Coronavirus | Il contagio delle storie – Racconti dai margini
“Ora e sempre resistenza, non resilienza, resistenza!”, Massimo Ferrante saluta così chi ha voluto festeggiare il 25 aprile con la sua “Bella ciao” in diretta streaming. Un festa della Liberazione che ha visto fermati dalle forze dell’ordine alcuni attivisti delle Reti Sociali per l’Emergenza Napoli che in questi giorni lavora alla più grande distribuzione di generi alimentari della capitale del Mezzogiorno.
di Francesco Delia, Alessandro Di Rienzo e Giuseppe Ottaviano
Poche persone e distanziate per ogni quartiere hanno aperto striscioni che chiedevano alle istituzioni provvedimenti capaci di supportare tutte le persone, l’universalità del corpo sociale in Italia che, con la quarantena, conta una parte sempre crescente superare il confine dell’indigenza.
“A casa mia siamo in quattro, io e i miei tre figli, e abbiamo perso tutti il lavoro” racconta Titti del quartiere Materdei. “Mia figlia è parrucchiera ed era contrattualizzata ma il datore di lavoro non sapendo come avverrà la riapertura e con quale giro di affari ha ritenuto di licenziare i dipendenti; così anche mio figlio che cercava case da vendere per una agenzia immobiliare gli è stato detto di continuare a lavorare da disoccupato non retribuito se intende avere speranze per una riassunzione; così come l’altro mio figlio che lavorava a nero in un bar e anche io che sempre a nero facevo servizi qua e là per arrangiare”.
Arrangiare, accordare alla meglio, ma non un vestito o una seggiola rotta come suggerisce il Devoto – Oli, qui si arrangia soprattutto la propria esistenza e quella dei propri cari. Da un momento all’altro l’arrangiamento si è interrotto. È proprio in questa crepa che si sono inserite le azioni solidali delle Reti Sociali per l’Emergenza Napoli, iniziative di sostegno rivolte alle tante famiglie escluse dai criteri di assegnazione dei buoni spesa, dalle misure riservate a professionisti e imprese o a chi, come i senza fissa dimora, non individuati in nessuna misura economica governativa, regionale o comunale.
“Ad essere colpiti sono chi già stava ai margini, chi viveva di una pensione sociale e degli espedienti di qualche familiare e anche la piccola borghesia, il famoso ceto medio, sempre più logorato, di due lavoratori con figli che insieme arrangiavano duemila e cinquecento euro con una casa in affitto di settecento euro e nessun risparmio in banca” spiega Alfonso, storico attivista per chi una casa a Napoli non ce l’ha. “Anche questi oggi sono nel dilemma se pagare l’affitto o fare la spesa e se marzo è stato il mese dell’incosapevolezza, aprile il mese del compromesso, temiamo che a maggio scoppi l’emergenza sociale”.
Sono tanti i collettivi di autorganizzazione oggi in rete a Napoli. Nel tentativo vano di citarli tutti ricordiamo lo Sgarrupato di Montesanto e il DAMM – Diego Armando Maradona Montesanto che insieme intervengono anche nei Quartieri Spagnoli e seguono 350 famiglie a settimana; l’Ex Opg che interviene al Cavone, alla Sanità e a Materdei, Il Giardino Liberato anche questo a Materdei, la Brigata Vincenzo Leone impegnata tra la Ferrovia e le Case Nuove, l’Area Flegrea Solidale che interviene a Bagnoli, il BAM a Scampia e il gruppo di Responsabilità Popolare operante su tante zone di Napoli.
Volontari e derrate alimentari sono protagonisti anche tra associazioni cattoliche, cooperative sociali e centri culturali e religiosi di riferimento per le comunità srilankese e senegalese. Una rete di mutualismo che in molti ritengono debba continuare anche dopo l’emergenza.
“Si è messa in moto una solidarietà di vicinato che a Napoli è la parte più bella di questa storia di merda che stiamo vivendo. La sfera della cura ha rotto quell’argine che prima era circoscritto all’ambito familiare e che ora si apre a delle dimensioni di prossimità che non vedevamo dal terremoto dell’80. Speriamo non sia un alibi per chi non si prende le proprie responsabilità sul piano istituzionale”, conclude Alfonso.
A mobilitare e ad assemblare gli animi c’è anche quella categoria di cittadini che non poteva restare a casa: i senza fissa dimora e gli elemosinanti. Dalla sera alla mattina, non hanno saputo più a chi chiedere. Il tempo liberato dal lavoro per molti ha rappresentato l’occasione per mettersi a disposizione degli altri, senza mediazioni, in una delle tante mansioni necessarie per non lasciare soli i più fragili.
Alle 8:30 del mattino la Mensa del Carmine è già un pullulare di persone. Mentre Padre Francesco frulla i pelati, gli attivisti di Responsabilità Popolare preparano 140 litri di ragù alla bolognese che verrà servito già dalle 10:30. Il timore di tutti è che i pasti non siano sufficienti.
“Si tratta di un’assunzione di responsabilità collettiva rispetto a un problema collettivo”, spiegano Luigi e Stefano del gruppo di Responsabilità Popolare. “Tutto nasce dall’esigenza di prendersi cura dei senza fissa dimora rispetto i quali le istituzioni faticavano a intervenire prima del Covid 19 e ai quali hanno chiuso, in ottemperanza alle regole imposte con la quarantena, mense e ripari. Alla chiesa del Carmine nell’omonima piazza si recavano da padre Francesco in trecento ogni giorno per sfamarsi, con la quarantena sono saliti a settecento e la mensa fatica ad accoglierli. Il rischio di contagio nell’assembramento era grande così abbiamo cominciato anche a distribuire pasti caldi organizzati in gruppi di prossimità. Ci siamo recati nei luoghi dove usano fermarsi per scoprire come il concetto di senza fissa dimora è assolutamente generico, comprende immigrati, tossicodipendenti, chi ha subito un abbandono o una separazione, chi ha perso un genitore che con la pensione garantiva un affitto per tutti, chi ha perso il lavoro. Per i senza dimora che non sono né elettori né consumatori e che nella nostra società storta sono veramente gli ultimi le Istituzioni non hanno fatto quasi nulla, non hanno riaperto le strutture che in tempo di pace funzionavano per garantire la salute e l’igiene minima. Se noi producevamo nelle nostre case centinaia di mascherine dagli assessorati sono arrivati pacchetti con 40-50 pezzi da dare a una mensa che contava almeno 500 persone in fila o al dormitorio dove ci sono 100 utenti che entrano ed escono ogni giorno”.
I problemi legati alla sopravvivenza alimentare riguardano anche diverse famiglie dei quartieri popolari che sopravvivono con lavori in nero, spesso impiegati nel settore del turismo e della ristorazione. Nella piccola sala del centro di raccolta della Comunità Sant’Egidio nel quartiere Sanità si confondono persone che vengono a prendere e persone che vengono a donare. Si assomigliano, non si notano differenze, è palpabile la premura a dare e non lasciare nessuno indietro, sicuri che forse è solo un caso a non essere nell’altro ruolo, costretti a dover prendere.
“Sia io che i miei amici siamo piacevolmente sorpresi dalla mobilitazione grande di singoli cittadini, o dai giovani medici, energie che si riuniscono per rispondere al bisogno delle famiglie in maggiore difficoltà. A sorprendere è la costante fornitura di alimenti da consegnare a chi ha difficoltà a reperirne” racconta Patrizia, responsabile del punto di distribuzione alla Sanità della Comunità di Sant’Egidio. “Spero che questo tempo rappresenti una opportunità per una riflessione sulla vita disumana che abbiamo fatto fino adesso, che sproni un’apertura verso qualcosa di più essenziale che ci può salvare la vita, cioè che evidenzi i legami, la condivisione, la solidarietà”.
“Distribuiamo cibo, indumenti e apriamo le docce per essere vicini a chi è senza casa. Prima la maggior parte degli assistiti erano extracomunitari, adesso ci sono anche gli italiani: gli italiani separati, gli italiani che sono stati licenziati. L’emergenza ha aumentato il bisogno degli assistiti, lo vediamo qui in Caritas dove tutti i giorni vengono per la spesa che noi cerchiamo di garantire, altrimenti questi non hanno proprio di come vivere. C’è gente che arrangiava nel quotidiano: l’ambulante, i parrucchieri, si sono trovati senza niente e senza preavviso” spiega Tina della Mensa Caritas di Santa Brigida. “L’alloggio per me è il problema più importante. Ci sono tanti alberghi chiusi e si potevano alloggiare qui i senza dimora come è stato fatto ad Ischia con il terremoto, anche gli albergatori avrebbero continuato a lavorare e a dare lavoro”.
Questo periodo con le sue strane dinamiche rivela, senza troppe esitazioni, le debolezze e le fragilità di tutti, ma l’attitudine a collaborare e fare rete è pervasiva. Dai dati raccolti dal 15 marzo al 24 aprile dalle reti del mutualismo si contano 1820 famiglie sostenute, 7270 pacchi spesa consegnati, 24242 pasti caldi dati in strada e circa 50mila euro raccolti tramite il crowdfunding. I destinatari di questa mobilitazione solidale sono individui e famiglie non rientrati nel raggio d’intervento istituzionale di Comune, Regione, Governo.
“Assistiamo oggi a Scampia mille e cinquecento persone, un numero crescente considerato il fatto che in molti ci contattano perché mandati proprio dal Comune di Napoli”, spiega Monica del Bam – Brigata di Appoggio Mutuo. “A dimostrazione che le comunità resistenti quando si organizzano riescono ad essere molto più efficienti della macchina istituzionale. Siamo un aggregato di collettivi autorganizzati insieme all’associazionismo religioso e non. Non riceviamo nessun aiuto dalle Istituzioni, l’unica cosa che abbiamo ricevuto – e ci sarebbe pure mancato! – è semplicemente il permesso per poter girare all’interno della Municipalità e fare quello che stiamo facendo.
Tutti i beni di prima necessità che abbiamo raccolto e che abbiamo in questo momento in questa stanza provengono da una campagna di crowdfounding che abbiamo lanciato sin dalla prima settimana della pandemia e molti altri bancali di beni di prima necessità ci vengono donati come per esempio dal gruppo di Responsabilità Popolare piuttosto che da altre realtà. Scampia ha una tradizione di associazionismo molto lunga e si è avuto un’incidenza sul territorio proprio perché nonostante le diversità si cammina insieme per combattere l’isolamento e l’emarginazione. Con le persone, oltre a consegnare i beni di necessità, parliamo perché è chiaro che il dramma che vivono non verrà risolto dai buoni spesa o dalla spesa che portiamo noi ma si dovrà divenire massa critica per connettersi con le altre realtà cittadine al fine di supportarci a vicenda e per analizzare il prossimo futuro con sguardo critico. Oggi è 25 aprile, abbiamo deciso anche oggi di non restare a casa, di attraversare il quartiere portando la spesa alle famiglie che abbiamo in questa lista che abbiamo prodotto nel corso di queste settimane e porteremo il fiore al partigiano.
A Scampia c’è una via che si chiama via Fratelli Cervi e porteremo un mazzo di fori a questa targa e stenderemo uno striscione su cui abbiamo scritto Combatti la paura, Vivi il quartiere, Distruggi il fascismo”.
Testimonianze raccolte da Francesco Delia, Alessandro Di Rienzo e Giuseppe Ottaviano.
Foto di Francesco Delia
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