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Dirigenti pubblici: serve controllo preventivo degli atti, non dichiarazioni dei “redditi da corruzione”

di Luigi Oliveri

Egregio Titolare,

c’è davvero da recriminare contro il destino cinico e baro, per colpa del quale è stato solo dal 2016, con la modifica apportata al decreto “trasparenza” (d.l.gs 33/2013) da parte di una delle tante “riforme Madia” che l’Italia si è dotata della potentissima arma contro la corruzione, consistente nell’obbligo per i dirigenti pubblici di pubblicare sui portali delle amministrazioni datrici di lavoro la dichiarazione dei loro patrimoni.

Accedendo al modello di dichiarazione elaborato dall’Anac, ci si può rendere conto dell’efficacia implacabile dello strumento. Infatti, nell’apposito riquadro “Cespiti patrimoniali di provenienza illecita da corruzione” qualsiasi dirigente corrotto è certamente indotto ed obbligato a dichiarare urbi et orbi quali beni mobili o immobili (case, navi, auto, azioni, obbligazioni, conti correnti) abbia acquisito, specificando anche, ovviamente, il soggetto che ha elargito i compensi illeciti ed il “titolo” di “credito”: corruzione, concussione, rivelazione di atti d’ufficio, abuso d’ufficio e falso, con specificazione di data, luogo ed ora dell’accordo concluso tra il dirigente corrotto ed il suo corruttore.

Come dice, Titolare? Non riesce a scorgere questo riquadro? Non riesce nemmeno ad individuare nei modelli di dichiarazione dei redditi il rigo “Redditi da corruzione”? Strano. E pensare che dall’inizio di gennaio è in corso sui media un dibattito corposissimo sulla trasparenza dei patrimoni dei dirigenti pubblici.

Il tutto nasce dalla sentenza della Consulta 20/2019. Con questa pronuncia, la Corte costituzionale dimostrò di non considerare del tutto costituzionale proprio la riforma disposta nel 2016 su iniziativa dell’allora Ministro Madia alla norma del decreto trasparenza, per effetto della quale si estese alla dirigenza pubblica l’obbligo, prima incombente solo sui componenti degli organi politici, di rendere pubblica la situazione dei patrimoni.

Infatti, la Consulta ha ritenuto che tale obbligo possa essere legittimamente previsto per i soli dirigenti di massimo vertice dello Stato (segretari generali e direttori generali dei Ministeri), in quanto i loro incarichi sono connessi ad una espressa loro “personale adesione” (citando il lessico della Consulta) all’indirizzo politico degli organi di governo, che tale dirigenza di vertice ha il compito non solo di attuare, ma anche e soprattutto di contribuire a fissare, in strettissima collaborazione con la politica.

L’Anac, con una serie di proprie delibere, ha ritenuto tuttavia che la sentenza della Corte costituzionale dovesse essere interpretata in modo da non pregiudicare la portata degli obblighi di trasparenza, suggerendo/imponendo alle varie amministrazioni pubbliche di individuare con propri regolamenti quali dirigenti potessero considerarsi “assimilabili” a quelli di massimo vertice dei ministeri. Di fatto, un’estensione dei confini molto stretti disegnati dalla sentenza 20/2019.

Sta di fatto che la sentenza 20/2019 appare piuttosto chiara, quando afferma che

[…] è corretto l’insistito rilievo del giudice rimettente, che sottolinea come la mancanza di qualsivoglia differenziazione tra dirigenti risulti in contrasto, ad un tempo, con il principio di eguaglianza e, di nuovo, con il principio di proporzionalità, che dovrebbe guidare ogni operazione di bilanciamento tra diritti fondamentali antagonisti. Il legislatore avrebbe perciò dovuto operare distinzioni in rapporto al grado di esposizione dell’incarico pubblico al rischio di corruzione e all’ambito di esercizio delle relative funzioni, prevedendo coerentemente livelli differenziati di pervasività e completezza delle informazioni reddituali e patrimoniali da pubblicare.

Come Ella noterà, Titolare, la Corte costituzionale dunque invita (anche in altri punti della pronuncia) il “legislatore” a regolare la materia, così da eliminare i vizi della normativa.

Ora, Titolare, l’Anac è prezioso strumento di regolazione della disciplina anticorruzione, ma non è il legislatore. Esso ha ritenuto di attuare le indicazioni della Consulta, con l’articolo 1, comma 7, del decreto “milleproroghe”, col quale ha sospeso l’applicazione di sanzioni per la mancata pubblicazione dei dati patrimoniali ed ha delegato il Governo ad adottare un regolamento, finalizzato proprio ad armonizzare le regole sulla trasparenza con i principi enunciati dalla Corte costituzionale, attenendosi in particolare a due criteri: graduazione degli obblighi di pubblicità dei patrimoni, in relazione al rilievo esterno dell’incarico svolto, al livello di potere gestionale e decisionale esercitato correlato all’esercizio della funzione dirigenziale; conferma della previsione dell’obbligo (esistente fin dal 1997) di tutti i dirigenti pubblici di comunicare redditi e patrimoni all’amministrazione di appartenenza.

L’iniziativa non è particolarmente piaciuta a molti media. Si è parlato di “redditi e beni che restano segreti“, quando, come visto, sono da sempre conosciuti e noti alle amministrazioni dalle quali dipendono i vari dirigenti.

Anche l’Anac ha gradito poco. In una lettera aperta pubblicata sul Corriere della sera del 15 gennaio, il Presidente dell’Authority, criticando l’iniziativa del Governo, ha affermato

La trasparenza di redditi e patrimoni esiste per i parlamentari dal lontano 1982 e nessuno ha mai gridato allo scandalo: non si capisce perché dovrebbero essere esclusi da un analogo regime di trasparenza coloro che ricoprono funzioni apicali o collaborano direttamente con gli organi politici.

In effetti, questo “perché” l’aveva spiegato anche molto bene la Corte costituzionale, affermando che per i dati patrimoniali

Si tratta, in primo luogo, di dati che non necessariamente risultano in diretta connessione con l’espletamento dell’incarico affidato. Essi offrono, piuttosto, un’analitica rappresentazione della situazione economica personale dei soggetti interessati e dei loro più stretti familiari, senza che, a giustificazione di questi obblighi di trasparenza, possa essere sempre invocata, come invece per i titolari di incarichi politici, la necessità o l’opportunità di rendere conto ai cittadini di ogni aspetto della propria condizione economica e sociale, allo scopo di mantenere saldo, durante l’espletamento del mandato, il rapporto di fiducia che alimenta il consenso popolare.

L’Anac è tornata sull’argomento con un “atto di segnalazione al Governo“, col quale ha chiesto la graduazione degli obblighi di pubblicità in relazione all’entità dell’incarico dirigenziale e la conferma dell’obbligo di depositare all’amministrazione di appartenenza le dichiarazioni reddituali e patrimoniali: cioè, esattamente, quanto ha previsto il decreto “milleproroghe”, con poche varianti, alcune delle quali comunque esplicative del contenuto della norma in corso di conversione.

Nei giorni scorsi, nei lavori in commissione la Camera ha approvato un emendamento proposto proprio dall’ex ministro Madia, col quale esclude dalla sospensione delle sanzioni per mancata pubblicazione dei dati reddituali e patrimoniali proprio i massimi vertice dei ministeri, nelle more dell’adozione del regolamento delegato al Governo.

Ora, Titolare. Che la trasparenza sia certamente uno strumento importante per la lotta alla corruzione è notorio e lo indicano tutte le norme e convenzioni internazionali. I dirigenti pubblici esercitano poteri gestionali non da poco e un occhio particolare alla loro azione non è certo cosa peregrina.

Tuttavia, dedicare tutte queste energie, norme su norme, ricorsi, sentenze della Corte costituzionale, atti di segnalazione, decreti, regolamenti, per questo tema appare leggermente eccessivo. Certo, il tema è mediaticamente molto appagante.

Sarebbe, però, il caso di affrontare i problemi con la giusta consapevolezza. Nelle dichiarazioni dei redditi si evidenziano, come logico, redditi legittimamente acquisiti. Lo stesso vale anche per dichiarazioni connesse ai patrimoni.

Chi guadagna redditi di provenienza illecita e li investe in patrimoni, come insegnano le inchieste del passato, a meno di non essere pazzo, non li evidenzia in alcuna dichiarazione. Li nasconde nei pouf di casa, oppure attiva conti all’estero e complicati giri finanziari per nasconderli.

Sarebbe, quindi, il caso di avere la capacità di uscire dall’appagamento dei riflettori e comprendere che gli strumenti anticorruzione debbono essere piuttosto altri. In particolare, quelli che sono stati abbandonati: i controlli, soprattutto preventivi.

Un modo per far sentire la “pressione” addosso ai dirigenti pubblici è passare al setaccio i loro atti prima che divengano efficaci, producendo anche norme, in particolare per gli appalti, tendenti a limitare affidamenti senza gara.

L’attuale ordinamento, invece, da anni ha abbandonato i controlli preventivi, mentre le continue riforme degli appalti abbondano di norme per consentire assegnazioni senza gara.

Qualche dichiarazione pubblicata o meno, difficilmente potrà cambiare lo stato delle cose.

Foto di Gerd Altmann da Pixabay 

Questo articolo è stato pubblicato qui

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