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Disoccupazione adulta: intervista al Presidente dell’Associazione “ATDAL Over 40”

È un’amara constatazione: i disoccupati con almeno 35 anni stentano a reinserirsi nel mondo del lavoro perché le imprese non li assumono! Un esempio emblematico: dall’indagine dell’Associazione Direttori Risorse Umane (G.I.D.P./H.R.D.A.), “I trend occupazionali delle imprese italiane” per il 2010, è emerso che nel corso dello stesso anno solo il 14,6% delle nuove assunzioni avrebbe riguardato personale dai 35 anni in su.

Nel 2012, puntualizza l’Istat, l’incremento della disoccupazione ha coinvolto “in più della metà dei casi persone con almeno 35 anni”; nello stesso anno i nuovi iscritti ai Centri per l’impiego, in seguito alla perdita del lavoro, sono stati in maggioranza cittadini con almeno 35 anni.

Dottor Giusti, quali sono le proposte dell’Associazione “ATDAL Over 40” per contrastare la disoccupazione adulta? Può illustrarci le iniziative in corso?

Sul tema della disoccupazione in età adulta ATDAL Over 40, che nasce nel 2002, prima associazione in Italia a occuparsi di queste tematiche, ha delle proposte ben precise e strutturate che vanno dall’introduzione di sanzioni per chi pubblica annunci di lavoro discriminatori per età, alla riqualificazione dei Centri per l’Impiego tramite interventi integrati di collegamento con il reale fabbisogno lavorativo, ai programmi per il sostegno all’autoimprenditoria, alla riforma dei percorsi formativi che vanno agganciati ai reali fabbisogni delle aziende.

Tutte le nostre proposte per esteso possono essere visionate sul nostro sito www.atdal.eu. Queste però sono strategie di lungo periodo. In questo momento c’è un’emergenza sociale che va affrontata immediatamente e prescinde da qualunque seria riforma del mercato del lavoro. Prima di qualunque discorso intorno agli interventi possibili, c’è un dato da cui bisogna partire.

In Italia solo il 30% dei disoccupati (dati del Ministero del Lavoro) dispone di un ammortizzatore sociale, il restante 70% non ha uno straccio di sostegno al reddito. Noi riteniamo che sia questo il punto di partenza per affrontare il problema della disoccupazione. Bisogna prima di ogni cosa istituire un’indennità di disoccupazione generalizzata per tutti coloro che si trovano privi di lavoro, calcolata in percentuale sull’ultimo salario percepito e comunque tale da garantire un reddito dignitoso e per un periodo di tempo idoneo a sostenere senza angoscia la ricerca di un nuovo lavoro.

L’indennità di disoccupazione deve entrare in vigore nei periodi di inattività anche per coloro che svolgono lavori precari e deve prevedere la corresponsione dei contributi previdenziali figurativi. Sappiamo già quali sono le obiezioni che vengono sollevate quando si parla di questo e rispondiamo alla classica domanda: “dove trovare i soldi”.

I soldi andrebbero trovati in vari modi, partendo innanzitutto dal riordino dei vari tipi di ammortizzatori sociali che, unificati a un solo tipo di sostegno, porterebbero già di per sé un risparmio. Poi intervenire seriamente contro l'evasione fiscale, combattuta nel nostro Paese sempre a parole ma raramente nei fatti se non con scudi e condoni tesi a favorire chi aveva già allegramente evaso o esportato capitali all’estero. E ancora, istituire una tassa patrimoniale sui grandi capitali.

Inoltre, dati di questi giorni, in Italia la spesa sociale per Cultura e Scuola è una delle più basse d’Europa. Il problema dei fondi è un falso problema. Per questo abbiamo partecipato attivamente all’iniziativa del Bin Italia per la raccolta firme per l’istituzione di un reddito di cittadinanza; e Lunedì 15 aprile insieme a Bin Italia ed altre associazioni, saremo a Montecitorio per la consegna delle 50.000 firme raccolte insieme, e per incontrare i parlamentari disponibili. Lo slogan della giornata sarà “Siamo stanchi di aspettare”. Poi sta per partire “Labirintus”, un interessante progetto rivolto ai disoccupati e realizzato insieme con la Fondazione Di Liegro. I particolari di questo progetto rivolto a tutti si potranno trovare sia sul nostro sito che su quello della Fondazione.

Nell’ottobre del 2011 Jacopo Morelli, presidente dei Giovani Imprenditori di Confindustria, proponeva: “Occorre innalzare a 70 anni l’età pensionabile”. Nel 2020, in seguito alla riforma previdenziale Fornero, l’Italia avrà la più alta età di pensionamento dell’Unione europea: 66 anni e 11 mesi per donne e uomini; aumenteranno i lavoratori cinquantenni e sessantenni e crescerà l’età media della forza lavoro.

Tuttavia già ora gli over 35 che hanno perso il lavoro non riescono a ricollocarsi professionalmente e, come emerge da un’indagine dell’Osservatorio sul diversity management della SDA Bocconi, nelle aziende i lavoratori ritengono che “essere anziano”costituisca la principale causa di discriminazione, insieme al “percorso educativo”.

Dottor Giusti, quali le possibili soluzioni?

Le soluzioni come già detto sono tante e praticabili. Bisogna però che intanto le imprese e gli imprenditori ricomincino a fare impresa e imprenditoria e smettano di investire eventuali profitti unicamente sulle attività finanziarie che non creano né lavoro, né prodotti. In Italia paghiamo un terribile gap di arretratezza nel settore della ricerca e della tecnologia perché non abbiamo più investito su questo. E vogliamo parlare dei settori d’eccellenza italiana? Un patrimonio che va perso anche perché, espellendo dal mercato del lavoro senior con esperienza, si finisce anche per perdere il sapere di cui questi lavoratori sono portatori.

È chiaro che se continuiamo a guardare solo al profitto come unico indicatore di qualità la situazione potrà solo peggiorare. Bisogna cominciare a ripensare il lavoro anche in termini di utilità sociale: o si arriva a una ridistribuzione di reddito o ci troveremo sempre più ad avere grandi capitali concentrati in poche direzioni. Il dato di fatto è che nel nostro Paese esiste una “questione lavoro” che impatta direttamente sulle condizioni di vita di milioni di individui, si ripercuote sui consumi e sullo sviluppo sociale, fa emergere gravissime lacune sugli attuali sistemi di welfare e, più in generale, di protezione sociale. 

L’aver dato spazio per anni a stereotipi, secondo i quali esisteva un conflitto generazionale tra padri privilegiati e figli penalizzati, è servito come alibi per intervenire e fare cassa attraverso le riforme previdenziali o per introdurre formule contrattuali che hanno permesso il dilagare della precarietà. Oggi possiamo renderci conto che queste cortine fumogene, certamente utili per cavalcare scelte gravemente penalizzanti per molti lavoratori, non riescono più a nascondere il fatto che il nostro Paese vive una situazione insostenibile, molto più critica di quella di altri Paesi dell’UE.

 

In Italia la disoccupazione adulta ha ormai eguagliato quella giovanile. Nel secondo trimestre del 2012 l’Istat ha censito 1 386 000 disoccupati sotto i 35 anni (per l’Istat le classi d’età fino a 34 anni sono “oramai da identificare come la componente giovanile della disoccupazione”) e 1 320 000 disoccupati con almeno 35 anni, il 48,8% del totale dei disoccupati.

Nel terzo e quarto trimestre del 2012, la disoccupazione adulta ha ulteriormente accelerato e nel 2013, alla luce di questa tendenza, il numero complessivo dei disoccupati censiti dall’Istat con almeno 35 anni supererà quello dei disoccupati sotto i 35 anni. Quali le cause? A suo avviso, la riforma Fornero del mercato del lavoro porterà a un aumento della disoccupazione adulta?

Le cause delle disoccupazione, cosiddetta matura, sono molteplici. Certo che finché ci saranno sgravi fiscali per chi assume un under 35, è chiaro che qualunque azienda, visto anche quello che si diceva sopra, cercherà solo e unicamente in quella direzione, liberandosi il prima possibile dei lavoratori over 40, infischiandosene delle competenze o della perdita del capitale umano. In questa pseudo-riforma non si trova traccia di un solo intervento che serva ad affrontare il problema reale, che è quello della disoccupazione e dell’impossibilità di ritrovare il lavoro per chi lo perde.

Come possano queste misure creare lavoro è un mistero che nessuno spiega, se non con tautologiche rassicurazioni sull’efficacia dei provvedimenti. Non si vede un intervento serio neanche per i giovani, in quanto l’apprendistato, anch’esso presentato come panacea, altro non è che l’ennesima forma di “utilizzo” di forza lavoro per periodi determinati e a bassa retribuzione, salvo poi rimettere gli stessi giovani sul mercato come incollocabili, in quanto non più utilizzabili come forza lavoro in prova.

Insomma, una serie di finti interventi che servono solo ad alzare fumo sulla realtà di una disoccupazione a livelli record, dei salari più bassi d’Europa e di una fascia di povertà che tende ad ampliarsi sempre di più coinvolgendo famiglie e ceti a cui viene negata la sopravvivenza dignitosa. Le stesse associazioni di categoria industriali, a un anno circa dall’introduzione di questa riforma, la giudicano inutile e in alcuni casi dannosa. Noi l’avevamo detto già un anno fa!

 

L’Istat rileva che “l’incidenza della disoccupazione di lunga durata (dodici mesi o più) sale dal 51,3% del 2011 al 52,5% del 2012”. Dottor Giusti, quanti sono i disoccupati di lunga durata tra gli over 35? Cosa comporta per un adulto la disoccupazione di lunga durata dal punto di vista personale e professionale?

Sui dati Istat della disoccupazione bisogna fare un discorso chiarificatore. Da anni la politica istituzionale si compiace in qualche misura delle periodiche rilevazioni Istat sulla disoccupazione che, pur segnalando un trend in costante aumento, non presenta numeri catastrofici e, soprattutto, non raffigura uno scenario troppo distante dai valori dei principali Paesi dell’Unione europea. Basterebbe provare ad andare oltre la rappresentazione fornita dall’Istat analizzando meglio altri dati dello stesso Istituto di Statistica per scoprire che, oltre al dato dei disoccupati “ufficiali”, esistono altri dati quali, ad esempio, quello degli “scoraggiati”, cioè di coloro che non cercano più lavoro in quanto certi di non poterlo trovare.

“Scoraggiati”che hanno ormai superato il numero dei 3 milioni ma che non vengono computati nel numero dei disoccupati ufficiali. Basterebbe spendere qualche minuto per leggersi alcune pagine del Rapporto sul Lavoro del 2012 redatto dal CNEL, uno di quegli enti pubblici che gravano sulle finanze pubbliche e che producono importanti ricerche del tutto ignorate dalla politica istituzionale, per scoprire qualche dato interessante. Il tasso di disoccupazione reale sarebbe salito al 18% con un incremento del 115 per cento rispetto al tasso ufficiale.

Ma, anche nel caso non si trovasse il tempo di approfondire le ricerche rese disponibili da enti quali il CNEL, l’ISFOL, la CGIA di Mestre, ecc., ci si potrebbe aspettare che a qualcuno sorgesse il dubbio su come i limitati incrementi del dato ufficiale della disoccupazione possano verificarsi in un Paese che da anni convive con un PIL e una produzione industriale in stato comatoso, con consumi in calo, con la crescita del numero delle famiglie al di sotto della soglia di povertà, con la sparizione di interi comparti industriali e produttivi. Comunque per rispondere alla sua domanda, il numero è stimabile oltre il milione e mezzo di persone, ma bisogna anche considerare, oltre alle cose dette sopra, il fatto che molte persone che perdono il lavoro non si registrano ai Centri per l’Impiego perché ne hanno constatato l’inutilità in termini di ricollocazione e spesso hanno vergogna della propria situazione.

E qui introduciamo il secondo problema che è quello psicologico. La perdita del lavoro significa anche perdita dell’autostima e disperazione di trovarsi solo. Le persone che si rivolgono alla nostra associazione hanno prima di tutto questa esigenza. Immaginate una persona che improvvisamente, dopo anni di lavoro, si trova a dover ricercare una nuova occupazione. Non sa né come né cosa fare, e non c’è nessuno che la orienti in questo senso, che le dia un primo aiuto da un punto di vista del sostegno anche morale. Tutto ciò sta distruggendo il nostro tessuto sociale. 

 

La disoccupazione adulta, in Italia, è una disoccupazione di massa, da paura, che si abbatte su milioni di persone e famiglie, eppure è ancora misconosciuta e sottaciuta da partiti e movimenti. Anche nella campagna elettorale delle politiche 2013 la disoccupazione adulta – come fenomeno sociale da contrastare con politiche mirate e qualificate – è stata ignorata; intanto un dilagante e drammatico problema sociale, che richiederebbe provvedimenti immediati, rimane senza prospettiva di soluzione! Dottor Giusti, cosa ne pensa?

Questo è lo specchio del Paese, e indica il distacco sempre maggiore tra politica e società. Si continua a parlare della disoccupazione con schemi vecchi e slogan buoni per tutte le stagioni. Un esempio è anche quello della vicenda degli esodati. A fronte delle, sia chiaro, sacrosante rivendicazioni di 130.000 persone che stanno da mesi al centro delle discussioni sulle politiche del lavoro, la classe politica continua ad ignorare oltre un milione di persone espulse dal mercato del lavoro che non hanno avuto mai nessuna tutela, e che si trovano senza reddito e senza possibilità di essere reinseriti. Non c’è una classifica di importanza, sia chiaro, e nemmeno vogliamo una guerra tra poveri, ma c’è un dato oggettivo sociale che non può essere ignorato!

In questi anni centinaia di migliaia di over 50-55-60 sono stati buttati sul lastrico con famiglie da mantenere e impegni economici cui fare fronte senza nessuna garanzia! La classe politica, i vari governi che si sono succeduti, hanno volutamente ignorato questo dato. Noi non accettiamo questa logica, noi riteniamo che“esodati”, contributori volontari, disoccupati di lunga durata, licenziati senza alcun sostegno, precari giovani e meno giovani, ecc. siano tutti indistintamente vittime di misure legislative criminal, e che insieme si devono battere per il comune obiettivo di offrire a tutti una possibilità di sopravvivenza dignitosa.

 

Dal Rapporto CNEL sul mercato del lavoro 2011-2012 emerge che, rapportando lo stock medio annuo degli indennizzati di fonte Inps, 644 000 nel 2011, col numero dei disoccupati censiti dall’Istat nello stesso anno, 2 100 000 tra i 15 e i 64 anni, si ottiene che solo il 30,6% delle persone rimaste senza lavoro ha beneficiato dell’indennità di disoccupazione ordinaria a requisiti pieni o dell’indennità di mobilità. Dottor Giusti, con l’entrata in vigore dei nuovi ammortizzatori sociali, come sono cambiate le tutele per i lavoratori over 35? Aumenterà il numero dei tutelati, e chi rimarrà escluso?

 

L’introduzione dell’Aspi (assicurazione sociale per l’impiego) viene sbandierata come “ampliamento dell’indennità di disoccupazione”. In termini di durata (un anno, esteso a 18 mesi per gli over 55, con importi lordi massimi per il primo semestre, poi destinati a ridursi del 15% ogni sei mesi) è una presa in giro che determinerà in maniera definitiva il passaggio da una tutela reale del lavoratore a una fittizia; è basata solo sull’elargizione di una somma di denaro, che per un anno garantisce quel disoccupato e poi lo rimette alla caccia del lavoro, con l’unica possibilità di accettare condizioni salariali sempre più basse.

Poi c’è il vincolo sui contratti a termine, assolutamente risibile, secondo il quale dopo 36 mesi di contratti a tempo determinato scatterebbe l’assunzione a tempo indeterminato. Ma quale azienda farà mai un contratto di 36 mesi? Continueremo a vedere contratti brevi, a salari sempre più bassi, inseguendo la chimera di avere un reddito in maniera continuativa e fare dei minimi progetti di vita. Lo ribadiamo con forza: reddito di sostegno per tutti i disoccupati, indistintamente! 

 

L’Italia si colloca agli ultimi posti tra i Paesi dell’Unione europea per le risorse destinate alle misure di contrasto alla povertà, alle prestazioni in natura a favore di persone a rischio di esclusione sociale, al sostegno del reddito; in particolare l’Italia è uno dei tre Stati membri dell’Unione europea a non aver introdotto il reddito minimo garantito. A suo avviso quali le ragioni e i motivi?

Abbiamo avuto un Ministro del Lavoro che si è permessa di dire che se avessero introdotto il Reddito di cittadinanza, gli italiani sarebbero rimasti a casa a mangiare spaghetti al pomodoro. Questo è il livello del dibattito con cui noi affrontiamo il problema della mancanza di reddito e della disperazione delle persone, a mo’ di barzelletta stereotipata. Ci mancavano solo la pizza e i mandolini per completare il quadro.

Parlando seriamente occorre intervenire con misure di carattere universale, in linea con quanto da molti anni avviene nella maggior parte dei paesi della UE e come ci viene pressantemente richiesto dalla Commissione Europea fin dal 1992 con la raccomandazione 92/441, che recita: “Ogni lavoratore della Comunità europea ha diritto ad una protezione sociale adeguata e deve beneficiare, a prescindere dal regime e dalla dimensione dell'impresa in cui lavora, di prestazioni di sicurezza sociale ad un livello sufficiente. Le persone escluse dal mercato del lavoro, o perché non hanno potuto accedervi o perché non hanno potuto reinserirvisi, e che sono prive di mezzi di sostentamento devono poter beneficiare di prestazioni e di risorse sufficienti adeguate alla loro situazione personale.

L’Europa raccomanda a tutti gli Stati membri: “di riconoscere, nell'ambito d'un dispositivo globale e coerente di lotta all'emarginazione sociale, il diritto fondamentale della persona a risorse e a prestazioni sufficienti per vivere conformemente alla dignità umana e di adeguare di conseguenza, se e per quanto occorra, i propri sistemi di protezione sociale ai principi e agli orientamenti esposti in appresso.

Ma noi ci ricordiamo di essere europei solo quando dobbiamo chiedere ai lavoratori sacrifici e flessibilità!

 

In base all’indagine “Il suicidio in Italia al tempo della crisi: caratteristiche, evoluzione e tendenze. II Rapporto Eures”, tra il 2008 e il 2010 i suicidi tra i disoccupati hanno registrato un incremento del 39,2%: erano 260 nel 2008, 357 nel 2009, 362 nel 2010. Il Rapporto evidenzia “come la vulnerabilità sociale, laddove non trovi risposte concrete da parte dei decisori politico-amministrativi, rischia di trasformarsi sempre più spesso in un percorso autodistruttivo senza possibilità d'uscita”. Dottor Giusti, quali sono le sue considerazioni in merito?

Proprio in questi giorni abbiamo assistito a un altro dramma, con persone che si sono tolte la vita perché gli era stato tolto tutto. Si parla tutti i giorni di “taglio dei costi” ma nessuno parla del “costo dei tagli”, un costo sociale che è sotto gli occhi di tutti: la disoccupazione al massimo livello storico dell’ultimo decennio; stipendi e pensioni che sono i più bassi tra i paesi dell’UE; il triste ripetersi quotidiano del dramma di chi sceglie il gesto estremo del suicidio per far fronte alla disperazione della mancanza di lavoro e reddito.

Ma ci rendiamo conto di cosa succede oggi giorno nelle nostre case? Ma come è possibile leggere annunci di lavoro in cui a persone con 27/30 anni di età si chiedono competenze ed esperienze che solo un 40/50enne può avere? Però al 40/50enne il lavoro viene negato. E malgrado questo, la disoccupazione giovanile continua a salire.

Che significa tutto ciò? Che per le industrie, le grandi aziende, è molto più proficuo investire il capitale in attività finanziarie (denaro che gira per creare denaro) piuttosto che investire sulle persone e sulle cose. Ma a cosa sta portando questo? Persone abbandonate da tutti e in primis dalle Istituzioni, che compiono gesti estremi perché non sono più in grado di soddisfare i bisogni primari, quelli che dovrebbero garantire una dignità alle persone. Questa deriva va fermata, il prima possibile e non dalle chiacchiere ma da fatti reali.

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