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Enel a caccia di super finanziamenti atomici

Enel a caccia di super finanziamenti atomici

Se l’accordo tra Enel ed Edf dovesse andare a buon fine, in Italia saranno costruiti quattro impianti nucleari, che sposteranno investimenti per un totale di 18 miliardi di euro. Stando ai dati diffusi, quando le centrali funzioneranno a pieno regime il prezzo dell’energia scenderà sensibilmente, 40 euro per megawatt, contro i 65 odierni per l’energia derivata dal gas o dal carbone.
 
Nei giorni scorsi il gruppo Edf, il gruppo che dovrebbe firmare l’accordo con l’Enel, aveva accusato Areva di aver interrotto le operazioni di approvvigionamento di uranio per le 58 centrali francesi. Areva aveva smentito immediatamente le accuse del gruppo elettrico, assicurando che erano stati sospesi solo il trasporto e il trattamento delle scorie nucleari in ragione della scadenza del contratto a fine 2009 che regolava tali attività.
 
In un comunicato, Matignon rende noto che il gruppo Areva ha confermato "la ripresa delle operazioni di trasporto delle scorie delle centrali nucleari di Edf verso il sito di Le Hague". Tutta la questione si muove sul filo del rasoio, strategie aziendali e affari politici, nel mezzo i movimenti civici che dicono no al nucleare.
 
Per riuscire nel colpaccio l’Enel dovrà dimostrare tutta la propria abilità nel trovare le banche che finanzieranno il progetto seguendo certi criteri. Nella giornata di ieri, Enel ha inviato alla Consob la bozza dell’emissione di bond retail con valore massimo di 4 miliardi di euro, che ha lo scopo di ristrutturare il debito della società.
 
Secondo le prime fonti il piano per l’emissione di obbligazioni sarà completato verso febbraio-marzo ed avrà un valore di circa 2 miliardi, che potranno diventare 3. Un gioco psicologico molto efficace, da una parte le aziende chiamate alla realizzazione degli impianti si stanno muovendo velocemente per garantirsi appalti e finanziamenti, dall’altra, il fronte politico si muove come se tutta la faccenda legata al nucleare dovesse essere qualcosa di lontano e di difficile attuazione e del resto sarà argomento usato e abusato nelle prossime elezioni regionali come efficace mezzo propagandistico.
 
Gli imprenditori si muovono, la politica frena e getta acqua sul fuoco, i ministri preparano i tavoli, i media tenuti lontani o accontentati con dati bugiardi. L’8 novembre 1987 in Italia si votò per cinque referendum, tre di questi riguardavano l’energia nucleare. Nessuno dei tre quesiti chiedeva l’abolizione o la chiusura delle centrali nucleari.
 
I votanti furono il 65,1%, con un’altissima percentuale di schede nulle o bianche che andarono dal 12,4% al 13,4%. Nel primo quesito veniva chiesta l’abolizione dell’intervento statale nel caso in cui un Comune non avesse concesso un sito per l’apertura di una centrale nucleare nel suo territorio. I sì vinsero con l’80,6%.
 
Nel secondo quesito veniva chiesta l’abrogazione dei contributi statali per gli enti locali per la presenza sul loro territori di centrali nucleari. I sì s’imposero con il 79,7%.
 
Nel terzo quesito veniva chiesta l’abrogazione della possibilità per l’Enel di partecipare all’estero alla costruzione di centrali nucleari. I sì ottennero il 71,9%.
 
Il referendum è uno strumento di esercizio della sovranità popolare sancita all’art. 1 della Costituzione della Repubblica Italiana. L’esito referendario, espressione di questa sovranità, è una fonte del diritto primaria che vincola i legislatori al rispetto della volontà del popolo.
 
Quindi va ricordato a tutti che, qualora in un futuro prossimo un comune di Italia si rifiutasse di accogliere una centrale nucleare, il governo non potrebbe imporgli nulla, che il governo non potrà promettere contributi statali come forma di persuasione verso nessun comune, e che l’Enel non può e non potrà partecipare alla realizzazione di centrali nucleari all’estero.
 
Tuttavia l’Enel ha già violato o aggirato tale legge quando nel 2006 annunciava l’acquisizione della società slovacca "Slovesnke Elektrarne", principale impresa del settore con l’83% della potenza istallata. Il 38% dell’energia erogata dalla SE derivava dallo sfruttamento del nucleare.
 
In cambio della cessione, l’Enel si impegnava a garantire il completamento di due antiquati reattori nucleari sovietici del tipo VVER 440 – 213, la cui costruzione fu interrotta definitivamente nel 1993. Al momento sono tre le aziende veronesi, su 24 venete, interessate alla riapertura delle centrali nucleari in italia: si tratta di Casagrande, Lever, e Mondini cavi.
 
Aziende che sono state convocate ieri dall’Enel e da Confindustria al “Supply Chain Meeting” di Roma, primo di una serie di appuntamenti col mondo imprenditoriale italiano. Le imprese sono quelle interessate a prendere parte, a vario titolo, al nuovo capitolo del nucleare italiano.
 
Avranno tutte 4 anni di tempo per raggiungere gli standard produttivi richiesti e partecipare agli appalti. In gioco investimenti per 16–18 miliardi di euro per il programma Enel–Edf che prevede la costruzione di reattori francesi di terza generazione. Francesi perché nel febbraio 2009 firmavano un accordo quadro, Berlusconi e Sarkozy. L’accordo prevedeva un 50% dell’affare alla Francia e il resto diviso tra le aziende italiane e alla principale filiera tecnologica concorrente: l’Ap1000 dell’americana Westinghouse.
 
Infatti l’Italia parteciperà con l’Enel, dopo la firma, anche alla costruzione della seconda centrale francese Epr a Penly (sempre con il 12,5%, così come ha fatto a Flamanville, altra violazione al referendum del 1987?). Con l’Enea diventerà partner nella ricerca per il nucleare di quarta generazione nei laboratori di Cadarache.
 
Sarà persino disposta ad adottare l’impostazione francese per la costituenda agenzia per la sicurezza nucleare. E coinvolgerà Finmeccanica per formalizzare uno dei quattro patti industriali che rendevano operativo l’accordo politico. Il gioco della bilancia; a Fimmeccanica, che già partecipava al gioco attraverso Ansaldo Energia, sarebbe dovuta andare l’intera quota del 34% che i tedeschi avevano deciso di cedere con l’assenso dei francesi, facendo evaporare l’idea del grande patto franco-tedesco sul nucleare "europeo". Oppure la quota tedesca, il cui valore è stimato attorno ai 2 miliardi di euro, è andata in parte a Finmeccanica e in parte alla francese Alstom?
 
Stando agli impegni presi dal nostro Governo l’Italia dovrà avere il 25% di energia nucleare a cavallo del 2020. In gioco ci sono almeno 12mila megawatt a fronte dei 1600 megawatt di un impianto Epr e dei 1.100 megawatt dei più piccoli gruppi americani Ap1000. Serviranno dunque otto-dieci centrali.
 
Andrea Lepore, responsabile Campagna Nucleare di Greenpeace, ha spiegato ad Affaritaliani come il ritorno al nucleare non sia affatto un buon affare per l’Italia: ’’Ma quale 70% degli investimenti per il nucleare destinati alle nostre aziende. Al massimo si tratterà del 40% e comunque finirà anche questo in mano a imprese francesi. E nemmeno per il clima, se si raddoppiasse il numero dei reattori presenti in tutto il mondo si otterrebbe una riduzione di appena il 4% della Co2".
 
Quindi tutti molto "abbottonati" sulla futura localizzazione delle centrali che ufficialmente si conoscerà solo tra circa un anno ma, in realtà, tutto è già stato predisposto almeno a grandi linee. E le scorie nucleari che fine faranno?
 
Intanto ci ha gia pensato un Dpcm (Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri), ultimissimo atto del governo Prodi ed entrato in vigore il 1° Maggio 2008, che allarga il campo d’applicazione del segreto di Stato, in nome della tutela della sicurezza nazionale, ad una lunga serie di infrastutture critiche tra le quali "gli impianti civili per produzione di energia".
 
Questo significa che i siti per il deposito delle scorie nucleari, nuovi impianti civili per produzione di energia, centrali nucleari, rigassificatori, inceneritori/termovalorizzatori potranno essere coperti da segreto di Stato. Segreto che si estende anche agli iter autorizzativi, di monitoraggio, di costruzione e della logistica di tutta la filiera.
 
Praticamente questo Dcpm autorizza la segretezza e la mancata trasparenza a danno dei cittadini che non potranno, in nessun modo, poter conoscere anche solo la localizzazione dei depositi destinati ad ospitare gli scarti della produzione di energia dall’atomo.
 
Su questo tema durante un convegno sul nucleare organizzato nel centro ricerche dell’Enea alla Casaccia qualcosa trapelava per voce del responsabile della Sogin (Società gestione impianti nucleari Spa) Luigi Brusa: «Sulla carta sono previsti quattro anni per la sua localizzazione e due-tre anni per la costruzione. Il deposito nazionale avrà le dimensioni di un campo da calcio alto quattro o cinque metri. Di per sé non avrà dimensioni eccezionali, mentre sarà molto più vasto lo spazio circostante, dedicato agli edifici del centro di ricerca previsto attorno al deposito».
 
Brusa poi ha accennato anche alle scorie ad alta attività, per le quali «non è in programma un deposito geologico definitivo perché finora i rifiuti ad alta attività sono molto pochi. Considerando che probabilmente in Europa nasceranno depositi destinati a questo scopo, si sta pensando ad accordi con i Paesi che li ospiteranno per acquisire parte dello spazio disponibile. Al momento questa è la soluzione più economica».
 
Per quanto riguarda i costi dello smaltimento, secondo quanto ha dichiarato il responsabile della Sogin sono al momento equivalenti alle stime fatte in passato, «ossia sono pari a circa il 40% del costo di smantellamento della centrale nucleare ed eventuali variazioni dipendono dalle tecnologie adottate» ha concluso Brusa.
 
La Sogin spa, avvallando la certezza di un futuro nucleare in Italia, nasceva per garantire lo smantellamento delle vecchie centrali nucleari ma che oggi si aggiudica luculliani appalti prossimi. Poiché la Sogin è una società pubblica è finanziata dai soldi dei consumatori elettrici attraverso una tariffa aggiuntiva alle bollette che viene decisa dall’Autorità per l’energia elettrica e il gas.

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