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Cose Cosche

I clan tornano a parlare. E chiedono la revisione del 41 bis, il regime di carcere duro riservato ai boss. Dopo anni di “immersione”, di silenzio delle armi, la criminalità si riorganizza

da Palermo

Sullo schermo scorrono le immagini del boss Salvatore Lo Piccolo, “il barone”, e del figlio Sandro: immagini di repertorio a copertura di un servizio di cronaca. Gli avvocati dei due, infatti, chiedono la sospensione dell’applicazione del 41 bis per i loro assistiti: «Per violazione dei diritti umani», dichiarano i legali da Milano dove i due sono in carcere. Si intende, per 41 bis, il particolare regime carcerario a cui sono sottoposti i boss mafiosi: rafforzamento delle misure di sicurezza, con riguardo principalmente alla necessità di prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza, restrizioni nel numero e nella modalità di svolgimento dei colloqui, limitazione della permanenza all’aperto e censura della corrispondenza. La notizia piomba in una Palermo apparentemente assonnata: non stupisce, anzi fornisce conferme. Si riapre, per l’ennesima volta, un braccio di ferro su questo strumento considerato fondamentale da magistratura e polizia per spezzare le catene di comando delle cosche mafiose, per impedire il flusso di ordine da dentro al carcere a fuori e viceversa. «Cose tinte», esclama Pino Maniaci della microscopica TeleJato di Partinico. Lui era presente all’arresto dei due. Le immagini dei Lo Piccolo arrestati dalla “catturandi” della Polizia di Stato il 5 novembre 2007, quelle che hanno fatto il giro delle televisioni di mezzo mondo, le ha girate lui.
Qualcosa si sta preparando, la mafia sembra ritornare alle vecchie rivendicazioni del famoso “papello” di Totò Riina: niente regime duro, niente limitazioni dei contatti con l’esterno per chi è in carcere e soprattutto non si sequestrano i beni dei boss.

Nessuno sa come con precisione, ma la situazione di apparente stallo e “ritiro” è mutata in poche settimane. Negli ambienti della magistratura di Palermo da qualche mese si segnala come la mafia si stia riorganizzando. «Lo dice la magistratura, ma è un fatto che da qualche mese il clima stia cambiando in città», spiega Rita Borsellino. «La mafia comunica attraverso simboli - prosegue - e l’uscita delle richieste in relazione al 41 bis da parte dei Lo Piccolo, proprio a ridosso delle commemorazioni delle stragi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, non è solo un insulto alla loro memoria, ma un segnale ben preciso». A due passi, nel quartiere Ballarò, già ci sono evidenti segnali di “irrequietezza” da parte di chi comanda nel dedalo di vicoli. Stessa cosa allo Zen. Piccole intimidazioni, messaggi, segnali. A Palermo, oggi, la tensione è palpabile. «Anche il riconoscimento fatto dai commercianti vittime del racket all’Ucciardone pochi giorni fa - spiega la Borsellino - è un fatto inaccettabile per la mafia. È stato un segnale, un atto simbolico importante per lo Stato. Ma la mafia vive di simboli e comunica attraverso simboli. Forse anche a questo si deve il messaggio inviato dai legali dei Lo Piccolo sul 41 bis».


Anche le forze dell’ordine mostrano preoccupazione per questa fase. «La mafia non ha ceduto il passo nonostante i tanti arresti - spiega un funzionario della Digos di Palermo - ma non illudiamoci che abbia perso la propria capacità militare. Abbiamo assistito a una fase di riorganizzazione, ma la criminalità continua ad avere una grande capacità e velocità di ristrutturazione». Questo a Palermo come in altre zone, fra cui Corleone e Partinico, dove l’ala “militare” di cosa nostra non ha mai deposto le armi e continua a sparare. E fra pochi mesi, a ottobre, alcuni boss locali saranno giunti a fine pena dopo più di dieci anni di carcere e torneranno nel proprio territorio. A pesare. A ripristinare la “tradizione” di cosa nostra. Quando poi si scopre che in questa zona di 13 comuni la notte siano in servizio sul territorio solo una macchina dei carabinieri e una della polizia, si capisce quale sia il livello di tensione che le forze dell’ordine vivono ogni giorno per far fronte a una mafia certamente “primitiva” (qui il termine più comunemente usato per definirla è quello di “sanguinaria”), ma anche perfettamente integrata e funzionale all’organizzazione di cosa nostra. Qui il livello delle coperture, che hanno garantito decenni di latitanze e continuità del sistema di comando della cupola mafiosa, sono perfettamente intatti e funzionanti. «E in questa fase così delicata anche il blocco delle intercettazioni telefoniche ci colpisce, ci impedisce di giocare tutte le carte che dovremmo avere a nostra disposizione per la lotta a cosa nostra», denuncia sconfortato il funzionario.

«Già da qualche tempo è iniziata l’erosione dei 41 bis - racconta il senatore Pd e ex presidente della Commissione antimafia Giuseppe Lumia -. Molti sono stati sospesi, nonostante rimanga integra la pericolosità dei soggetti. L’applicazione di questa norma è a discrezione del tribunale di sorveglianza, e dovrebbe essere riformata e migliorata. E questo governo, infatti, non sembra voler garantire la continuità di questo strumento che in molti casi è risultato fondamentale nella lotta alla mafia. Finora si fanno slogan sulla sicurezza, ma nulla per garantirla. Quarantamila “esuberi” fra polizia, carabinieri e finanza e un taglio complessivo di oltre un miliardo di euro alle risorse destinate alla sicurezza». Autori dei tagli proposti per il prossimo autunno? I ministri Tremonti e Brunetta. Motivazioni? Tagli alla spesa pubblica. E chi sono questi mafiosi a cui è stato revocato il 41 bis? Non si tratta di “seconde file”: a giugno, per esempio, è stato sospeso il regime duro a Antonino Madonia, membro di una delle famiglie mafiose più improntati di Palermo, condannato anche per l’omicidio di Libero Grassi, e non solo. «Un clima di disarmo, di arretramento», denuncia Lumia. E oltre allo smantellamento del 41 bis, inizia a emergere anche il pericolo di uno svuotamento delle risorse umane, economiche e tecnologiche delle forze di polizia. Fino a eccessi assolutamente incomprensibili. I circa 40 membri della “catturandi” che nel 2006, dopo mesi di appostamenti, infiltrazioni, indagini, arrestarono Bernardo Provenzano nelle campagne di Corleone non si sono ancora visti riconoscere le centinaia di ore di straordinari (5 euro lorde all’ora) che hanno consentito quell’arresto. E non è un caso che proprio in queste settimane i sindacati di polizia stiano organizzando manifestazioni e iniziative contro i tagli proposti dal governo. Paradossalmente il decreto sicurezza e la politica del “braccio di ferro” strillata dal governo Berlusconi nasconderebbe, nei fatti, la resa dello Stato dopo anni di risultati formidabili. Ottenuti e poi dispersi sull’altare dei tagli alla spesa pubblica.


Pubblicato su Left numero 29

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