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 Home page > Attualità > Politica > Draghi, il patto e gli scellerati

Draghi, il patto e gli scellerati

Da qualche giorno, politica e giornali sembrano un formicaio appena preso a calci. Motivo: durante l’assemblea di Confindustria il premier Mario Draghi ha espresso un auspicio e tratteggiato un progetto.

 Un contenitore al momento privo di contenuti operativi, che pur si intuiscono. Questa indeterminatezza alimenta sospetti, speranze, congetture, generatori automatici di scenari politici, scatena retroscenisti e illividiti demiurghi-cocchieri di giornali-partito. Insomma, l’abituale teatrino italiano, oltre la volontà di Draghi.

Che disse Draghi, dunque? Tra le altre cose, questa:

In questo senso le parole del Presidente Bonomi suggeriscono che effettivamente si possa cominciare a pensare a un patto economico, produttivo, sociale del Paese.
Ci sono tantissime delle misure, che lui e che anche tu Andrea, di cui discutiamo continuamente, che possono effettivamente essere materia di questo patto.
Io cerco di non usare la parola patto, usavo la parola “una prospettiva economica condivisa”.
Il significato è che bisogna mettersi seduti tutti insieme e cominciare a parlare di quello che si fa sui vari capitoli.

Il paese dei patti

Subito, il formicaio e l’alveare sono impazziti per quella espressione, che il premier peraltro mostra di non prediligere, “patto sociale”, pronunciata in origine dal presidente di Confindustria. E che vorrà mai dire? La memoria corre a quel patto del 23 luglio 1993, dopo il trauma della cacciata della lira dal sistema monetario europeo di alcuni mesi prima, chiamato “Patto per la politica dei redditi e lo sviluppo”.

Che voleva dire, in modo brutale, frenare le dinamiche salariali dopo la svalutazione della lira. Offrendo al contempo, mediante “concertazione”, un calmiere alle dinamiche di prezzo dell’economia. In pratica, disinflazionare per ripartire. Era la famosa “politica dei redditi”.

Politica destinata a funzionare solo per qualche tempo perché prodotta dal problema italiano: la necessità di deprezzare periodicamente il cambio reale effettivo per compensare la perdita costante di competitività che il sistema paese produceva e produce.

Fatale che, dopo l’ingresso nell’euro, sarebbero comparsi febbricitanti predicatori nostalgici di quel sistema di svalutazioni di recupero scambiate per leva competitiva strategica.

Oggi, sul tavolo, c’è altro. Ad esempio, la riforma degli ammortizzatori sociali, le pensioni in un contesto di spesa insostenibile causa depressione demografica, il raccordo tra scuola e lavoro, la formazione permanente, il contrasto alla povertà lavorativa, cioè al fenomeno dei working poor. Ma anche la riforma della contrattazione collettiva e della rappresentanza sindacale, l’incompiuta costituzionale. E la lista non è esaustiva. Ma la finalità è ovvia: tornare a crescere e a competere. E a produrre risorse fiscali.

Quando la crescita italiana sparì

Prima di porre sul tavolo questo tema, Draghi aveva svolto una riflessione sulla scomparsa della crescita italiana e sul periodo storico in cui abbiamo posto le radici dell’attuale dissesto:

Quindi mi è venuto spontaneamente di chiedermi: come mai si sono interrotti questi tassi di crescita? Come mai – come mi disse un amico di un altro Paese, all’epoca, nel ‘71, ‘70 – il giocattolo si è rotto?


Beh, evidentemente le mutazioni del quadro internazionale, l’abbandono del sistema di Bretton Woods, il prezzo del petrolio, due guerre, la fine della guerra in Vietnam, la grande inflazione, sono tutte cose che hanno cambiato il quadro internazionale.

Però questo quadro internazionale così difficile, alcuni Paesi hanno affrontato gli anni 70, che sono stati anni difficilissimi, con successo.

E una caratteristica che separa questi paesi dall’Italia, è proprio il sistema di relazioni industriali. In questi Paesi le relazioni industriali, pur stimolate, pur stressate da quello che avveniva intorno, sono state relazioni industriali buone. Da noi, col finire degli anni 60, invece si assiste alla totale distruzione delle relazioni industriali.

 

Serve quindi ristrutturare le relazioni industriali per cogliere le opportunità di crescita di questa “ricostruzione”. A sinistra c’è già gente che grida al complotto padronale per il ritorno agli anni Cinquanta; spesso sono gli stessi che riescono a sospirare di nostalgia per i Settanta. Questo paese tende a produrre cattivi maestri praticamente a ogni generazione. Alcuni di loro poi diventano maître à penser integrati nel sistema e ci spiegano come stare al mondo.

Impresa titanica

Ora, io non so se l’impresa titanica che Draghi vorrebbe intraprendere riuscirà a realizzarsi, soprattutto col materiale umano di cui dispone questo paese, oggi. Con la pietra al collo di una demografia in avvitamento, con una rappresentanza politica così disfunzionale e cinica, che negli ultimi decenni non ha saputo fare altro che produrre crisi economiche e crisi di sistema, periodicamente e temporaneamente ricomposte con i cosiddetti governi tecnici. Sino all’attuale, che è politico solo perché guidato da un tecnico che è in realtà stato il maggior politico europeo dell’ultimo decennio.

Draghi è solo l’ultima cassetta del pronto soccorso, in ordine cronologico, di questa serie di fallimenti del sistema paese. Antagonismo, assenza di fiducia tra i blocchi sociali e verso le istituzioni, concezione del mondo a rigorosa somma zero, dove ci si scanna per catturare brandelli di risorse fiscali. Fenomeni che hanno radici profonde: prendete un libro di storia italiana dall’Unità, e capirete di che parlo.

Scendendo dagli alti rami e tornando al piano stradale, abbiamo un sistema partitico paralizzato mentre assiste alle decisioni di Draghi. A questa paralisi corrisponde un frastuono propagandistico senza precedenti, perché le due dimensioni sono in evidente correlazione inversa: quanto più sono impotente e incapace, tanto più sono costretto a compensare urlando e lavando il cervello a chi mi ascolta. O, per i più miti, a vaticinare il Nuovo Mondo che ci attende “appena possibile”.

La mucca in corridoio, Draghi nella stanza

Le solite aggressive rane di Fedro si fronteggiano mentre altre specie, più composte, scrivono letterine di buoni propositi. “Metteremo la patrimoniale, quando questa fase sarà conclusa”. “Metteremo le pensioni a 60 anni di età, liberi tutti e largo ai progetti di vita; e se la Ue non ci dà i soldi, si accorgeranno chi sono i Campioni d’Europa”. “Metteremo la flat tax, mi ha detto mio cugino che in Mongolia Di Sotto sono cresciuti abbestia, grazie a quella”. “Basta col liberismo affamatore, la spesa pubblica al 50% del Pil è vergognosamente insufficiente!”

In parallelo alla lista della spesa e alla letterina per Babbo Natale, c’è il surplace dei tatticismi esasperati. “Il governo Draghi è il nostro governo, ho anche gli adesivi sul paraurti dell’auto”, “Ma quando mai, è uno stato di necessità ma una anomalia, dobbiamo lavorare per un governo di centro-sinistra, centro-destra, centro-sopra, centro-sotto”.

La sorte beffarda ci ha dato questo governo nella parte finale della legislatura che eleggerà anche il capo dello Stato. E qui le combinazioni si sprecano:
– “Vogliamo Draghi al Quirinale, così potrà comunque controllare i partiti e la realizzazione del PNRR”;
– “Macché, lo vogliamo al Quirinale per levarcelo dai piedi e tornare a fare quello che abbiamo sempre fatto, teatrini e gozzoviglie”;
– “Quando mai, vogliamo Draghi premier anche la prossima legislatura. Dobbiamo solo capire come dire agli elettori che noi partiti siamo talmente inutili da ritenere loro e le elezioni ancora più inutili di noi”;

Patti oscuri, connivenza lunga

E così via. Guardate che dev’essere durissima fare il leader politico oggi in Italia. Avere o fingere di avere una incoercibile avversione per la realtà ma non contare una cippa, non toccare palla ma essere costretti ogni giorno a guardarsi le spalle da complotti e manovre dei propri simili, mandare messaggi in codice alle bande avversarie promettendo di tornare ad attovagliarsi con loro.

Come fatto in passato ai tempi dei ricorrenti patti (concetto pavloviano) di tipo gastronomico: della crostata, degli arancini, della spigola ma anche del camper e di caminetti vari. Nell’attesa che si compia la beata speranza di tornare al volante dell’escavatore e donare al Paese nuove voragini. Un lavoro di merda ma qualcuno dovrà pur farlo.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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