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Eluana Englaro: che cosa ha veramente deciso la Corte di Cassazione


Ieri è stato per me difficile scrivere della morte di una ragazza che si trovava in stato vegetativo da 17 anni. La giovane donna, che non chiamerò per nome in queste righe (il nome nel titolo è stato aggiunto dalla redazione - ndr), era una povera creatura condannata da un grave incidente stradale ad una vita biologica cui non corrispondeva alcuna attività cerebrale avendo riportato un trauma cranico-encefalico.

Una ragazza in stato vegetativo irreversibile. Come tanti altri invalidi di tutti i paesi del mondo. Questa la cruda realtà di un caso che, a titolo diverso, ha coinvolto tutti gli italiani.

Ieri mattina ho scoperto che le volevo bene ed, in qualche modo, è stata una giornata di lutto, non solo per me, ma anche per l’autista del taxi che nelle prime ore mi ha portato dinanzi a questo PC, per la signora che mi ha servito un cappuccino al bar mentre sfogliavo la mazzetta dei giornali, per il portiere dello stabile ove abito.

Quelle foto pubblicate da quasi tutte le testate, e messe in onda pressoché da ogni TV, di una ragazza bella e felice, quel nome femminile rotondo e familiare, anche se non molto diffuso nell’uso comune, hanno instillato nel cuore degli italiani un rapporto affettivo vero e proprio con la sconosciuta donna in attesa che il suo destino fosse compiuto.

Il volto severo di un padre segnato dal dolore e dal peso di un vis-à-vis quotidiano con un corpo privo di vita interiore, senza futuro, con quanto rimaneva della figlia costretta ad una vita biologica che non avrebbe desiderato, ha raggiunto nel profondo l’animo di tutti.

Nel contesto socioculturale di un paese evoluto sul piano etico quanto sopra sarebbe stato sano ed accettabile, sarebbe stata un’occasione per esprimere consapevolezza e solidarietà.

Purtroppo non si è verificata una siffatta dinamica virtuosa. Il sistema mediatico pervaso da interessi politici e istanze teoretiche di retroguardia ha costruito una trappola insidiosa ed invisibile ai più.

Giorno per giorno è stato costruito un travisamento della realtà per coltivare un sentimento finalizzato alla strumentalizzazione di un dramma, purtroppo, comune ed orribile.

Il bombardamento sentimentale, su una vicenda particolarmente dolorosa da qualunque punto di vista, ha lentamente inoculato nelle coscienze del nostro popolo, sensi di colpa ed altre istanze insane per la crescita individuale degli italiani sul piano della libertà di pensiero e dei diritti civili.

E’ in corso una battaglia cui tutti abbiamo assistito, senza esclusione di colpi ignobili, anche da parte di voci autorevoli e carismatiche, ciniche ed arroganti, per mantenere la libertà di coscienza avvolta in una coltre oscura e nel buio profondo della cecità, pari a quella della mente della paziente, alla quale ho voluto bene, che due sere fa ha posto la parola fine all’unica parte degna di rispetto nell’amara vicenda.

Come sempre accade nella storia dei popoli che lottano per la propria indipendenza, il caso in questione contiene dei risvolti che si intrecciano a fondo con il sereno svolgimento della vita repubblicana. Poichè il circo mediatico, nella circostanza, non ha perso l’occasione per continuare a dare il peggio di sè, come da troppo tempo avviene, in particolare mi preme formulare alcune precisazioni in merito al provvedimento giurisdizionale che ha pronunciato la parola determinante sul così delicato tema della vita o della morte.

Non mi sembra utile qui ripercorrere l’intero iter giudiziario intrapreso dai familiari a tutela della ragazza, soffermandomi, invece, sulla sentenza 16 ottobre 2007 n. 21748 della Corte di Cassazione, Sez. I Civile, disponibile in versione integrale su molti siti web, che ha sancito i principi cardine della controversia.

Per un’esigenza di chiarezza estrema, mentre qualcuno pronuncia frasi che travisano la realtà e confondono i cittadini meno informati, (“è morta di sentenza”) chiedo ai lettori di pazientare ancora un attimo e di leggere quanto segue, estratto integralmente dalla sentenza sopracitata.

Ove il malato giaccia da moltissimi anni (nella specie, oltre quindici) in stato vegetativo permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante un sondino nasogastrico che provvede alla sua nutrizione ed idratazione, su richiesta del tutore che lo rappresenta, e nel contraddittorio con il curatore speciale, il giudice può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario (fatta salva l’applicazione delle misure suggerite dalla scienza e dalla pratica medica nell’interesse del paziente), unicamente in presenza dei seguenti presupposti: a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona. Ove l’uno o l’altro presupposto non sussista, il giudice deve negare l’autorizzazione, dovendo allora essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto interessato e dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa”.

 

 

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