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"Contropiede" di Daniele Camilli

Se, come apre Daniele Camilli, citando Wittgenstein, nel suo libro “Contropiede” (Nottetempo Edizioni, 66 pp.), “il mondo è tutto ciò che accade”, l’accadere calcistico ha piena cittadinanza di esistere come oggetto di analisi e come discorso. In questi ultimi anni, la consapevolezza che lo sport, e il calcio in particolare, sia un rivelante discorso sociale da analizzare attraverso i parametri delle scienze umane è ormai un dato di fatto.

Dalle relazioni determinanti per le dinamiche di stabilizzazione del potere in “Calcio e potere” di Simon Kuper, alle riflessioni filosofiche di “La vita è una pallone rotondo” di Vladimir Dimitrijevic, dalle analisi dei meccanismi della socialità attraverso il calcio in “Come il calcio spiega il mondo” di Franklin Foer, fino alle concatenazioni antropologiche e culturali nelle diverse scuole calcistiche delle visioni di “L’Europa nel pallone” del sottoscritto e di "Angeli e Demoni in scarpe bullonate", il calcio è ormai una matrice di sensi vasta, da studiare attraverso le lenti del sociologo, del filosofo, dell’esperto di cultura visuale e non più soltanto aneddotica spicciola o memorabilia del gusto soggettivo.

Partendo da ciò, la prospettiva dell’analisi di Camilli, il quale accosta i sistemi di gioco del calcio alle teorie di organizzazione del lavoro sembra una visione molto profonda e ben focalizzata. Scrivo sembra, perché l’autore nella prima parte del libro, quando afferma a mo’ di slogan di voler spiegare perché “l’evoluzione del gioco del calcio sia strettamente legato all’evoluzione del sistema capitalistico”, cincischia come un terzino fannullone e finisce per non dirci le motivazioni di questa sua visione incrociata. Resta una dichiarazione d’intenti.

Bastava aprire il discorso al fatto che da sempre il calcio si è inserito, a differenza di altri sport anche più antichi, in una prospettiva industriale di produzione e risultati. Da subito, si dice anche nell’età dei pionieri altolocati, il calcio ha affermato che il male è solo la sconfitta e che il produrre la vittoria attraverso la minore spesa di energie economico-fisiche possibile è il traguardo a cui tendere. Bastava anche dire che la squadra è un team di lavoro alla ricerca del miglior risultato nel rapporto lavoro-produzione e l’aggancio era fatto.

Se questa prima parte però è scivolosa e inconcludente, la seconda parte del libro risulta molto acuta e dettagliata. L’intenzione è descrivere come le diverse strategie di gioco seguano la rappresentazione dei modelli di produzione industriali. Il gioco a uomo richiama il “sistema a cristallo” di Carl Schmitt, dove a vigere come regole etiche e di organizzazione sono la posizione, il compito, la funzione parcellizzata. Il lavoratore-calciatore è un ruolo con compiti che si limitano all’esecuzione di gesti meccanici e ripetitivi.



Anche in questa fase però una sensazione di Camilli mi sembra errata. Lui afferma che questo tipo di gioco è stato esaltato soprattutto negli anni anteguerra, ‘40 e ‘50, fino all’avvento del catenaccio, che ha liberato un uomo dal compito e gli ha dato spazio di intervento. A mio parere, è stato proprio il catenaccio scientifico di Herrera a definire la parcellizzazione del lavoro nei diversi settori del campo, con il libero e il regista di centrocampo abili a svolgere lavori di controllo e revisione dei “compiti”. Altro errore: affermare che il massimo del calcio fordista è stato attuato dall’Unione Sovietica.

L’Unione Sovietica, dagli anni ’50 fino a Lobanovski, ha sempre cercato di applicare al calcio il massimo dell’asetticità socialista. Non c’erano individui con compiti da assolvere in base ai propri talenti, c’era una squadra che doveva applicare insieme algoritmi tattici. Il fordismo herreriano, che Camilli spiega, basava tutto sull’individuo e le sue competenze da far rendere in funzioni minime, il lobanovskianesimo è un messaggio di esaltazione massima del collettivo de-individualizzato, dove non ci sono qualità personali da esaltare ma il movimento coordinato e studiato di tutti gli uomini.

Con gli anni ’70 poi, l’autore accosta al sistema a zona degli olandesi la Teoria Generale dei Sistemi, scuola di pensiero che si irradiava in quegli anni proprio nei paesi dove il gioco a zona si andava affermando. Per il TGS l’individuo diviene libero nelle scelte e non è più fordianamente ammaestrato a concretizzare il suo talento in poche funzioni di gioco. Entra nel sistema squadra e ne fa parte, partecipandovi.

L’appendice è dedicata ad un’altra sensazione-parametrizzazione: spesso vince il mondiale la squadra della nazione che in quel momento sta vivendo una fase di instabilità politica e una crisi di trasformazione potenziale, ovvero sta abbandonando le vecchie regole sociali per spostare più in là i limiti al cambiamento. L’idea può essere giusta (Italia ’34 in piena affermazione del regime, Brasile, con i sommovimenti politici degli anni ’60, Germania ’54 con la ricostruzione e ’74 con la Ostpolitik di Brandt), ma non mi sembra sicuramente valere per la nostra vittoria del 2006.

Questi sono più anni di cancrena, di una crisi implosiva da parte di un sistema economico e politico e non hanno assolutamente la faccia di anni di speranze e di proposte ragionate. Speriamo di vincere anche il prossimo di mondiale, magari sarà la volta buona.

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