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Cos’è oggi la CGIL? Esiste un processo di rinnovamento?

Nella storia della nostra Italia, c’è stato un periodo chiamato «il ’68», che è durato circa 15 anni, in cui la sinistra sociale, sindacale e politica ha svolto grandi battaglie in materia di sicurezza sociale, lavoro, diritti.

di Umberto Franchi (*)

Il ’68 fu un grande movimento di rivolta, di crescita partecipativa e culturale (nei sindacati, nelle associazioni, nei movimenti, nei partiti di sinistra) e anche di profonde riforme sociali: con lo Statuto dei diritti dei lavoratori, con le riforme della sanità e delle pensioni, della scuola, della maternità, con la riduzione degli orari di lavoro, con il meccanismo automatico di rivalutazione dei salari e pensioni e con altre riforme riguardanti i diritti civili (in testa divorzio e aborto).

Una realtà di crescita costante che, alla fine degli anni Settanta-inizi anni Ottanta, vedeva i lavoratori italiani forti dentro le fabbriche, con i loro sindacati, capaci di contrattare le scelte dell’organizzazione del lavoro e quelle industriali, cercando di stabilire come e per cosa si lavora. Ed eravamo primi in Europa in termini di migliori condizioni economiche, normative, diritti, sicurezza sociale, sicurezza nel lavoro, potere di contrattazione aziendale.

Insieme al movimento del mondo del lavoro, c’erano un grande movimento studentesco, moltissimi gruppi politici di “sinistra extraparlamentare” e un grande partito comunista che con centinaia di migliaia di militanti (a partire dalle cellule di fabbrica, dalle sezioni territoriali fino al comitato centrale) riusciva a esercitare la sua influenza sul Paese, sull’economia, sul lavoro, sulla scienza, sulla scuola, sulla sanità, negli enti locali, e persino tra i soldati e i reclusi.

Con i movimenti di lotta studenteschi, con i gruppi politici “di sinistra radicale”, con una CGIL capace e politicamente motivata e il partito comunista (che si distingueva per la sua diversità, moralità, rettitudine, disinteresse personale dei gruppi dirigenti e coerenza nel perseguire il progetto di trasformazione della società) riuscimmo a esercitare l’egemonia culturale nel Paese, ad avere un patrimonio morale, culturale, tecnico, scientifico, intellettuale e amministrativo.

Ricordo che, da giovane sindacalista della CGIL, nei primi anni Settanta mattino, giorno e sera ero davanti alle fabbriche, dove si esercitava il conflitto permanente con continue rivendicazioni aziendali e per un progetto di radicale trasformazione della società. Allora non esisteva il “proprio privato”, tutto si faceva per il cambiamento collettivo. Assieme al sottoscritto c’erano sempre decine di studenti che facevano parte dei gruppi extraparlamentari o del Pci… Così riuscimmo a fare avanzare – per molti anni l- e condizioni di vita civili e sociali, culturali, dei lavoratori e delle masse popolari.

Ma la battaglia del cambiamento della società non è fallita soltanto perché si è scontrata con i poteri forti economici e speculativi, con le forze della reazione che hanno utilizzato tutti i mezzi per sconfiggere il movimento d lotta, con la strategia di Stato detta “della tensione” fatta di bombe, attentati, connubio con mafia, Cia, P2 eccetera. ma è fallita anche perché – già a partire dalla sconfitta nella battaglia fatta dai lavoratori FIAT nell’ottobre 1980, dopo la marcia dei 20.000 (non 40mila, come allora si disse) “colletti bianchi” – i gruppi dirigenti nazionali del sindacato anziché rilanciare la battaglia contro i 24.000 cassa integrati (di cui 21.000 verranno successivamente licenziati) attraverso una grande manifestazione con 300.000 lavoratori a Torino firmarono l’accordo come voleva l’AD Cesare Romiti, senza metterlo in votazione tra i lavoratori. E dopo iniziò un’altra storia…

Molti dirigenti della CGIL di Lama già con la “Strategia dell’Eur nel 1978” e anche dirigenti del Pci di Berlinguer (morto nel 1984) iniziarono a pensare che non esistevano alternative al capitalismo e che la competitività delle imprese andava ricercata anche rimettendo in discussione “con la politica dello scambio a perdere” molte conquiste degli anni Settanta.

Dopo l’abbattimento del muro di Berlino e l’implosione del PCI (poi PDS-DS-PD), le politiche economiche e sociali di quel partito iniziarono a seguire le indicazioni di Tony Blair e del padronato, con un partito sempre più leggero in termini elaborativi, di valori e di partecipazione, dove gli input provenienti dal basso venivano “convogliati e regolati” da una dirigenza sempre più burocratizzata e interessata alla propria prospettiva di carriera personale anzichè alle istanze provenienti dal proletariato o dai propri iscritti.

Così per oltre 30 anni la stampa TV, economisti ben pagati, politici di destra (anche quelli che si consideravano di sinistra) hanno iniziato a dire:

  • i sindacati hanno troppo potere, i lavoratori con contratto a tempo indeterminato sono privilegiati, i pensionati rubano il futuro ai giovani andando in pensione troppo presto, la sanità pubblica è insostenibile e costa troppo allo Stato;
  • gli ammortizzatori sociali alimentano il parassitismo dei disoccupati (oggi il reddito di cittadinanza crea furbetti che preferiscono non lavorare), lo Stato non deve gestire imprese e aziende, i beni pubblici vanno privatizzati eccetera;
  • Questo continuo lungo martellamento ideologico, effettuato da un vasto ceto di propagandisti (a iniziare dalla Confindustria con le forze politiche di centro-destra e di centro-sinistra) è servito per fare delle “riforme” che in realtà sono state controriforme mettendo al centro la validità del «libero mercato» nella globalizzazione mondiale, fino a costruire un regime fondato sul liberismo , spostando immense ricchezze dai ceti mediobassi ai ceti più ricchi, con il 10% di popolazione che detiene il 55% di tutta la ricchezza presente nel nostro Paese.

 

È su questa strada che anche le organizzazioni sindacali – prima Cisl e Uil, dopo anche la Cgil – si sono attestate sulla stessa linea: quella della centralità dell’impresa competitiva che deve fare profitti, anche rimettendo in discussione le conquiste fondamentali degli anni Settanta: finendo per diventare non più i sindacati che contrattano le scelte da fare – nella fabbrica, sul sociale, su diritti, poteri, salari, pensioni, ecc. (cercando di continuare a fare avanzare i soggetti da loro rappresentati) – ma associazioni sempre più burocratizzate che hanno finito per gestire in termini assistenziali le scelte fatte dal padronato e dai governi, senza più un progetto sociale e di società alternativo… e senza più cercare di contrattare il come e il per cosa si lavora.

Questo cambiamento di pelle – oltre che dell’ex Pci anche dei sindacati confederali – ha sicuramente contribuito a quanto è accaduto dalla metà degli anni 80 (in modo strisciante) nel nostro Paese: oltre al crollo dello Stato Sociale, abbiamo assistito negli ultimi 30 anni anche al crollo di quasi tutti i pilastri della democrazia con:

– il mercato globale è sfuggito a ogni controllo politico mentre si imponeva lo smantellamento dello stato sociale;

– lo Stato Nazione ha perso la sua sovranità delegandola a organismi transnazionali privi di legittimazione democratica, quali Banca Mondiale, BCE, FMI, NATO;

– la crisi del modello produttivo fordista, con la finanziarizzazione globale dell’economia, ha comportato anche il crollo della centralità del lavoro e delle lotte operaie e sociali;

– i processi mediatici sviluppati soprattutto nel ventennio berlusconiano, l’uso del web, la spettacolarizzazione e personalizzazione della politica hanno svuotato il senso tradizionale dei meccanismi di rappresentanza collettiva attraverso i sindacati e i partiti.

Quindi è venuto meno il patto sociale, con il compromesso tra capitale e lavoro, sviluppato attraverso il conflitto di classe… Oggi, a mio parere, viviamo in una società che non è più democratica ma post-democratica.

Per chi come il sottoscritto ha speso una vita per la causa dei lavoratori – in qualità di dirigente sindacale in diverse categorie e a vari livelli nella CGIL – vivendo forti stagioni di conquiste (ma anche amarezze e delusioni) fa molto male vedere come anche la CGIL in modo strisciante si è deteriorata sia nell’azione contrattuale che nella cultura di classe, che nei valori dei gruppi dirigenti.

Quello che oggi accade in CGIL è il prevalere di una maggioranza “oligarchica” di gruppi dirigenti che mettono al centro di ogni intervento “il proprio IO”. Cioè l’interesse personale – mai reso manifesto però praticato nella sostanza – che genera opportunismi, spesso asservimento al “più forte”, non solo all’interno degli organismi della CGIL ma anche a livello politico.

A livello nazionale, regionale e in diverse Camere del Lavoro provinciali oggi esiste una cospicua parte dei gruppi dirigenti CGIL – con particolare riferimento alle segreterie confederali e in parte di categoria – dove è presente “un male oscuro”, quello di non mettere più al centro il progetto di cambiamento economico, sociale e il cosa fare per mutare profondamente la realtà che viviamo (di profonda crisi economica e sociale) ma il pensare esclusivamente a se stessi.

E’ in questo contesto che, a livello generale, anche la CGIL ha abbandonato un progetto di svolta nei diritti, nelle attività e negli indirizzi produttivi, nel sociale, nella prevenzione e sicurezza… e di “narrazione di una società diversa” da quella che viviamo. Un progetto che dovrebbe partire dai luoghi di lavoro con una spinta forte per fare divenire i lavoratori soggetti partecipi e attivi nell’elaborare, nel rivendicare e lottare per i propri diritti, per le scelte di profondo cambiamento.

Anche la risposta della CGIL agli attacchi più reazionari sferrati dai vari governi di centrodestra e centrosinistra unitamente alla Confindustria – come la “legge Biagi” con 45 forme di lavoro frantumato e precario, la Jobs Act con l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, la controriforma delle pensioni fatta dalla Fornero eccetera – non è andata al di là della critica; contro “la Fornero” furono effettuate solo 4 ore di sciopero.

A mio parere la CGIL vive una situazione che è scaduta nella qualità dirigenziale, anche perché dagli inizi degli anni 90 le scuole di formazione dei gruppi dirigenti sono state chiuse, a partire da quella gloriosa di Ariccia (dove ricordo, nei primi anni 70 all’inizio del mio percorso sindacale, di avere fatto un corso lungo 5 mesi). Il ricambio generazionale è rimasto marginale mentre è cresciuta la decadenza culturale e politica anche in relazione alla mancanza di lotte reali nel Paese, che ha finito per fare affermare gruppi dirigenti mediocri nelle capacità, spesso nelle analisi ma soprattutto nelle proposte e nella scarsa volontà di mobilitare e lottare.

Così le maggioranze dei gruppi dirigenti ai vari livelli (provinciale, regionale, nazionale) sono amorfe, hanno alle spalle anni di gestione burocratica sindacale, nessuna voglia di scontrarsi all’interno degli organismi di direzione, nessuna voglia di fare battaglie politiche vere… finendo solo per adagiarsi nel “quieto vivere”, nel valorizzare il proprio privato, sempre fedeli alla linea della maggioranza, con un occhio di riguardo alla propria prospettiva di lavoro, pensione o carriera isolando invece quelle figure (come il sottoscritto ma anche altri) che hanno combattuto e combattono questo tipo di sindacato.

Questa situazione ha portato all’affermazione di una vasta “vecchia casta” nata soprattutto fra gli anni 50/60 che continua a rigenerare se stessa, senza alcun rinnovamento. Anche la delibera 7.1.6 dello Statuto della CGIL Nazionale del 2010, che stabiliva la collocazione a riposo (pensione) al raggiungimento del 65°anno di età di ogni dirigente sindacale ad accezione dello SPI, è stata successivamente raggirata da una nuova delibera del Direttivo Nazionale CGIL che assegna ai “centri Regolatori” – cioè alle Segreterie Provinciali, Regionali o Nazionali – la valutazione se fare cessare l’attività di Dirigente al 65° anno o farla continuare … quasi sempre in termini “clientelari”.

Se osserviamo bene la realtà organizzativa e dirigenziale nel sindacato ci accorgiamo che i soliti dirigenti anche quando vanno in pensione continuano a svolgere funzioni di collaborazione pagate in molte attività di servizio della CGIL, per non parlare del sindacato dei pensionati (SPI) che nei territori è diventato un “feudo” riempito da ex dirigenti provenienti da diverse categorie: continuano (sempre i soliti) a svolgere attività (pagate) nelle leghe e nei territori fino alla … morte per vecchiaia, svolgendo qualche attività assistenziale e anche là dove cercano di contrattare servizi sociali con le amministrazioni comunali di fatto stringono accordi che nella sostanza rispecchiano quello che le varie amministrazioni avevano già stabilito.

La CGIL (per non parlare di Cisl e Uil oramai complici del potere economico e di governo) ha un fare sindacato molto distante dai problemi veri di chi lavora. Il sindacato ha cambiato pelle: prima contrattava le scelte economiche, normative, di indirizzo produttivo, salariali, professionali… ora gestisce (con gli uffici di servizio) le ricadute negative sui lavoratori – ammortizzatori sociali e vertenze individuali- delle scelte economiche/contrattuali fatte da imprese e governo.

Anche lo sciopero generale indetto da CGIL e UIL non potrà che ottenere cose marginali oppure finire nel dimenticatoio, in quanto risente sia della mancanza di una vera piattaforma rivendicativa discussa e approvata dai lavoratori e pensionati nelle assemblee (con il vincolo ai gruppi dirigenti di rispettarne i contenuti e fare votare i lavoratori e pensionati nel merito di un eventuale accordo) sia del fatto che lo sciopero generale non basta, occorre sviluppare con continuità la lotta, altrimenti diventa solo un polverone.

Manca soprattutto la capacità e volontà di passare dall’analisi della situazione alle proposte di lotte adeguate e partecipate che siano in grado da una parte di respingere a livello generale il disegno economico liberista sempre riproposto – anche se ha fallito – dal padronato a guida del falco Bonomi, dalla UE e dai vari governi (da Berlusconi a Letta, a Renzi, a Draghi) e dall’altra di sostenere a livello generale e locale miglioramenti economici, più diritti, la contrattazione decentrata, salario di cittadinanza, le pensioni, la prevenzione, le proposte di conversione di sviluppo produttivo e occupazionale qualificato ma compatibile con l’ecologia, l’ambiente e la sicurezza dei soggetti che lavorano.

Certo questo fare sindacato è molto faticoso: chi lo fa deve spendersi molto negli organismi dirigenti e con i lavoratori, quasi in modo “missionario” senza pensare a risultati per se stesso. Invece quello che prevale in gran parte di dirigenti CGIL (l’ho vissuto sulla mia pelle) è appunto un “male oscuro” fatto di tatticismo, opportunismo, ricerca di alleanze di gruppi contro altri… sempre con la copertura di essere in “maggioranza congressuale” ma con il fine di mantenere la carica ricoperta e rafforzare il piccolo (o grande) potere personale.

Ho conosciuto bene Landini quando facevo parte, assieme a lui, del Comitato centrale della FIOM): come nuovo Segretario Generale è stata sicuramente una scelta “controcorrente” ed era per molti una speranza; ma la speranza progressivamente va scemando. Perché oggi appare diverso (molto più portato al compromesso) rispetto alle posizioni che esprimeva quando era segretario della FIOM, probabilmente perché pure lui deve fare i conti con Segreteria e Direttivo CGIL, fatti in gran parte da dirigenti divenuti burocrati.

Quindi la questione che si pone con forza nella CGIL è come fare crescere i gruppi dirigenti facendo nascere nuove leve motivate e impegnate anche idealmente per la trasformazione sociale. Ma senza una ripresa delle lotte anche i gruppi dirigenti continueranno a “vivacchiare” pensando di fare un mestiere e non di avere una missione: quella di cambiare il lavoro, la fabbrica, la società e fare evolvere i diritti, la cultura, la civiltà del lavoro. 

Purtroppo il sindacalista CGIL che abbiamo conosciuto in passato – formato e “forgiato dalle lotte”, autonomo dai governi e dai padroni, con la volontà di spendersi molto sia nell’elaborazione rivendicativa, che nella sua socializzazione e nel coinvolgimento dei lavoratori; sia nell’organizzare la lotta, che nel fare decidere democraticamente i lavoratori nei risultati finali – è sostanzialmente estinto, salvo piccole minoranze e gran parte della FIOM.

Allora il punto nodale resta capire come in questa realtà sia possibile garantire rappresentanza e partecipazione, alle classi sfruttate o subalterne diventando soggetti attivi in questo nuovo contesto sociale e politico. Fabrizio Barca – che non è certo un bolscevico – scrivendo sul quotidiano «il manifesto» ha giudicato l’attuale situazione compromessa in modo tale da non vedere una prospettiva di centrosinistra in grado di fare scelte radicali sulla giustizia sociale. L’idea conservatrice del Paese incarnata da Draghi, con la deriva tecnocratica e autoritaria, può essere fermata solo con scelte di fondo per un cambiamento radicale. Barca con il suo Forum delle disuguaglianze propone la costituzione di “Consigli del Lavoro e di Cittadinanza” per elaborare e sostenere 20/30 proposte di mutamento reale . 

Credo che la CGIL possa rinascere se nel Paese reale ci sono anche intellettuali, economisti, movimenti sociali, comitati (una coalizione sociale come la definiva Landini) che cercano di sviluppare un forte movimento di lotte rivendicative dal basso, nelle fabbriche, nelle scuole, nei territori… Non vedo scorciatoie!

15 dicembre 2021

Le vignette – scelte dalla “bottega” – sono di Mauro Biani.

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