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Femminismo e Buen Vivir

L'emergere del Buen Vivir (Sumak Kawsay) o Vivir Bien (Suma Qamaña) è, come sottolinea Katu Arkonada, un ricercatore basco presso il Center for Applied Studies of Economic, Social and Cultural Rights (CEADESC), il prodotto di un dibattito sorto negli anni Novanta del XX secolo, in Bolivia, quando il governo nei suoi progetti di legge e decreti lanciò lo slogan: "vivir mejor" e gli indigeni, al contrario, risposero con lo slogan “suma qamaña” o “vivir bien” (vivere bene).

di Maddalena Celano

 

 

“Vivere bene” in senso egualitario, contro il “vivere meglio” in un senso diseguale. Vivere bene nel senso di pari opportunità, di fronte a un “migliore vivere” nelle disuguaglianza di opportunità. Un senso democratico egualitario, in contrasto con il senso altamente discriminatorio delle democrazie occidentali. Si trattava di due correnti discorsive.[1] I popoli indigeni offrono questo nuovo paradigma come risposta e alternativa all'attuale crisi ambientale, economica e di civiltà che il mondo sta attraversando. A questo proposito, il ricercatore e analista basco del CEADESC, Katu Arkonada, ci offre un approccio a questo concetto di Living Well e alla sua incorporazione nell'attuale Costituzione politica dello Stato della Bolivia.

Il 25 gennaio la nuova Costituzione politica dello Stato è stata approvata con referendum dal popolo boliviano, con circa il 57% dei voti favorevoli.

Segnando una pietra miliare politica, include il concetto di Vivir Bien, sulla scia del governo dell'Ecuador, che lo ha già introdotto nella sua nuova Costituzione.

Oltre a fare una menzione nel Preambolo (Uno Stato basato sul rispetto e sull'uguaglianza tra tutti, con principi di sovranità, dignità, complementarità, solidarietà, armonia ed equità nella distribuzione e ridistribuzione del prodotto sociale, dove la ricerca del vivere bene predomina ...) Lo sviluppa nell'articolo 8, quando si parla di Principi, Valori e Scopi dello Stato sviluppando le Basi Fondamentali dello Stato.

Lo Stato assume e promuove come principi etico-morali della società plurale: ama qhilla, ama llulla, ama suwa (non essere pigro, non essere bugiardo o essere un ladro), suma qamaña (vivere bene), ñandereko ( vita armoniosa), teko kavi (buona vita), ivi maraei (terra senza male) e qhapaj ñan (modo nobile o vita).

Lo Stato si fonda sui valori di unità, uguaglianza, inclusione, dignità, libertà, solidarietà, reciprocità, rispetto, complementarità, armonia, trasparenza, equilibrio, pari opportunità, equità sociale e di genere nella partecipazione, benessere comune, responsabilità, sociale giustizia, distribuzione e ridistribuzione

Ci sono anche riferimenti a Living Well nell'articolo 80, quando si parla di Istruzione e il suo orientamento per raggiungere Living Well, nell'articolo 306 riguardante l'organizzazione economica dello Stato (Il modello economico boliviano è plurale ed è finalizzato al miglioramento della qualità della vita e della vita bene di tutti i boliviani) o nell'articolo 313, che stabilisce gli scopi per eliminare l'esclusione sociale e la povertà e per il raggiungimento del Vivere bene nelle sue molteplici dimensioni.

Sebbene sia un bel risultato che le strutture coloniali siano state smantellate (almeno parzialmente), oltre a costruire un nuovo quadro politico, che ha nei suoi articoli Vivere bene come un nuovo paradigma per un nuovo modello di sviluppo, dobbiamo analizzare cosa reale impatto avrà o sta avendo sulle politiche pubbliche promosse dalle istituzioni.

Questo deve essere l'obiettivo principale dell'analisi oggi in Bolivia, come passare dal locale al macro. Come passare dalle pratiche nelle comunità, gli ayllus ... all'attuazione delle pratiche nei e dai ministeri e altre istituzioni statali. Come passare dalla dichiarazione di intenti scritta su carta (per quanto importante possa essere come il nuovo CPE) all'applicazione di politiche per costruire quel nuovo paradigma.

E sebbene sia fondamentale recuperare e sistematizzare le pratiche Living Well che avvengono su tutto il territorio, nelle 36 nazionalità che compongono la Bolivia, la maggior parte delle quali complementari tra loro, bisogna cominciare ad analizzare ed estrarre le diverse lezioni che si possono estrapolare dal locale al nazionale.

Queste lezioni devono essere raccolte per costruire una nuova etica che dovrebbe guidare le azioni dello Stato e segnare anche i suoi cittadini come dovrebbero relazionarsi gli uni agli altri, cercando la complementarità e l'equilibrio con se stessi e con la natura.

Dopo oltre 500 anni di colonialismo, un vero processo di decolonizzazione non può essere compreso senza Vivir Bien come guida che sostiene un nuovo modello di società, e allo stesso tempo non può essere compreso cercando di applicare gli insegnamenti di Vivir Bien senza un vero processo .di decolonizzazione, che smantella le strutture dello stato coloniale e di passaggio a quella nuova società.

In Bolivia negli ultimi tempi, vengono introdotte forme tradizionali di Living Well, come la medicina tradizionale, in complementarità con la medicina moderna, la giustizia di comunità che completa la giustizia ereditata dal sistema coloniale e la reciprocità e il comunitarismo vengono anche applicati, in una distribuzione di naturale ricchezza tra l'intera popolazione senza precedenti nella storia boliviana.

Ma vivere bene è anche uscire dalla dicotomia tra essere umano e natura, è risvegliare la consapevolezza che siamo parte della Pachamama, della Madre Terra e con lei ci completiamo a vicenda. E questo è in contraddizione con la costruzione di grandi infrastrutture, che più che spina dorsale della Bolivia, fungono da via di passaggio per il saccheggio delle ricchezze naturali dell'Amazzonia, che non rafforza le comunità, spesso anche non consultate, violando la loro collettività. diritti, oltre all'individuo, ma al contrario, li destrutturano creando problemi per i quali non erano mai preparati.

Un chiaro esempio di incompatibilità tra Vivir Bien e le politiche pubbliche è l'IIRSA (Integration of Regional Infrastructures of South America) e i 3 assi costruiti in Bolivia, l'autostrada Puerto Suárez - Santa Cruz, le dighe attorno al fiume Madera e il nord corridoio di Amazon. Abbiamo la sfida di sviluppare la Bolivia, la nuova Bolivia decolonizzata, di vivere bene, di sapere come vivere in definitiva, ma per questo dobbiamo essere molto consapevoli dei punti neri, delle debolezze e forse dei modi di fare politica e sviluppo ereditati da questo il sistema coloniale continua a opprimere la Bolivia.

La società boliviana si sta muovendo verso la costruzione di quel nuovo paradigma, e ora con il passo più deciso dopo essersi dotata di quel bastone chiamato nuova Costituzione politica dello Stato, non resta che rimuovere le pietre che ostacolano e ostacolano il suo cammino.[2]

In quegli anni, i movimenti indigeni boliviani ed ecuadoriani iniziarono a condividere il concetto, poi impresso nelle Costituzioni, derivante dalle Assemblee Costituenti. Buen Vivir o Vivir Bien è stato incorporato nei Piani di Sviluppo Nazionale anche dal governo di Evo Morales in Bolivia e Rafael Correa in Ecuador. Ma anche da parte del movimento indigeno andino c'è stata una rinascita dell'interesse a sistematizzare e condividere questa proposta, che considerano un'alternativa all'attuale crisi del sistema capitalista e del modello neoliberista.

Cosa significa essere una donna o essere uomo nelle culture native?

 Il genere è un’ idea molteplice e mutevole in ogni società; È vero che ogni cultura ha determinato i propri modelli comportamentali e i modelli di pensiero basati sui loro/proprie interrelazioni, processi di socializzazione e acculturazione. Il genere risponde a strutture diverse che si adattano alle particolarità socio-culturale, che istituisce una prospettiva di valori e stabilisce i meccanismi di legittimazione dei suoi principi. Il genere è una categoria sociale che obbedisce a un'interpretazione culturale delle differenze biologiche tra uomini e donne e assegna dei ruoli secondo la divisione del lavoro. Le logiche sociali e gerarchiche stabiliscono gli approcci e le caratteristiche che si riferiscono alle differenze tra donne e uomini, a causa delle strutture sociali e culturali, che si manifestano nei ruoli (gestione riproduttiva, produttiva e comunitaria), che si sviluppano entrambi; questo implica compiti da assumere o delegare esplicitamente o implicitamente, in base a conoscenze o significati tradizionali. Il modo di materializzare queste logiche si trova nei ruoli che ne definiscono la parte pratica, ovvero che si trasformano in attività e azioni che vengono attribuiti ai sessi, in chiave binaria. Questi ruoli, se percepiti come immutabili in un mondo che cambia, possono diventare fonte di conflitto, o produrre armonie basate su posizioni passivamente assimilate, accettate o apprese secondo il modo in cui ciascuna/o di noi è configurato nei gruppi sociali. Sono il risultato di comportamenti acquisiti in una società, attraverso il processo di socializzazione. I ruoli definiscono quali siano le attività “femminili” e i compiti e responsabilità del maschio. Si impara a "essere" uomini e donne. In questo senso, l'antropologia femminista ha offerto un contributo importante. È, in effetti, l'unica disciplina delle scienze sociali in grado di dimostrare, da un punto di vista eminentemente comparativo, che il significato di "essere donna" varia culturalmente e storicamente. Perciò il “genere” è una realtà che deve essere sempre inquadrata in un contesto-determinato. Nel caso della Bolivia, che è un paese costituito prevalentemente da autoctoni, la donna (intesa come genere femminile) è percepita in maniera diversa da come è percepita nella realtà occidentale (intesa come cultura nord-americana o nord-europea). Nel censimento effettuato nell’ anno 2001, il 62% della popolazione si è identificata come autoctona: il 30,7% Quechua; 25,2% Aymara; il resto del 6,1% sono appartenenti al altre minoranze etniche, i più numerosi sono i chiquitanos (2,2%), i Guaraníes (1,6%), i Moxeños (0,9%) e i Qurpa Machaqa. I popoli indigeni, nel caso boliviano, non sono "minoranze", come tante volte vengono definiti nelle analisi. La comunità Qurpa Machaqa è una popolazione di origine Aymara situata nell'altipiano boliviano, che appartiene al comune di Jesús de Machaqa, provincia di Ingavi, che si trova a circa centoventi chilometri dalla capitale. La loro organizzazione territoriale corrisponde ad una visione “quadripartita” che si basa sulla creazione di seguenti aree: la Qurpûma (deriva da Qurpa uma che significa “acqua di confine”); la Llallawa (divinità dei confini e dei “condotti”); la Pampa (pianura) e la Taypi (luogo centrale) che compongono la comunità. Questa divisione determina le due parzialità dalla logica Aymara che diventano complementari. La ripetizione dei numeri-coppie, implica la creazione di dualità.[3] Questo non implica che la concezione andina si basi sulla ricerca di relazioni asimmetriche. Le comunità rurali Aymara si basano su famiglie allargate in cui non vi è una precisa leadership o l’ esistenza di persone considerate “superiori”. Bensì vi è un ordine organizzativo suddiviso in ruoli e funzioni complementari ma di eguale importanza e prestigio. Si tratta di un’ etnia socioculturale che differisce dal modello organizzativo centro-urbano, giacché obbedisce e risponde ai propri principi etnoculturali, che vengono praticati nell'unità territoriale in cui si stabiliscono. Le pratiche che caratterizzano i ruoli di genere maschile e femminile possono essere modificati, ma la logica della complementarietà è ancora in vigore. Qui sta l'importanza di analizzare quali ruoli siano stati istituiti a livello pubblico e quali a livello privato, poiché ciò determina il carattere della sua configurazione sociale. Nel mondo andino, ogni elemento ha un suo doppio complementare, il che lo rende un essere completo. La filosofia della complementarietà si basa l'uso dello spazio, il ruolo di persone, animali, divinità, luoghi sacri e gli elementi usati nei rituali. La visione del mondo andina parte essenzialmente da questa esistenza bipartita e complementare, basata su sedimenti culturali animisti: non può esistere nulla senza partner, senza un opposto complementare. In questo caso si può capire che l'alleanza tra uomo e donna diventa un ponte tra natura e cultura. Questo è precisamente il punto più importante che dovrebbe essere preso in considerazione: la visione della dualità è il simbolo della vita, poiché si propone che ogni essere vivente abbia bisogno dell' "altro" per sopravvivere; In tutte le sfere, il genere è una doppia entità. Nel mondo Aymara, la coppia è centrale e costituisce il fondamento della comunità, perché non è solo l'unione di due persone a garantire la riproduzione fisica dello stesso, ma è anche la possibilità di rigenerazione della comunità. Questo è il motivo per cui la parola Jaqichasiña (tradotta come matrimonio) indica qualcos'altro: Jaqi = persona, echasiña = essere fatto; quindi la traduzione approssimativa sarebbe: diventare persona. Questa è l’ idea di matrimonio vista e compresa dagli aymara. Le donne aymara godono di grande potere ed influenza nelle società rurali, sono percepite come la «chiave di casa», incarnano le peculiarità dello spazio domestico ma anche la potenza della natura. Decidono cosa va collocato dentro e fuori della casa. La casa è lo spazio intimo della privacy, il cui carattere è fisicamente visualizzato con recinzioni murate che proteggono il nucleo centrale della costruzione. Nella cultura aymara, le donne sono delle piccole divinità che compongono la società, hanno la stessa importanza dei maschi in termini di responsabilità sociale e culturale, nella formazione e nella manutenzione domestica. La formazione della famiglia parte dalla dualità, dall' unione dell' uomo e della donna. La relazione reciproca tra due esseri opposti, che si completano a vicenda creando un'unità. Si noti la che cultura aymara si oppone alla “razionalità” occidentale, alla sua cultura dell'esclusione e dell’ individualità. L'opposto dell'unione è l’ individualità, l'opposto dell'unione di esseri "incompleti" che si uniscono per formare un tutto completo, dove la reciprocità è l'interrelazione tra l'uomo e la natura, e tra l’ uomo, la comunità e gli esseri soprannaturali che li proteggono, tra il dare, il ricevere e il condividere. La coppia costituita stabilisce l'inizio del thakhi (percorso), inteso come metafora e fa riferimento a un processo di crescita della responsabilità comune. Per questo motivo, l'autorità è concepita come un "Servizio", ricoprendo ruoli molto specifici, nella sfera politica comunitaria, come nel cerimoniale-religioso.[4] È un processo che inizia quando si forma il chacha-warmi (l’ unione complementare tra femminile e maschile): il Jacha mallku (maschio) accompagna nella vita quotidiana la Jilïri mallku tayka (donna). La donna è la "capofamiglia" (nei fatti) che centralizza le attività di riproduzione, manutenzione e produzione della famiglia allargata. Il maschio supporta la donna economicamente, nelle sue attività, e svolge anche il compito di “messaggero” o “ambasciatore” (ovvero cura delle relazioni sociali e pubbliche). Nella logica duale chacha-warmi, in cui c'è naturalmente un complemento che rende membri della comunità, la donna acquisisce ulteriore rispettabilità ed influenza con la sua fertilità che ne legittima la funzione principale: essere madre. In questo contesto, essere single è più di uno stato civile, è la pietra miliare che determina l’ influenza che si otterrà nella comunità. La partecipazione delle persone single alla comunità è inferiore, giacché sia uomini che donne sono relegati alla Comunità. La coppia standard è per definizione quella eterosessuale basata sulla relazione tra uomo e donne. Tuttavia, c’è tolleranza ed apertura verso le coppie omosessuali, considerate comunque una variante dell’ “uno primigenio” composto da due forze opposte e complementari.

La sfera microsociale è comunque governata dai compiti riproduttivi svolti dalla donna. Per comprendere cosa si intende per “attività riproduttive della comunità” è importante capire cosa significa riproduzione nella cultura aymara. La Pachamama (Madre Terra) è percepita come archetipo della riproduzione umana. La Pachamama è anche concepita come entità femminile e generatrice di vita. Essere femmina, non è una questione astratta, la relazione con la dimensione femminile è percepita come illimitata, come la vita stessa ... La cultura aymara riconosce la terra come una madre fertile perché da essa nasce la vita, sia essa animale o vegetale; lei stessa è la vita che genera la vita, perché solo qualcosa che ha vita può nutrire la vita. Ecco perché l'aymara ama, rispetta, riverisce e protegge con tutte le forze la terra e la dimensione femminile. La Pachamama è assunta come un femmina che, come le donne, è la fonte della vita, motivo che le conferisce un valore speciale. La figura della donna è univoca e destinata alla fertilità, l'intima relazione che esiste tra la generazione della vita e la Madre Terra. Grazie al suo collegamento diretto con la maternità, è lei che si prende cura deli bambini, che deve garantire la loro alimentazione e la loro assistenza. Per meglio garantire la conservazione e la protezione della vita, è la donna che si occupa dei compiti sociali di vitale importanza ed autorevolezza: come l’ amministrazione del denaro e delle risorse materiali. Nella cultura aymara sono prevalentemente le donne che si occupano della zootecnica, dell’ agricoltura, dell’ insegnamento, della farmacologia e della medicina. Si prendono decisioni tra uomini e donne in unità, eppure il maschio è considerato essenziale, secondo la visione chacha-warmi. L'intervento di entrambi i generi, nella gestione comunitaria, è una condizione non trasgredibile nel nucleo familiare. Nelle famiglie, spesso, sia la madre che il padre si dedicano ad attività lavorative salariate, sebbene nell'immaginario esistente (condizionato dal colonialismo e dall’ influenza culturale dell’ Occidente) è il maschio colui che fornisce la maggiore quantità di denaro. Tuttavia, il “mantenimento” del nucleo familiare resta sempre gestito dalla donna.[5] Questo concorda con la concezione della donna come colei che veglia sulla vita; in questo caso, la vita dei membri della famiglia. Nell'ambito delle attività produttive, la terra è un fattore di coesione, sia familiare che comunitario. La terra di proprietà familiare è nominata sayaña; il terreno accoglie gruppi familiari che riproducono piccole aziende per eredità patrilineare. Generalmente la consegna di ciò è formalizzata quando dei figli maschi si sposano. Nel caso muoia il padre di famiglia, il figlio maggiore prenderà il controllo della terra e non la vedova o le figlie. Questo perché si pensa che la donna non abbia bisogno di possedere ma solo di amministrare il denaro paterno o il denaro del compagno. L’uomo è responsabile dei possedimenti e la donna dell’ amministrazione dei denari. Tuttavia, la mancanza di terra per le donne è un fattore decisivo che ricrea diseguaglianze tra uomini e donne e crisi strutturali, soprattutto grazie all’ influenza neoliberista occidentale e, ancor di più, quando gli uomini si comportano in maniera irresponsabile, amministrando male o perdendo le proprietà, cosa che condanna donne e bambini alla povertà. È stabilito che la donna sarà quella che deve deporre il seme in periodo di semina, il che implica l'analogia con la Pachamama, fonte di nuovi esseri. La figura femminile è percepita come buon augurio di prosperità e fertilità non solo nel posizionamento del seme, ma anche quando si si ricevono visite agli allevamenti durante la fase di semina. Le donne sono accettate e apprezzate perché sono considerate sinonimo di buon augurio per il raccolto; convinzione che vale soprattutto per la raccolta di patate. In questo caso, l'uomo svolge un lavoro che richiede uno sforzo fisico maggiore nella fase della semina: ma il lavoro resta di squadra. Si tratta di un'attività che riunisce il nucleo familiare. In questo compito, ogni membro deve collaborare. Le attività vengono eseguite in modo più equo, pertanto la presenza e la partecipazione di uomini e donne sono un must. Un' altra forma di sussistenza del nucleo familiare è la cura degli animali, nel cui processo di crescita di essi le donne sono gli attori principali, ma il maschio prende le decisioni finali. Generalmente i maschi si prendono cura degli animali più grandi e le donne degli animali di taglia più piccola. Le spiegazioni alla base di questa logica sono divergenti: alcuni affermano che l'uomo sarebbe più incline, adatto e qualificato al commercio di animali di grossa taglia, giacché sarebbe più esperto nell’ individuare il prezzo esatto a chi desidera vendere l’ animale, nonché possiede la forza fisica richiesta per una corretta manipolazione e cura del bestiame di grossa taglia. Questo aspetto si trasforma sempre in una forma e esercizio del potere maschile, dovuto all'accesso della maggior parte del reddito generato dalla vendita. Per quanto riguarda il commercio nel settore agro-alimentare, le donne sono il pilastro fondamentale della produzione agricola, intervengono in tutto il processo che inizia con la semina, la coltivazione, la raccolta e culmina con la vendita nel qhatus. Il prodotto agrario è utilizzato sia per l'alimentazione dei membri della famiglia (logica dell'auto-sussistenza), e sia per la vendita. Il suddetto qhatus è uno spazio eminentemente femminile, visibile in tutte le fiere domenicali. In riferimento al lavoro di comunità, si dà valore alle attività concrete e manuali che coinvolgono e investono lo sforzo fisico; al contrario, il tempo libero è considerato un diritto ma, nell'ambito di un sincretismo religioso legato all’ influenza cattolica, si qualifica come peccato, perché è antagonista al dovere del "lavoro" per le persone aymara.

La fattoria è il luogo dove si verifica l'unione di famiglie, natura e "divinità". Ecco perché la cultura andina è definita come “agrocentrica”. Un altro (il più importante) caso di incontro collettivo è l'assemblea popolare, in questo tutte le decisioni sono adottate con l'idea prevalente del raggiungimento di un ampio consenso. Non si cerca mai di agire solo in base alla posizione di maggioranza, perché questo significherebbe l'esistenza di una minoranza ignorata. L'obiettivo ideale è raggiungere l'unanimità e il consenso, che si traduce in partecipazione del maggior numero di membri della comunità.[6]

La comunità si basa sul legame di due e più coppie, tra le varie coppie che vivono nello stesso villaggio o quartiere e formano la comunità; le coppie sono rispettate nella loro appartenenza e stabiliscono una convivenza armonica. Questo è essenziale giacché si supera la nozione di bisogno materiale che evoca uno sguardo allo spirituale e al trascendente. Ovviamente (ed è banale ricordarlo) le donne hanno lo stesso diritto di parola degli uomini, nelle assemblee popolari, e la stessa possibilità di voto (se non di più). Questo evoca una riflessione che invita a ripensare ai criteri su cui diverse “femministe” liberali ed occidentali (o sedicenti “progressiste”) basano i loro lavori sulle “analisi di genere”. Gli appelli principali di equità, uguaglianza, lotta al machismo e all’ androcentrismo hanno circondato l'interesse a rivendicare la posizione delle donne indigene, soprattutto in spazi pubblici, oltre alle strutture simboliche. Premettendo che il femminismo indigeno è ben organizzato e strutturato (proprio grazie alle tradizioni matristiche-matricentriche ancestrali di cui è portavoce) e che è in prima fila nella lotta contro il patriarcato, le organizzazioni “femministe” occidentali promuovono piani di sviluppo e riorganizzazione basate su un astratto egualitarismo, spesso ricalcato su un modello occidentale di “emancipazionista”, calcato su valori maschili e “produttivisti” (ad esempio, promuovendo la donna single e solitaria in carriera e dai costumi sessuali libertini e spregiudicati). Per questo è pertinente tenere conto che si tratta su due femminismi diversi, due esperienze diverse, e le esperienza sono interpretate, per ogni persona, in termini propri di inculturazione. In altre parole, ogni cultura deve essere analizzata e compresa nel suo contesto; perché ogni cultura riporta idee diverse e divergenti per quanto concerne l’idea di emancipazione. La donna india, partendo da strutture sociali matrifocali, resta strutturalmente più “emancipata” rispetto alla donna occidentale che, al contrario, ha dovuto combattere per secoli, per ritagliarsi spazi in una struttura patriarcale di cui ha mutuato, spesso, valori e stili di vita. Ma questo puro e perfetto principio relativistico non è facilmente praticabile, ancor di più quando si lavora secondo uno schema (che attualmente prevale) di logica. La logica occidentale lavora secondo una prospettiva unilaterale e tenta di evitare di affrontare l’ idea di “benessere” di cui sono portavoce gli indigeni. Non è necessario che l'intervento comunitario si articoli in base a nozione di rivendicazione e inclusione tra donne e uomini, intesi come parte di una struttura sociale e nell'ambito del tessuto culturale (contesto) in cui sono circoscritti. Una donna indigena mai rinuncerà, ad esempio, all’ idea di complementarietà e ad un’organizzazione sociale basata sulla coppia, giacché, secondo il principio di matrifocalità e secondo il culto della Pachamama, deriva proprio da ciò il suo prestigio e il suo potere. Al contrario, inseguendo il “femminismo” emancipazionista occidentale perderebbe tutto il suo prestigio. Inoltre, mai adotterà i costumi sessuali occidentali (una sessualità vissuta con una certa “amoralità” o in un’ ottica libertina) giacché la sessualità è espressione della sacralità della natura e della vita, di cui lei è rappresentate e da cui deriva ampia parte del suo prestigio e della sua importanza. La donna aymara è capo-comunità e ministra di culto proprio perché moglie, madre, nutrice e custode della sacralità della vita. La base dei progetti di sviluppo non dovrebbe modificare le strutture sociali, le relazioni, i ruoli e la socializzazione delle comunità rurali.

L'aspetto “differenziante” da cogliere è che i processi organizzativi aymara sono stabiliti e legittimati in base ad accordi di gruppo (spesso tra donne); tra le famiglie (chacha-warmi) e tra i comuni ed i quartieri perché non esiste una logica individualistica dello sviluppo. Queste logiche hanno visto persone, che rispondendo agli schemi andini delle Comunità Aymara, evocano un' “equalizzazione” tra due metà che si uniscono, in modo da acquisire nuove funzionalità ma mantengono una staticità ancestrale. Ciò che è chiaro è che i concetti di superiorità o inferiorità non appartengono al mondo Aymara, il punto di partenza è un altro. L’ approccio di “equalizzazione” irrompe nella verticalizzazione creando delle logiche relazionali orizzontali. C'è un’ “uguaglianza gerarchica", ovvero basata sulla gerarchia spirituale e su un cammino spirituale di cui la donna è, per definizione, “sacerdotessa”.

Glossario

Abya Yala, "terra nella sua piena maturità" o "terra di sangue vitale", è il nome usato dal popolo nativo americano Kuna, che abitava vicino al Darien Gap (oggi nord-ovest della Colombia e sud-est di Panama) per riferirsi al continente americano prima dell'arrivo di Colombo. Il leader boliviano Aymara Takir Mamani sostiene l'uso del termine "Abya Yala" nelle dichiarazioni ufficiali degli organi di governo delle popolazioni indigene, dicendo che “collocare nomi stranieri nei nostri villaggi, nelle nostre città e nei nostri continenti equivale a sottoporre la nostra identità alla volontà dei nostri invasori e dei loro eredi”. Quindi, l'uso del termine "Abya Yala" piuttosto che un termine come “Nuovo Mondo” o “America” potrebbe avere implicazioni ideologiche che indicano sostegno ai diritti indigeni.

Bolivarismo è il nome dato, dalla filosofia politica e socioeconomica, al movimento di riforma latino-americano della fine del XX secolo, in Centro e Sud America. Bolivarísmo è un rinnovato sforzo per determinare e definire una politica pubblica, autonoma e indipendente in America Latina, idea fondata e ispirata dal Libertador Simón Bolívar, leader del movimento indipendentista latinoamericano, e parzialmente da George Washington e Thomas Jefferson. La piattaforma principale del bolivarismo è la Riforma Agraria, la definitiva risoluzione della “questione contadina” e della “questione indigenista”, questioni che minacciano gli interessi economici transnazionali degli Stati Uniti, che a loro volta regolano vaste porzioni della politica estera nella regione. La “riforma agraria” è stata storicamente osteggiata e respinta attraverso interventi militari e i servizi segreti statunitensi. Gli Stati Uniti e gli apologeti del “libero mercato”, solitamente si sono mostrati ostili al bolivarismo e alla memoria del politico che fu il suo principale sostenitore nella regione, Hugo Chavez, in quanto sia l’ ideologia che la prassi neobolivariana è tendenzialmente statalista, comunitarista, ecologista, egualitaria, identitaria e critica verso il “libero mercato”, la globalizzazione, il globalismo e le varie ideologie neoliberali. Inoltre il bolivarismo, nel suo corpus-dottrinario, ha spesso accolto varie suggestioni derivanti marxismo e dai movimenti legati alla così detta, “sinistra-radicale” o “estrema-sinistra”. Il governo statunitense, spesso utilizzò il nome di Fidel Castro, per esprimere disprezzo verso Chavez e ad altri leader della regione latino-americana che conservarono relazioni diplomatiche e culturali con Cuba, in particolare a causa dell'alta percentuale di alfabetizzazione raggiunta da Cuba, della portata delle conquiste mediche e sociali ottenute al di fuori del “libero mercato” e persino in aperto contrasto con le ideologie “neoliberali”. I metodi storicamente preferiti dall’intervento straniero in America Latina sono stati la destabilizzazione dei governi socialisti e progressisti attraverso la propaganda anti-comunista o anti-socialista o l’utilizzo di vari golpe di stato. Occasionalmente sono stati usati mezzi militari, come nel caso del Guatemala e del Perù nella metà del XX secolo. In questi casi, il termine “comunismo” è stato usato al fine di reindirizzare l'attenzione lontana dalla pressante e spesso drammatica polarizzazione socioeconomica.

Buen Vivir, è il principio costituzionale (Costituzione della Repubblica dell’Ecuador) basato sul “Sumak Kawsay”, che include una visione del mondo centrata sull'essere umano, come parte della realtà naturale e sociale. Nello specifico, il Buen Vivir è la soddisfazione dei bisogni, il raggiungimento di una qualità dignitosa della vita e della morte, l'amore e l'essere amati, una sana fioritura delle qualità umane, in pace e armonia con la natura. Vivere bene significa avere tempo libero per la contemplazione e l'emancipazione, affinché la reale libertà, le opportunità, la capacità e le potenzialità degli individui si espandano e prosperino in modo che consenta loro di raggiungere simultaneamente ciò che la società, i territori, le diverse identità collettive e ciascuno - visto come essere umano universale e particolare allo stesso tempo - considera obiettivo desiderabile nella vita, sia materialmente che soggettivamente e senza produrre alcuna forma di dominio su un altro individuo (secondo il Piano Nazionale per una Buona Vita, 2009 – 2013, su internet: http://www.buenvivir.gob.ec/ inici). Il “Buen Vivir” è radicato nella cosmovisione (o visione del mondo) dei popoli quechua delle Ande, Sumak Kawsay - o Buen Vivir, per assegnargli il nome spagnolo – descrive una visione comunitarista, egualitaria ed ecologista. Uno stile di vita lontano dal capitalismo di mercato, che ispirato alla Costituzione Ecuadoriana, rivista di recente, recita: “... abbiamo deciso di costruire una nuova forma di convivenza pubblica, nella diversità e in armonia con la natura, per ottenere il buon modo di vivere”. Buen Vivir si traduce letteralmente "buon vivere" o "ben vivere", anche se nessuno dei due termini si adatta bene al significato originario indicato dai nativi americani: infatti, il soggetto del benessere non è l'individuo, ma l'individuo nel contesto sociale della propria comunità e nella propria realtà ambientale.

Ecofemminismo è un termine che indica la connessione politica e teorica tra due pensieri critici: il femminismo e l’ecologia. L’ecofemminismo affronta il problema del dominio sulle donne nella società maschilista, ma anche l'ideologia di dominio sulla natura legata al sistema patriarcale. Il termine è stato creato dall' ecofemminista francese Françoise d' Eaubonne, nel 1974, e si sviluppa principalmente negli Stati Uniti nell'ultimo terzo del XX secolo. Le prime connessioni tra femminismo ed ecologia che hanno dato origine all' ecofemminismo si trovano nelle utopie letterarie delle femministe degli anni settanta. Utopie che descrivono una società in cui le donne vivono senza oppressione, il che implica la costruzione di una società ecologica, decentralizzata, non gerarchica e non militarizzata, con una democrazia interna e in cui prevale l'uso di tecnologie più rispettose dell'ambiente. Le idee ecofemministe si diffusero prevalentemente in sette paesi: Francia, Germania, U.S.A., Giappone, Australia, Finlandia e Venezuela. Françoise d' Eaubonne, ideatrice del termine ecofemminismo, nel 1974, teorizzò l'esistenza di un matriarcato originario che implicava relazioni sociali di equità tra uomini e donne. In seguito questo matriarcato sarebbe stato sostituito da un dominio assoluto dei maschi, sulla fertilità delle donne e della terra. La distruzione ambientale contemporanea sarebbe il risultato di quella storia di dominio patriarcale. L'ecofemminismo nacque in risposta a ciò che il movimento stesso definì come appropriazione maschile dell'agricoltura e della riproduzione (cioè della fertilità della terra e della fertilità delle donne) che avrebbe, in seguito, portato allo sviluppo occidentale di tipo patriarcale ed economicista. Secondo l' ecofemminismo, questa appropriazione avrebbe prodotto due effetti perniciosi: lo sfruttamento della natura e dell’ ambiente e la mercificazione della sessualità femminile. Un'altra delle prime autrici fu Susan Griffin con il suo libro Women and natureThe Roaring Inside Her (1978) un'opera di grande potere evocativo e poetico che chiama a recuperare il contatto delle donne con la natura, un contatto perso dalla dominazione patriarcale. Alcune delle autrici iniziali erano teologhe femministe, tra cui Rosemary Radford Ruether o Mary Daly. Negli Stati Uniti, l'ecofemminismo ruotò attorno a due correnti: il femminismo radicale / culturale / spirituale, che mise in evidenza ciò che tendeva a evidenziare la somiglianza "naturale" delle donne con il mondo naturale e, dall'altra, ciò che era orientato verso prospettive più politiche e sociali derivanti dal socialismo e dal marxismo. Nel 1973, nel nord dell'India, le donne del Movimento Chipko riuscirono a proteggere le foreste comunali abbracciando gli alberi, in un atto di protesta pacifica che ne impedirono l'abbattimento. Queste donne hanno dimostrato il valore dell'ambiente e l'hanno difeso nel nome del principio femminile della natura. Nel 1977, Wangari Maathai creò il Movimento per la cintura verde , in Kenya, un programma di piantagione di alberi, per prevenire la desertificazione intorno ai villaggi, piantando oltre 50 milioni di alberi. Nel 1978 a New York, l'attivista ambientalista Lois Gibbs guidò le proteste dopo aver scoperto che il suo quartiere, chiamato “Canale dell'Amore”, era stato costruito su una discarica tossica. Il movimento fu un successo e spinse il governo federale a ordinare l'evacuazione e il ricollocamento di quasi 800 famiglie. Se all'inizio le tesi ecofemministe furono essenzialiste con autrici come Mary Daly, negli anni '90 ci fu una svolta costruttivista. Non si può parlare di ecofemminismo ma di ecofemminismo al plurale. Negli anni '80 e '90, l'ecofemminismo esplora nuove intersezioni tra il femminismo e altri movimenti di liberazione e di giustizia sociale. Esamina la relazione tra genere, razza, classe, natura, specie e colonialismo. Uno dei testi più influenti è The Death of Nature (1980) di Carolyn Merchant che studia l'evoluzione del concetto di natura dal Rinascimento, alla modernità, mostrando la relazione tra l'immaginario filosofico e l'aspetto del capitalismo che riduce la natura alla sudditanza. Staying Alive (1988) di Vandana Shiva, è un testo che critica il "cattivo sviluppo" che l'Occidente impone al resto del mondo. Nel 1990, Carol Adams pubblicò Sexual Policy of Meat, esplorando il rapporto tra l'oppressione delle donne nella nostra società e lo sfruttamento degli animali. Nasce così un ecofemminismo vegetariano. In America Latina, la teologa brasiliana Ivone Gebara, sviluppa la sua opera ecofemminista dalla Teologia della Liberazione. Fonda un collettivo ecofemminista chiamato Con-spirando ecofemminista. La statunitense Karen Warren, ha categorizzato una struttura concettuale opprimente o “logica della dominazione” che sarebbe stata comune a tutte le forme di oppressione. In Spagna, la filosofa ecofemminista Alicia Puleo propone un ecofemminismo critico non essenzialista, che sia nell'etica della vita quotidiana, sia nei movimenti sociali, permetterebbe di muoversi come “materia prima”. Alla fine degli anni '80, un lavoro importante emerge da un sentimento di rispetto e giustizia nei confronti della natura. Non c'è un singolo ecofemminismo, ma diverse tendenze. Data la novità dei suoi approcci e per essere una delle forme più recenti di femminismo, è spesso scarsamente conosciuta e spesso ingiustamente respinta in blocco sotto la qualifica di “essenzialista”. 

Gran Colombia, con il nome ufficiale di Repubblica di Colombia, fu una Repubblica di breve durata (1819-30), sorta sui territori dell'ex Vicereame della Nueva Granada, che comprese approssimativamente le nazioni moderne di Colombia, Panama, Venezuela e Ecuador. Nel contesto della loro guerra per l'indipendenza dalla Spagna, le forze rivoluzionarie del Sud America, guidate da S. Bolívar, nel 1819, pose le basi per un governo regolare nel Congresso ad Angostura (oggi Ciudad Bolívar, Venezuela). La Repubblica fu definitivamente organizzata al Congresso di Cúcuta nel 1821. Prima di allora il governo fu militare e altamente centralizzato, con il potere esecutivo diretto ed esercitato dai vicepresidenti regionali. Si trattò di una repubblica rappresentativa, centralizzata, con capitale a Bogotá. Bolívar divenne presidente e Francisco de Paula Santander vicepresidente. La costituzione richiedeva anche una legislatura bicamerale eletta dalle tre regioni della repubblica. La Gran Colombia ebbe un'esistenza breve e vigorosa ma, in seguito, rivalità civili e militari per incarichi pubblici e gelosie regionali portarono a una ribellione in Venezuela nel 1826. Dopo aver regnato come dittatore dal 1828 al 1830, Bolívar convocò una convenzione per redigere una nuova costituzione che fu riconosciuta solo a Nueva Granada (attuale Colombia e Panama). Bolívar si dimise e partì per la costa settentrionale, dove morì, vicino Santa Marta il 17 dicembre 1830. A quel tempo Venezuela ed Ecuador si separarono dalla Gran Colombia, così lo stato di Gran Colombia si smembrò.

Nuestra América, termine coniato dal filosofo, scrittore e saggista cubano José Martí, attraverso un omonimo saggio filosofico e politico scritto nel gennaio del 1891. Il saggio così intitolato fu pubblicato per la prima volta nella “Revista Ilustrada”, a New York, e poi il 30 gennaio nel quotidiano messicano “El Partido Liberal”. Nuestra America venne alla luce appena conclusa la Conferenza Internazionale Americana e gli incontri della Commissione Monetaria, come sintesi delle idee presenti nelle cronache sulla Conferenza, il Rapporto sui risultati della Commissione e altri scritti contemporanei come il discorso tenuto alla Hispano-American Literary Society di New York, il 12 dicembre 1889. Il saggio corrisponde alla produzione di Martí nel suo periodo nordamericano (1880-1895). L'obiettivo fondamentale del saggio è l'analisi critica di una data situazione storica e, da lì, la formulazione di proposte per il cambiamento sociale. Nuestra America è nata in un contesto storico in cui l'indipendenza dell'America Latina, intorno al 1890, non è più minacciata dalle metropoli iberiche, che sono potenze al crepuscolo, ma dalla rivalità delle nuove potenze europee e soprattutto dalla straordinaria potenza americana: gli Stati Uniti d'America.

Patria Grande è un concetto che si riferisce all’idea di una possibile unità politica ispano-americana, con la premessa che vi siano legami comuni, una lingua comune e una storia condivisa. Il concetto è strettamente legato all’ideale di “unità ispano-americana” e il riferimento all’operato del libertadores della guerra d’indipendenza ispano-americana è piuttosto chiaro. Il termine fu reso popolare da Manuel Ugarte, nel 1922, quando pubblicò il suo libro La Patria Grande, dove si raccolgono discorsi tenuti in vari paesi ispano-americani, promuovendo l'idea dell'unità politica ed economica ispanico-americana. Sebbene non vi siano esperienze durature o positive di un’unità politica, sono stati costruiti diversi strumenti istituzionali che si muovono verso una maggiore integrazione regionale, come Unasur e Mercosur. Così, in questo contesto, è nata la proposta argentina della Patria Grande di una grande unità regionale.

Sumak Kawsay, parola quechua che si riferisce alla visione del mondo ancestrale della vita. Dalla fine del XX secolo è anche una proposta politica sviluppata principalmente in Ecuador e in Bolivia. In Ecuador è stata tradotta come " Buen vivir", anche se gli esperti di lingua quechua concordano che la traduzione più accurata sarebbe “vita in pienezza”. In Bolivia la parola originale in Aymara è “Suma Qamaña” che è stata tradotta con "Vivere bene". Nel suo significato originale quechua, Sumak si riferisce alla realizzazione ideale del pianeta, mentre Kawsay significa "vita", una vita dignitosa, in pienezza. Nomi simili esistono in altre popolazioni indigene, come i Mapuche (Cile), i Guaranì di Bolivia e Paraguay, che si riferiscono rispettivamente al loro teko kavi (bella vita) o tekó porä (buon vivere o buon modo di essere), in Achuar (l’ Amazzonia ecuadoriana) ma anche nella tradizione Maya (Guatemala), nel Chiapas (Messico), tra i Kunas (Panama), etc. Dall'ultimo decennio del Novecento, Sumak Kawsay ha sviluppato una proposta politica che cerca il "bene comune" e la responsabilità sociale nel rapporto con Madre Natura e un freno all'accumulazione senza fine, che emerge come alternativa allo sviluppo tradizionale. Il "buon vivere" pone la realizzazione dell'essere umano in modo collettivo, con una vita armoniosa basata su valori etici in contrapposizione al modello di sviluppo basato su un approccio economicista come produttore di beni di valore monetario. Inizialmente il concetto è usato dai movimenti indigeni dell'Ecuador e della Bolivia insieme a un gruppo d’intellettuali, per definire un paradigma alternativo allo sviluppo capitalistico che acquisisce una dimensione cosmologica, olistica e politica. Nel primo decennio del XXI secolo è stato incorporato nella Costituzione dell'Ecuador (2008) e nella Costituzione dello Stato Plurinazionale della Bolivia (2009).

 

 Bibliografia

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NOTE

[1] Filosofia del Buen Vivir, Allin Kawsay International Workshop: Good Living, 25 giugno 2013, su internet: https://filosofiadelbuenvivir.com/2013/06/25/transiciones-hacia-el-vivir-bien-o-la-construccion-de-un-nuevo-proyecto-politico-en-el-estado-plurinacional-de-bolivia/, ultimo accesso 23/01/2021.

[2] Katu Arkonada , Vivere bene, il paradigma indigeno in discussione, AINI, Intercultural Agency for Indigenous News (AINI), Santa Cruz, Bolivia, 10/06/2009, su internet: http://www.aininoticias.org/, ultimo accesso 23/01/2021.

[3] Marianela Agar Diaz Carrasco, Sviluppo e chacha-warmi: logiche di genere nel mondo aymara, Casa de las Américas, La Habana (Cuba), 29/06/2010, su internet: https://biblat.unam.mx/es/revista/casa-de-las-americas/articulo/desarrollo-y-chacha-warmi-logicas-de-genero-en-el-mundo-aymara, consultato il 02/02/2021.

[4] Ibidem

[5] Ibidem

[6] Ibidem

 

 

Fonte: https://www.ideologiasocialista.it/...

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