• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Tempo Libero > Recensioni > "Di carne assente", di Giovanna Mulas

"Di carne assente", di Giovanna Mulas

Il 28mo libro della prolifica autrice sarda Giovanna Mulas, già nomination per l'Italia per il Nobel

È difficile dare una spiegazione chiara a tutto il male che percorre questa valle di lacrime. Ed è diventato difficile anche provare a farlo, perché questa è un’epoca insolitamente cruda. E a volte vedi/senti/leggi/intuisci cose che ti fanno piegare le ginocchia. I perché destinati a restare senza una risposta sono infiniti. Ma è doveroso, per chi fa letteratura a livelli alti, darne una rappresentazione a chi verrà. Proporne un’interpretazione. Aprire una finestra - scomoda - su un cortile pieno di scheletri e vergogne. Chi verrà, dicevo: leggendo, potrà comprendere ciò che lo aspetta, forse, prima che sia troppo tardi. Perché nel dolore sta sempre e comunque il destino di un essere misero, inerme, buffo, idiota nella sua pretesa di superiorità, chiamato uomo, che proprio per tutti questi difetti e malfunzionamenti si presta benissimo a diventare protagonista di un romanzo o di una rappresentazione più o meno teatrale.

“Di carne assente” (pubblicato dalle Edizioni La Gru di Padova) è il classico dramma - in quattro atti – firmato dall’autrice Giovanna Mulas, la seguo con interesse fin dagli esordi, che ha questa funzione di squarciare il buio e affrontare il tema dell’assurdo. Uno di quei testi che lascia tracce della sofferenza che fa sanguinare l’anima dei personaggi proposti, ma anche quella dei lettori-spettatori. Perché dove conduce la violenza, che non a caso fa rima con sofferenza, se non all’esplorazione di quel mondo labirintico, parallelo, abitato da mostri sempre nuovi, che la scienza chiama, semplicisticamente, follia?

“Lei ci fa del male, Marghe… lo capisci? Come la nonna l’ha fatto a lei.” dice ad un certo punto Anna. Certo: il Male si tramanda di generazione in generazione, si trasferisce, quale imbarazzante eredità che segna ogni destino. Perché dovremmo stupirci?

“Vuoi sempre pettinarmi, sempre sempre sempre, mamma, e la tua spazzola fa tanto male”: questo altro passaggio è la fotografia perfetta di un conflitto generazionale, di un’impossibilità di capirsi che non lascia troppe speranze e può solo alimentare il fuoco della ribellione, il desiderio di fuga dal quotidiano. Un desiderio visto quale autoaffermazione orgogliosa del sé, al cospetto di un mondo adulto colpevolmente incapace di capire le esigenze e soprattutto di assicurare la protezione naturalmente richiesta dai più deboli.

Crescere, ahinoi, vuole dire anche liberarsi dei genitori, in qualche modo.

“E’ la natura che dice al seme germoglia, è il tuo momento.” scrive la Mulas. E questo delicato passaggio non avviene mai senza fatica. “Mors tua, vita mea” dicevano i latini, grandi e acuti osservatori dei fatti mondani. Avevano ragione, perché avevano capito tutto, loro... A volte, però, più spesso di quanto s’immagini, è la pazzia tout court, derivante dalla mancanza di senso della vita (è necessario esplicarlo?) a fare da spartiacque, a recidere i rapporti, a decidere i destini, ad aprire nuove strade percorribili, che sprofonderanno poi nell’inevitabile rimorso autopunitivo, che rende vano ogni sforzo di redenzione, inutile e vuoto ogni prodigarsi, sterile ogni volontà di riscatto.

Da una trama simile non potevano non scaturire una serie di riflessioni filosofiche sulla natura dell’uomo, sulla relatività del reale, sull’imprevedibilità di un copione a volte davvero diabolico. L’autrice fa anche questo. Perché “è nella condizione umana ambire a ciò che non si è o a ciò che non si ha”. La felicità non è roba per noi umani, of course.

Di questo libro, di questo dramma che esamina, in modo originale e oggettivamente ispirato, la complessità dei rapporti familiari (madre-figlia, figlia-sorella, che quando è gemella è ancor più speciale), serberò a lungo il ricordo della “signora grassa con cappellino”. Nuda, in grembiule da cucina, con un palloncino… al guinzaglio. Ella è il personaggio-capolavoro di Giovanna Mulas. L’icona perfetta, geniale direi, di quella pazzia/alienazione che può definirsi, in sintesi estrema, la vera principale protagonista della complessa vicenda narrata. Chi di noi non conosce almeno un matto? E rimedi sicuri o medicine vincenti non esistono, ahinoi. Non ci resta che vivere. “Perché – scrive ancora l’autrice - non basta una vita per dare un perché alla vita”. 

 

Questo articolo è stato pubblicato qui

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares