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Giustizia negata: un tribunale sudcoreano dà torto alle “donne di conforto”

La sentenza del tribunale della Corea del Sud che l’altro ieri ha respinto la richiesta di un gruppo di “donne di conforto”, presentata nel 2016, di ottenere un risarcimento dal Giappone ha avuto l’effetto di una doccia gelata.

A gennaio, un’altra sezione dello stesso tribunale aveva infatti ordinato al Giappone di pagare i danni a un gruppo di 12 donne sopravvissute al sistema di schiavitù sessuale introdotto dalle forze armate giapponesi nei territori occupati prima e durante la Seconda guerra mondiale: un sistema che obbligò circa 200.000 donne a dare “conforto” nei bordelli alla soldataglia del Sol Levante.

Secondo la sentenza di gennaio, quel sistema aveva causato “un’estrema, inimmaginabile sofferenza fisica e mentale” cui “non potrebbe essere applicata l’immunità che si deve agli stati e agli atti compiuti nell’esercizio della sovranità”.

La sentenza di ieri dà ragione alla posizione del Giappone: un accordo bilaterale raggiunto nel 2015 col governo sudcoreano dell’epoca ha risolto la questione “in modo irreversibile” e il principio della sovranità dello stato tiene al riparo le autorità di Tokio da ricorsi ai tribunali stranieri.

Negli ultimi 30 anni le sopravvissute al sistema delle “donne di conforto” si sono rivolte ai tribunali in Cina, Corea del Sud, Filippine, Paesi Bassi e Taiwan. Hanno sempre perso.

Il tempo scorre senza giustizia. Delle 10 sopravvissute che si erano rivolte al tribunale di Seul nel 2016 ne restano in vita solo quattro.

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