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Debito pubblico: la magica palla di neve che rischia di seppellire l’Italia

Dopo la pandemia non servirà austerità, prevede il Fondo monetario internazionale. Compiacimento ideologico in Italia, che però è ad alto rischio di essere la fatale eccezione alla previsione

Il Fondo monetario internazionale, di cui ho già commentato le proposte di cambiamento strutturale post pandemico, ha pubblicato il suo ultimo Fiscal Monitor. Le valutazioni di sostenibilità fiscale sono oggi ancora più rilevanti, dato l’impressionante accumulo di debito in tempo di pace che la pandemia sta causando. Poiché i tempi sono decisamente cambiati e di austerità non parla più nessuno, analizziamo su cosa poggia la visione decisamente più da colombe fiscali del Fondo, e le implicazioni per l’Italia.

In armonia con il precetto chiave di tutta la predicazione del Fondo, anche questo Fiscal Monitor supplica di non ritirare prematuramente gli stimoli fiscali. E sin qui, nulla quaestio. C’è tuttavia una distinzione tra i paesi “che possono” sul piano fiscale, identificati con quelli sviluppati, e quelli che non possono, identificati negli emergenti. Un grafico illustra con una efficace espressione sanitaria questo concetto, parlando di “condizione preesistente” relativa al debito.

Prima della pandemia, il debito pubblico e privato era già elevato e crescente. Ho già scritto più volte riguardo alla corrispondenza tra aumento degli stock di debito e tassi d’interesse bassi, calanti e addirittura negativi. Questi ultimi agevolano l’indebitamento, i timori di collasso causati dall’eccesso di debito inducono le banche centrali a tenere i tassi bassi e ridurli ulteriormente.

Che fare quindi, secondo il FMI? Cose molto semplici e lineari, direi stilizzate. I paesi che hanno spazio fiscale lo usino, fornendo stimolo temporaneo ma iniziando a pianificare per il post-pandemia gli investimenti pubblici di “nuova generazione” (digitale, salute, ecc). Chi lo spazio fiscale non ce l’ha, nel senso che oltre che alto debito ha difficoltà di accesso ai finanziamenti (cioè li paga molto), deve barcamenarsi cercando almeno di trovare le risorse indispensabili per l’investimento pubblico e la protezione degli strati sociali più economicamente disagiati e fragili. 

Riguardo all’investimento pubblico, il Fondo lo considera indispensabile in tempi di elevata incertezza, tale cioè da paralizzare l’iniziativa privata. Al punto da stimare da esso un moltiplicatore decisamente elevato:

Studi empirici basati su un set di dati provenienti da più paesi e un campione di 400.000 aziende mostrano che l’investimento pubblico può avere un impatto potente su crescita del Pil e occupazione durante periodi di elevata incertezza – che è caratteristica che definisce la crisi attuale.

Per economie avanzate ed emergenti, il moltiplicatore fiscale tocca un picco di oltre 2 in due anni. Aumentare l’investimento pubblico di 1 per cento di Pil in queste economie creerebbe direttamente 7 milioni di posti di lavoro, e tra 20 e 33 milioni di posti complessivi considerando gli effetti macroeconomici indiretti.

Quindi, per il FMI, nella situazione attuale l’investimento pubblico svolge un ruolo di supplenza di quello privato. Lungi dallo spiazzarlo, contribuisce a tenere viva l’economia e quindi a “far passare la nottata” al settore privato. Detto in termini economici, l’investimento pubblico non causa crowding out, cioè spiazzamento, bensì crowding in, cioè “affollamento” nel senso di attrazione di investimento privato. 

Questa è la spiegazione da libro di testo che il Fondo offre. Ha molto senso, ovviamente. Se hai una economia annichilita nel settore privato e di conseguenza una voragine nella crescita, è intuitivo che l’investimento pubblico eserciti una fondamentale supplenza, e di conseguenza goda di elevato moltiplicatore, almeno nel breve periodo. Questa è l’argomentazione classica keynesiana dell’intervento pubblico dopo la Grande Depressione, e i sani di mente non la disputano.

Il problema vero, assai più concreto, è che tipo di eredità lascia l’intervento pubblico, per il “dopo”. Se un paese produce pessimi investimenti pubblici, la sua dotazione infrastrutturale, tradizionale o innovativa, resta depauperata e non può aiutare lo sviluppo del settore privato. A dirla tutta, finisce ad ostacolarlo. 

Questa è la storia dell’investimento pubblico nel nostro paese, infatti. Una spesa in conto capitale che da noi spesso è stata sacrificata a quella corrente ma che ha comunque mostrato scarsa capacità di traino del settore privato, per usare un delicato eufemismo.

E qui veniamo alle ulteriori considerazioni degli esperti fiscali del FMI; quelle che hanno catturato i titoli degli articoli sui giornali generalisti e che si possono sintetizzare con “dopo la pandemia non servirà austerità per rientrare dal debito”. Davvero? E come avverrebbe, questa “magia”? Lo ha spiegato il direttore degli Affari Fiscali del Fondo, Vitor Gaspar, durante la presentazione del rapporto: 

La differenza tra tassi d’interesse e crescita è non solo negativa ma più negativa -secondo le nostre previsioni- di quanto fosse prima del Covid-19. Quindi bassi tassi d’interesse giocano un ruolo importante nelle dinamiche di debito.

Tradotto in soldoni: non servirà austerità dopo la pandemia perché il rapporto debito-Pil scenderà da solo, visto che il tasso di crescita del Pil nominale eccede ampiamente il costo medio del debito. Quest’ultimo tenuto sotto controllo dalle banche centrali, è il sottinteso. Sperando continui, inflazione ed altri accidenti permettendo. 

Bene, e quindi?, diranno i più impazienti tra i miei lettori. Male, direi io. E quindi, rispondo, andiamo a vedere quale è stato l’unico paese sviluppato a non beneficiare di questo effetto prima della pandemia. Un aiutino? Si tratta di una penisola dell’Europa meridionale. 

Per il nostro paese il cosiddetto “effetto snowball” opera negativamente da molti anni. Cioè il nostro Pil nominale cresce meno del costo medio dello stock di debito, e questo ci mette nei guai. Ad esempio, costringendoci a restare solvibili mediante ampi avanzi primari, che a loro volta, frenano l’economia. Se le cose resteranno così anche dopo la pandemia, per noi saranno problemi assai seri, visto il debito aggiuntivo che abbiamo imbarcato. 

Come sintetizzare, quindi? Ve lo dico per “proiettili”, non d’argento:

  • È assai corretto non ritirare prematuramente lo stimolo fiscale;
  • L’investimento pubblico ha una “naturale” funzione compensativa delle voragini di investimento privato;
  • Tuttavia, la qualità di tale investimento è fondamentale e dirimente, essendo lo spartiacque tra una crescita sinergica pubblico-privata e la distruzione di risorse fiscali;
  • Di conseguenza, se prevalesse il “malinvestment” pubblico, e se altri errori di politica economica danneggiassero la crescita, il rischio per il paese interessato è quello di avvitarsi rapidamente verso il dissesto.

Per il nostro paese c’è tuttavia anche un altro rischio, non minore: che la riduzione del rapporto debito-Pil che dovesse eventualmente essere conseguita per via “spontaneamente virtuosa” venga posta immediatamente a rischio dalla moltiplicazione di istanze “redistributive”, che giungerebbero rapidamente a gridare all’austerità di fronte al calo del rapporto d’indebitamento, rivendicando “un percorso di discesa meno ripida” per poter indennizzare le masse depauperate da lunghi anni di neo-, turbo- e psico-liberismo. 

Ciò che il FMI immagina come rientro “dolce” e spontaneo dal debito rischia quindi di non valere per noi.

Ma non mettiamo il carro del debito davanti ai buoi della crescita: magari le cose cambieranno in meglio, persino in Italia. O no? 

Questo articolo è stato pubblicato qui

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