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Esportare la libertà? Purtroppo è più facile importare il comunitarismo!

L’occidente viene spesso accusato di “esportare” i propri valori. Ma il fatto di essersi evoluto come società aperta rischia di farlo anzi diventare il ventre molle in cui penetrano vecchi e nuovi miasmi di integralismo. Lo vediamo in diversi paesi, dove si impone un multiculturalismo ideologizzato e politico nel nome dell’inclusività (come quelli anglosassoni) o dove permane un tradizionale confessionalismo (come il nostro). Ne parla Valentino Salvatore sul n. 6/2021 della rivista Nessun Dogma.

Sugli schermi di tutto il mondo abbiamo visto la fuga dei soldati statunitensi e di migliaia di afghani che si accalcavano all’aeroporto di Kabul con i talebani alle porte. Un quadro drammatico del fallito tentativo di “esportare” democrazia e libertà in Afghanistan. In poche settimane una scarna e corrotta struttura istituzionale è collassata di fronte all’offensiva talebana. Dopo vent’anni e centinaia di migliaia di morti. Qualche rassicurazione di facciata sui “diritti” e cala la cappa dell’integralismo religioso: pugno di ferro, amputazioni e impiccagioni, sharia e ordine, banditi fronzoli e divertimenti, donne segregate ed escluse da interi settori in cui si stavano ritagliando spazio. In nome dell’islam integralista e adattato alle condizioni locali.

I talebani hanno un largo consenso, o comunque sono visti come il male minore. Un contesto diversissimo da una società occidentale, dove sono riconosciuti diritti e libertà all’individuo e tutt’altri standard di vita (e di morte). Come hanno detto in molti, «è la loro cultura», mentre l’invasione occidentale è imperialismo. Quindi possiamo, da laici, arrenderci al fatto che in gran parte del mondo hic sunt leones?

Le nostre società, con tutte le loro falle, sono relativamente libere, tolleranti e plurali. Come ci siamo arrivati? Non certo perché l’uomo bianco è una razza superiore. Il processo è lungo, tra arretramenti e scatti in avanti. Ci aiutano le riflessioni di Karl Popper sulla società “aperta”, cioè «aperta a più valori, a più visioni del mondo filosofiche e a più fedi religiose». Un elemento fondamentale è la separazione tra legge divina e terrena. Ma il tribalismo collettivista, che ieri ha generato i totalitarismi e l’altro ieri le teocrazie, è in agguato.

Oggi, dentro le società occidentali attraversate da tensioni sull’integrazione, umori populisti, sgretolamento di certezze e secolarizzazione, genera due forme di identitarismo. Quello degli autoctoni, che si rifugia nella tradizione nazionalista e religiosa, teme l’annacquamento che porterebbero i migranti, senza disdegnare pose xenofobe. E il comunitarismo delle minoranze, che per reazione si chiudono nell’integralismo religioso e pretendono di ritagliarsi spazi di autonomia e autogoverno – sfruttando tolleranza e libertà delle società “aperte” – impensabili nelle terre d’origine. Dinamica ben descritta da Kenan Malik, filosofo britannico di origine indiana. Capace di un originale e coraggioso sguardo multiprospettico, rivendica il valore del pensiero illuminista, dei diritti individuali e della laicità proprio in polemica con queste due opposte derive, che hanno molto più in comune di quanto non si creda.

Alla base di entrambe c’è un sottofondo relativista e postmoderno che crea il feticcio di una cristallizzata comunità culturale e la assegna all’individuo come sua “natura”. Ma come la natura è evoluzione, le culture non sono impermeabili e uniformi: la realtà sociale è stratificazione, conflitto, differenza, aspirazioni individuali. La retorica dello scontro di civiltà, spesso declinata in chiave pregiudizialmente anti-islamica, fa perdere di vista che c’è prima di tutto uno scontro dentro le civiltà, ogni civiltà. Come suggerisce Martha Nussbaum partendo dalle violenze degli estremisti indù contro la comunità musulmana nel nome della presunta omogeneità etnico-religiosa dell’India.

Sappiamo bene anche quanto giochino conformismo e autocensura dentro qualsiasi gruppo. Specie se il rischio è di subire violenza, ostracismo, venire considerati dei dropout e fare la fame. Eppure le collettività sono effervescenti, in continuo mutamento. Basti considerare la società in cui viviamo. Perché dovremmo pensare per pregiudizio che le società e le culture non occidentali siano appiattite e omogenee? È la narrazione fittizia costruita dagli identitaristi, nostrani e no. L’ossessione per l’identità collettiva crea storture, con discorsi che paradossalmente pencolano verso il razzismo anche da chi si schiera a difesa di minoranze e stranieri.

In realtà è l’impianto delle società occidentali che sembra sottoposto a pressioni, tutt’altro che trionfante. Nonostante le diffuse lamentele sull’occidente “esportatore”, questo occidente – proprio per il fatto di essersi evoluto come società aperta – rischia di diventare ventre molle in cui penetrano vecchi e nuovi miasmi di integralismo. Un fenomeno che si nota dal livello micro a quello macro. Si vedano i casi di doppia cittadinanza, o questioni che riguardano cittadini di paesi occidentali.

Come quello di Ikram Nazih, una ventitreenne nata in Italia da genitori marocchini. Nel 2019 condivide sui social un meme ironico su una sura coranica. Subissata di insulti da pii musulmani, si scusa e rimuove il post. Ma qualcuno fa lo screenshot e la denuncia in Marocco. Un solerte doxing in pochi anni diventa un affare internazionale. Nel 2021 la giovane va in vacanza nel paese della famiglia: atterrata a Casablanca, viene arrestata. Processata e condannata per blasfemia a tre anni e mezzo di carcere. Dopo la mobilitazione di giornali e attivisti e il lavorio della diplomazia italiana si arriva all’assoluzione. Parliamo del Marocco, un paese giudicato relativamente “aperto” nel panorama islamico. Ma sempre guidato da un re che si proclama “Comandante dei credenti”, con un assetto rimasto alle carte octroyée dell’ottocento, quando un sovrano “illuminato” concedeva la costituzione e creava un governo.

Un caso come quello di Nazih mostra la delicata situazione di chi ha la doppia cittadinanza: nei paesi occidentali ha garanzie e diritti, invece a rischio se va nei paesi d’origine. Può ritrovarsi invischiato in leggi arretrate e vivere incubi in un contesto che non gli appartiene, di cui magari non conosce usanze, lingua, religiosità (con buona pace degli identitaristi di ogni risma). Anche qui, invece di esportare democrazia, si importa il confessionalismo altrui.

Nei paesi dove il multiculturalismo ideologizzato – ben diverso dall’idea di una società multiculturale e multietnica – ha preso piede vengono sdoganati sistemi giudiziari paralleli gestiti da autoproclamati rappresentanti di comunità (spesso religiose) che amministrano controversie di diritto personale: matrimonio, divorzio, custodia dei figli, divisione e controllo della proprietà familiare o dell’eredità. Con conseguenze per categorie come donne o minori che possiamo immaginare, in contesti dove pesano molto conservatorismo, patriarcato e sessismo legittimati dalle fedi. Famigerato è il caso delle sharia court nel Regno Unito. Media e rapporti governativi ne hanno evidenziato le criticità. Le parti “deboli” in causa non hanno soldi, non trovano canali esterni per far valere i propri diritti, devono sottostare a prassi umilianti dove l’uomo-capofamiglia la fa da padrone. Già più di vent’anni fa la femminista Susan Moller Okin ammoniva sul conflitto difficilmente sanabile tra multiculturalismo e femminismo.

Situazione simile in Israele, per l’evidente carattere confessionale dello stato, solo temperato da spruzzi di laicità. Vige il sistema del beth din: un tribunale di rabbini ortodossi decide non solo su faccende religiose come certificazioni kosher, circoncisione e conversioni, ma pure su matrimoni e divorzi. Tra ebrei le nozze sono in pratica solo religiose e si complicano per coppie miste. Il divorzio ebraico viene concesso solo dall’uomo (non dalla donna o di comune accordo), come racconta anche il film Viviane di Ronit e Shlomi Elkabetz.

Nei paesi occidentali l’assetto comunitarista viene tollerato per metabolizzare il senso di colpa coloniale e rendere giustizia per le atrocità commesse verso nativi e popoli dominati, come avviene in Canada. Infatti questo paese è una delle culle del pensiero multiculturalista, che rischia di giustificare forme di autoghettizzazione e discriminazione nel nome della “propria” identità. Uno dei massimi teorici è il cattolico canadese Charles Taylor, non a caso anche critico della secolarizzazione. Sebbene venduto come aperto e rispettoso della pluralità, il multiculturalismo contemporaneo somiglia al sistema dei millet del vecchio impero ottomano, quando i musulmani turchi lasciavano alle minoranze religiose dominate la facoltà di autogovernarsi, o meglio di farsi governare dai leader confessionali.

L’identitarismo fondato sulla versione più “pura” di una religione rischia di giustificare qualsiasi cosa: possiamo andare in giro con un’arma anche se in teoria non la usiamo (vedi il kirpan dei sikh), essere irriconoscibili in pubblico e persino sul posto di lavoro (vedi niqab o burqa), assumere droghe (vedi rastafari o culto del peyote), sottoporre a operazioni chirurgiche non necessarie, se non a mutilazioni genitali, le bambine (vedi l’infibulazione) e i neonati maschi (vedi la circoncisione ebraica e islamica), macellare animali con metodi più cruenti o bandire certi alimenti per inseguire una fittizia purezza ortoressica (vedi kosher e halal), pretendere forme di segregazione tra uomini e donne o rispetto agli estranei per salvaguardare il pudore, legittimare carcere e uccisioni per chi viene colto a trasgredire “leggi” religiose o a mancare di rispetto alla fede. Tutte cose che per i comuni mortali senza la tutela dell’ideologia religiosa non sono ammesse o diventano reato. Proprio la laicità può essere invece l’antidoto alla deriva comunitarista, perché costruisce per ognuno una cornice di autonomia, promuove l’uguaglianza di diritti e doveri a prescindere dal credo, difende le libertà dall’invadenza confessionale.

Non serve andare lontano. Pensiamo all’autorità che ha tuttora il Vaticano nelle sentenze, con la delibazione: tribunali ecclesiastici che fanno capo a uno stato straniero e teocratico emettono pronunciamenti riconosciuti dalla giurisprudenza di un altro stato, ovvero l’Italia, in teoria laico e democratico. Grazie al Concordato, residuo fascista che ha comportato una cessione di sovranità, sacrificata sull’altare del confessionalismo. In passato uno dei punti di attrito più feroce tra gli stati (o i potentati dell’epoca) e la Chiesa era la giurisdizione: il clero pretendeva di ritagliarsi spazi di immunità.

Con i secoli, e un processo tutt’altro che lineare e indolore, la Chiesa ha perso molte prerogative “secolari” e privilegi. Si prenda il segreto confessionale, tema caldo negli anni in cui la Chiesa è travolta dallo scandalo pedofilia. Una delle trincee clericali rimane proprio il “diritto” di non denunciare alle autorità fatti appresi durante la confessione, perché è un sacramento. E pretendere di gestire questi reati con procedimenti interni, senza dover rendere conto alle autorità “terrene”.

In fondo la sussidiarietà alla cattolica, una delle basi della dottrina sociale della Chiesa, somiglia alla versione nostrana del multiculturalismo. Punta infatti a svuotare di poteri lo stato moderno, visto come accentratore, laicista e assimilazionista, per spalmarli tra stratificate autorità e lasciare più manovra alla Chiesa come rappresentante della comunità di fedeli.

Pensabile, soprattutto nel mondo odierno, che i popoli possano conquistarsi traguardi di libertà e laicità senza qualche spinta più o meno gentile, rimanendo ermeticamente chiusi? Credere che l’isolazionismo sia vincente pare una pia illusione. Difficile che le culture possano autonomamente propendere verso la modernità se si chiudono nell’identitarismo. D’altronde lo stesso occidente è il risultato millenario di influssi diversissimi, interni ed esterni, e di processi tutt’altro che graduali e lineari.

Non siamo più ai (bei?) tempi della rivoluzione francese, con gli ideali di progresso sulla punta delle baionette e la testa di chi si opponeva troncata dalla ghigliottina. Una delle grandi sfide del ventunesimo secolo è far germogliare in maniera originale, meticcia e multiforme quegli ideali di libertà, uguaglianza, democrazia e laicità che difendiamo in casa. Non abbandonare al proprio grigio destino chi sogna un po’ di emancipazione e neanche cadere nella tentazione di portare la civiltà come il fardello dell’uomo bianco.

Queste idee di progresso sono nutrite da sentimenti e capacità razionali che non sono in esclusiva, a meno di non voler considerare gli altri popoli come antropologicamente diversi per qualche carattere “razziale”. Già sono portate avanti con fatica da milioni fra scettici e razionalisti che combattono superstizioni e pratiche aberranti; donne che lottano per la propria dignità contro sessismo e patriarcato e per la libertà riproduttiva; attivisti lgbt+ che vogliono uscire dall’ombra e combattono l’omofobia; scrittori e intellettuali che mettono in discussione le religioni dominanti; artisti e comici che osano spingere la soglia dell’ironia sempre più avanti, persino fino alla “blasfemia”; esuli in cerca d’asilo che fuggono da stati oppressivi; credenti come atei, ministri di culto come apostati che resistono tutti con la propria coscienza all’ottusità di regimi confessionalisti o antireligiosi.

Riscopriamo le loro storie, le loro lotte, recuperiamone la memoria, aiutiamoli quando cercano visibilità e sostegno o vengono repressi. Perché facciamo parte della stessa variopinta famiglia umana. Oggi social, globalizzazione e secolarizzazione permettono connessioni, scambi e incontri prima inimmaginabili. Per contribuire, insieme, a un melting pot più libero e laico.

Valentino Salvatore

 

Approfondimenti

  • Kenan Malik, Il multiculturalismo e i suoi critici. Ripensare la diversità dopo l’11 settembre (2013)
  • Susan Moller Okin, Diritti delle donne e multiculturalismo (2007)
  • Martha Nussbaum, Lo scontro dentro le civiltà. Democrazia, radicalismo religioso, futuro dell’india (2009)
  • Karl Popper, La società aperta e i suoi nemici (1945)
  • Cinzia Sciuto, Non c’è fede che tenga. Manifesto laico contro il multiculturalismo (2018)

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