dalla rivoluzione d’Ottobre e dal partito bolscevico russo. Partito che nel 1919, in un momento ancora difficile, in cui era in corso la feroce guerra civile sostenuta da tutte le potenze imperialiste grandi e piccole, aveva convocato a Bakù la grande conferenza dei popoli di Oriente a cui parteciparono anche molti mullah e altri capi religiosi, ma soprattutto i nuclei centrali dei movimenti di liberazione dell’Asia orientale e del Medio Oriente.

Il rapporto tra diversi di questi movimenti e la Russia sovietica in alcuni casi si incrinò negli anni Trenta per le ripercussioni politiche della “riconquista” violenta di parti dell’Asia centrale che si erano distaccate da un potere che cominciava ad apparire più russo che sovietico, e in cui la resistenza assunse spesso caratteristiche non solo nazionali ma anche religiose; tuttavia l’incrinatura si approfondì, soprattutto nelle colonie francesi, durante il periodo del governo di Fronte Popolare, che con l’avallo dell’Internazionale comunista stalinizzata, decise di non concedere nulla alle aspirazioni all’indipendenza di Algeria, Tunisia, Marocco, Siria, Libano, Indocina (con ripercussione anche nei domini britannici, olandesi, ecc., come l’Iraq, la Palestina, l’attuale Indonesia).

A questo si deve il fatto che molti dei dirigenti dei movimenti di liberazione, comunisti o vicini ad essi, nella seconda metà degli anni Trenta cercarono altre collocazioni, e una parte di essi durante la Seconda Guerra mondiale collaborò o accettò la protezione dei “nemici dei loro nemici”, ossia le potenze dell’Asse. Ne ho parlato di recente in La menzogna di Netanyahu e la faziosità della grande stampa.

Non solo il Gran Muftì di Gerusalemme, a cui Netanyahu attribuisce addirittura il ruolo di ispiratore della Shoah, ma il tunisino Bourghiba, l’indonesiano Sukarno, e molti altri che erano stati militanti o simpatizzanti comunisti seguirono questa strada. Ed è da quel periodo che in gran parte dei movimenti di liberazione cresce il riferimento identitario all’Islam, sia pure in forme lontanissime da quelle aberranti comparse negli ultimi tempi nell’ISIS o in Boko Haram…

Un esempio può essere illuminante. Il primo caso di conquista di uno Stato ben strutturato e moderno da parte di una corrente integralista islamica è l’Iran, a cui avevo già accennato, ricordando che nel periodo tra le due guerre gli Ayatollah c’erano ma non contavano molto. Nel 1951 anzi, grazie alla presidenza di Mohammed Mossadeq, un nazionalista laico formatosi in Svizzera e profondamente convinto della necessità di recuperare integralmente le enormi risorse petrolifere, l’Iran aveva imboccato una strada di modernizzazione e di indipendenza economica, appoggiandosi sul movimento comunista Tudeh, che tuttavia essendo fortemente legato a Mosca diffidava di Mossadeq, perché aveva rifiutato concessioni di pozzi di petrolio anche all’URSS. Così il colpo di Stato organizzato dai servizi segreti di Stati Uniti e Gran Bretagna, con l’appoggio del generale Zahedi e naturalmente dello scià, ebbe facile successo nel 1953.

Negli anni successivi alla testa della lunga lotta contro lo scià, a cui partecipavano organizzazioni di sinistra moderata e anche rivoluzionarie, oltre a molte minoranze etniche tra cui i curdi, si collocarono sempre più decisamente i religiosi sciiti, ben 180.000, che contavano su una rete di 80.000 moschee che offrivano protezione a chi lottava. Quando nel gennaio 1979 lo scià fuggì finalmente con la sua famiglia negli Stati Uniti, Khomeini era pronto a impossessarsi di tutto il potere facendo fuori (anche in senso letterale, con centinaia di esecuzioni capitali) in poco più di un anno tutti gli esponenti laici o marxisti che erano stati non meno di lui protagonisti della rivoluzione, che aveva sconfitto un esercito potentissimo (era considerato il quarto a livello mondiale), che aveva avuto per decenni il ruolo di gendarme dell’imperialismo nella regione. E che prima di dividersi e di unirsi in parte alla rivoluzione aveva per molti mesi sparato senza pietà su folle enormi che manifestavano senza armi.

Per anni, dalla clandestinità, alcuni movimenti continuarono a lottare anche con attentati spaventosi e tecnicamente efficaci contro il Consiglio islamico della rivoluzione che con Khomeini si era impossessato della rivoluzione, ma il loro peso si ridusse presto per effetto dell’apparente ruolo antimperialista rappresentato dagli studenti islamici che avevano occupato l’ambasciata statunitense trattenendo in ostaggio il personale, e anche per la radicalizzazione dello scontro interno provocata dall’aggressione dell’Iraq di Saddam Hussein, finanziato dai regni feudali del golfo, col beneplacito delle maggiori potenze imperialiste, che pensavano di poter piegare facilmente l’esercito iraniano, dato che si era lacerato al momento della rivoluzione, a cui molti cadetti e ufficiali più giovani avevano aderito, cominciando a sparare sui loro superiori.

La guerra, ferocissima e con un bilancio spaventoso di vittime, sarebbe durata ben otto anni, e avrebbe involontariamente contribuito al rafforzamento del regime e delle correnti più intolleranti al suo interno. Insomma il consolidamento di questo Stato islamico senza precedenti né preannunci visibili, non era il frutto del caso, ma la conseguenza di molti fattori. Non sarebbe stato neppure concepibile senza la violenta interruzione dell’esperienza riformista di Mossadeq, né sarebbe stato tanto facile togliere di mezzo le sinistre, il cui maggior partito, il Tudeh, si era screditato seguendo passivamente gli zig zag della politica sovietica nell’area, che in certi periodi spingeva a creare soviet nell’Azerbaigian e nel Kurdistan, in altri li abbandonava e si riconciliava con lo scià, e che ha la responsabilità di aver lasciato solo Mossadeq. Tanto meno il regime degli ayatollah si sarebbe consolidato senza l’aggressione esterna da parte dell’Iraq, che aveva spinto molti iraniani a difendere il paese da un nemico feroce ed infido.

Questo per le specifiche condizioni che hanno facilitato il successo e la lunga durata dell’integralismo islamico in Iran. Su altre zone del Vicino e Medio Oriente e per il Maghreb ha pesato maggiormente (oltre al tracollo dell’influenza del movimento comunista, che ha preceduto di molto, per errori suoi e più spesso direttamente dell’URSS) il declino del nazionalismo e del panarabismo, e l’enorme involuzione morale dei dirigenti di un po’ tutti gli Stati della regione, compresi quelli (come soprattutto l’Algeria) che avevano rappresentato per anni una parte importante del movimento dei non allineati e si richiamavano a un’ideologia più o meno socialista. E più in generale ha pesato il ricatto esercitato su tutti i paesi che avevano conquistato di recente l’indipendenza dall’intervento ricolonizzatore nel Congo ex belga, culminato nell’assassinio del suo leader Patrice Lumumba di fronte alle truppe dell’ONU complici degli assassini. La spaventosa corruzione che caratterizza gran parte degli Stati ex coloniali non può essere spiegata, come fanno abitualmente i mass media, con una “predisposizione di paesi immaturi”, ma va ricondotta ai molti interventi che hanno imposto nuovi rapporti di subordinazione semicoloniale, dopo aver liquidato brutalmente le esperienze più limpide ed esemplari, come quella di Lumumba o di Thomas Sankara nel Burkina Faso.

Intanto ripropongo un articolo pubblicato tre anni fa e che aveva avuto un buon livello di visite, ma che sicuramente molti dei nuovi visitatori del sito non conoscono: L’Islam politico in Medio Oriente (a.m.27/11/15)

[i] Segnalo che in questi giorni è uscito in italiano il terzo volume dell’avvincente romanzo storico di Amitav Gosh, Diluvio di fuoco, Neri Pozza, Vicenza, 2015 ambientato tra India e Cina nel periodo che precede e preannuncia la Guerra dell’oppio. I due precedenti, pubblicati dallo stesso editore, sono Mare di papaveri e Il fiume dell’oppio.
[ii] Il Tanzimat era un sistema di riforme modernizzatrici, ma che comportava obblighi di apertura alle merci europee e di fatto creava le premesse per imporre la tutela dei creditori.

 

Foto: Mossadeq e Truman, wikipedia

Questo articolo è stato pubblicato qui

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox


Pubblicità




Pubblicità



Palmares

Pubblicità