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Emofilia e sport: uno stile di vita attivo per sentirsi meglio

Il 17 aprile 2017 si è celebrata la Giornata Mondiale dell'Emofilia. Un'occasione per iniziare a parlare di questa malattia rara, delle terapie a disposizione e degli aspetti che concorrono a migliorare la qualità della vita dei pazienti. Come l'attività fisica

di Eleonora Degano 

L’attività sportiva e uno stile di vita attivo sono fondamentali per la salute mentale e fisica di ogni persona, comprese quelle che soffrono di patologie come l’emofilia e alle quali praticare uno sport può portare grandi benefici. Tuttavia, nonostante gli enormi passi in avanti degli ultimi decenni, la patologia rimane poco conosciuta e i pazienti incontrano spesso difficoltà, soprattutto per ottenere l’idoneità all’attività agonistica.

L’emofilia oggi, terapia e qualità della vita

L’emofilia è una malattia genetica rara dovuta alla carenza o inattività dei fattori di coagulazione del sangue, il fattore VIII per l’emofilia A (la forma più diffusa, con incidenza di un caso ogni 5.000 maschi nati vivi) e il fattore IX per la B. Colpisce prevalentemente i maschi e la conseguenza è un aumento del rischio di emorragie spontanee e sanguinamenti prolungati dopo un trauma, soprattutto a carico delle articolazioni. In Italia ne soffrono più di 4.000 persone.

La condizione del paziente oggi non potrebbe essere più diversa da quella di appena un ventennio fa. “Ci sono emofilici che hanno giocato nella serie A di pallanuoto e un emofilico trentino è stato per anni campione del mondo di corsa in montagna. Quasi tutte le attività sportive possono essere praticate, con attenzione e disciplina”, spiega a OggiScienza Daniele Preti, Direttore Esecutivo di FedEmo, Federazione delle Associazioni Emofilici.

A rivoluzionare la qualità della vita dei pazienti è stata la profilassi, un trattamento per via endovenosa che mantiene alti i livelli di fattore coagulante, riducendo così le emorragie. Per i pazienti di emofilia A grave o moderata si tratta di due o tre infusioni a settimana, una per chi invece soffre di emofilia B.

Oggi è quasi la norma e tra bambini, adolescenti e giovani adulti con emofilia grave (attività biologica del fattore di coagulazione inferiore a 1%) “la seguono almeno nove persone su dieci”, dice a OggiScienza Chiara Biasoli, Responsabile del Centro Emofilia di Cesena e membro del Comitato Medico Scientifico di FedEmo. “Nei bimbi piccoli si inizia quasi da subito, prima che si verifichino le emorragie articolari che a lungo andare possono causare l’artropatia emofilica”.

Fino agli anni ’70 del secolo scorso i pazienti non potevano fare quasi nulla per migliorare la propria qualità della vita, erano “condannati a un severo grado di invalidità progressiva, già a partire dai 20-30 anni” e lo sport era di rado una possibilità, racconta Preti. “Poi sono arrivati i crioprecipitati, una prima risorsa terapeutica, e in seguito i farmaci ricombinanti che hanno permesso di sviluppare la profilassi”.

Oggi gli emofilici vengono incoraggiati a praticare attività fisica: gli sport più adatti sono quelli con contatto scarso o assente (come nuoto, tennis…) mentre a essere controindicati sono quelli con elevato rischio di traumi (boxe, rugby…). Se non si pratica a livello agonistico “è sufficiente avere il nullaòsta del medico di base”, conferma Biasoli, “anche se ovviamente i rischi non sono nulli”.

Nonostante l’approccio al trattamento dell’emofilia sia multidisciplinare, inoltre, “il medico generico potrebbe essere coinvolto molto più di quanto accade ora, anche perché sarà lui a interagire più spesso con il paziente. Questa mancanza di coinvolgimento, dunque di informazione, fa sì che in tema di sport a volte i medici di famiglia siano troppo protettivi, specialmente in età pediatrica, o al contrario non abbiano la reale percezione del rischio”.

Nella conoscenza della malattia si può ancora migliorare. “A scuola, specialmente alle primarie, può succedere che le maestre abbiano timore e il bambino emofilico finisca a fare l’arbitro invece che giocare con gli altri”, prosegue Preti. “Per questo tra le nostre attività c’è anche parlare con gli insegnanti, non solo riguardo alle attenzioni da avere ma anche per far loro capire che questi ragazzini possono condurre una vita normale. La conoscenza della malattia è molto migliorata, ma tanti la associano ancora a immagini irreali come un bambino che si dissangua per un piccolo taglio”.

L’emofilia e lo sport agonistico: evidenze a favore e ostacoli da superare

Anche se in buona salute, un paziente emofilico “può comunque non ottenere l’idoneità alla pratica sportiva agonistica”, dice Preti. “Uno dei motivi è che di rado i medici dello sport conoscono la malattia direttamente, dunque non hanno gli strumenti per valutare le reali condizioni fisiche del paziente. Un ragazzo emofilico può essere il più bravo della squadra e non poter comunque proseguire il percorso sportivo”.

Fare sport non è solo positivo per la salute fisica di bambini e ragazzi, ma aiuta nella coordinazione, promuove la socializzazione e la fiducia in stessi. Anche per questo motivo il percorso ideale per indirizzare gli emofilici allo sport – e per dare l’idoneità alla pratica agonistica – dovrebbe tener conto di fattori come l’indole, la predisposizione per un’attività di resistenza o di sprint e così via. Ma capita che si interrompa prima di una valutazione davvero personalizzata.

“In termini di medicina dello sport, in Italia c’è una ‘bivalenza’. Da una parte ci sono i medici che seguono le società sportive, dall’altra quelli che lavorano negli ambulatori delle aziende sanitarie. I primi possono specializzarsi in un solo sport e averne una visione a 360°, mentre i secondi si occupano di diversi sport e per rilasciare o meno l’idoneità alla pratica agonistica devono individuare le possibili controindicazioni. Nel caso il paziente subisca un trauma, su di loro ricade un’enorme responsabilità legale. Il che non succede nel resto d’Europa e nel mondo”, spiega Biasoli.

Anche per questo motivo FedEmo insieme a FMSI (Federazione Medico Sportiva Italiana), AICE (Associazione Italiana Centri Emofilia) e con la collaborazione di vari professionisti sta lavorando “a un iter condiviso e soprattutto legittimato per facilitare questi percorsi. Vorremmo ‘riscoprire’ il ruolo del medico sportivo, affinché sia a fianco del medico del centro emofilia non solo per dare o meno l’idoneità agonistica, ma per trovare lo sport più adatto al paziente”.

Le evidenze sui benefici dell’attività motoria per gli emofilici di tutte le età sono molte e note da anni, sia sul sistema cardiovascolare che su quello respiratorio e osteoarticolare. Muscoli più forti significano meno emorragie e meno danni alle articolazioni. “Con la disponibilità della profilassi e in vista di terapie con più lunga emivita, che richiederanno un minor numero di infusioni a settimana, la valutazione è diventata sempre più individuale e possiamo dare anche allo sport l’attenzione che merita”, prosegue Biasoli. E gli studi più recenti non fanno che confermarne l’importanza.

Strade promettenti: fisioterapia e tecnologia wearable

La fisioterapia per gli emofilici può essere il primo approccio a una cultura dello sport che riesca a includere anche chi non lo pratica, per l’età avanzata o altri motivi. Non solo come recupero dopo un evento emorragico, ma “come attività preventiva che aiuti a muoversi meglio”, spiega Biasoli.

“Come FedEmo abbiamo formato una trentina di fisioterapisti da tutta Italia, affinché avessero una preparazione specifica. Erano tutti professionisti che collaborano con centri per l’emofilia, dunque hanno la possibilità di fornire questo servizio, che è molto apprezzato”, prosegue Preti.

A differenza del farmaco, tuttavia, “non viene erogato dal servizio sanitario e per questo abbiamo in corso un progetto sostenuto da una casa farmaceutica che a Firenze, Bologna e Torino porta avanti sedute individuali e collettive. Che consentano ai pazienti di proseguire a casa, con esercizi di mantenimento”.

Come sempre più spesso accade in ambito sanitario, inoltre, anche per l’emofilia può usufruire di un aiuto tecnologico nella gestione delle emergenze. È il bracciale Sa.Me.Da. L.I.F.E., acronimo per Safety Medical Database Local Informed For Emergency, un dispositivo che si può leggere tramite computer, smartphone o tablet e permette al personale sanitario di identificare una persona e accedere subito ai suoi dati sanitari.

Inizialmente era stato concepito per i piloti di Formula 1, “ma ora è in corso uno studio clinico in tre diversi ospedali. L’idea è dare agli specialisti di pronto soccorso informazioni preziose su patologie e terapie”, spiega Preti, “in modo che possano agire subito in modo efficace. In caso di traumi maggiori, il trattamento per un paziente emofilico deve essere tempestivo”.

@Eleonoraseeing

Questo articolo è stato pubblicato qui

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