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Continuiamo a gettare il credito dove non serve!

Il nostro sistema economico non merita grande fiducia e le scelte politiche più recenti, efficaci a brevissimo termine, non convincono nemmeno sul medio periodo. In questo quadro si scopre che gli istituti sembrano prediligere i clienti insolventi e i settori in cui siamo internazionalmente più forti sono quelli più trascurati....

In un periodo in cui il termine Credit Crunch è entrato a fare parte del vocabolario comune, sapere che le banche, in generale, hanno affidato come prestiti più di 1400 miliardi di euro (in numeri la cifra viene rappresentata così: 1.400.000.000.000€!) desta sorpresa. Dove sono finiti tutti quei soldi? Secondo i dati ufficiali di Banca d’Italia, aggiornati a Settembre 2011 e recentemente commentati in modo razionale ed opportuno da Giuseppe Bortolussi, segretario della CGIA di Mestre, per la stragrande maggioranza sono entrati in pancia alle grandi imprese italiane, a svantaggio di tutte le PMI del nostro paese e, ovviamente, delle famiglie.

Purtroppo, sembra che gli istituti di credito vogliano stare sul sicuro e affidino i propri stanziamenti solo ad affidatari solidi. E invece, da quello che CGIA Mestre evidenzia, non è proprio così. In effetti è un dato piuttosto scontato, in Italia, dove la grande impresa è rada, limitata e per lo più legata a produzioni vecchie e tradizionali e, in molti settori, assolutamente priva di quelle caratteristiche di innovazione e distribuzione finale che oggi sono indispensabili per posizionarsi su un mercato globale. In realtà, infatti, sembra che le banche si fidino delle attività sbagliate se è vero che 80% del credito in sofferenza è riconducibile per buona parte proprio alle grandi imprese. In breve, il 10% delle imprese (grandi imprese) ha percepito l’80% del credito disponibile (1134 miliardi su 1400) mentre il 90% delle imprese (piccole) ha goduto del 10% del credito disponibile. Di questi crediti erogati, 99,5 miliardi non sono stati resi, o sono in sofferenza, ma la sofferenza è riconducibile per quasi l’80% alle grandi imprese che fanno parte di quell’elite che ha goduto di quasi tutto il credito.

E’ un fenomeno previsto, poiché le banche e le grandi imprese, spesso, condividono parte della proprietà e perché gli enormi buchi finanziari che a volte riguardano le grandi imprese, spesso sono leve di ricatto valide per ottenere supporto presso gli istituti, che pur di non perdere quei crediti, o di procrastinarne la perdita, sostengono attività già abbondantemente indebitate, o palesemente insolventi in una regola che vede anche il grande debitore in posizione prevalente rispetto al piccolo imprenditore.

E’ evidente che questo dato sia preoccupante per chi valuta le possibilità del nostro sistema in un mercato globalizzato sempre più competitivo e che di certo preoccupa la CGIA di Mestre, che ha redatto un interessante resoconto dei dati in questione.

In un mercato in cui la PMI rappresenta cifre percentuali di netta maggioranza, quanto sopra è evidentemente sbagliato e sufficiente a determinare come non vi sia una volontà generale a salvaguardare il nostro sistema. Aggiungiamo anche che alcuni settori, strategicamente identificati a livello mondiale come domini ancora incontrastati del made in Italy, come il tessile, appunto, sono composti quasi esclusivamente di piccole e micro imprese e, anche nei casi di aziende dai fatturati rilevanti, solo molto sporadicamente si arriva a parlare di medie imprese.

Mentre CGIA si interroga se il fenomeno sia dettato più dalla coincidenza tra consigli di amministrazione degli istituti e delle industrie, o dal rischio che queste rappresentano per gli istituti, Art Newspaper, bibbia internazionale del mondo dell’arte, comunica nel suo sondaggio annuale che l’Italia esce dalla top ten dei paesi visitati ed apprezzati per musei e patrimonio artistico e che gli Uffizi vengono abbondantemente snobbati, a favore del Louvre, dal pubblico mondiale.

Motivi? Non certo il numero di opere ed il loro livello, ma di sicuro la loro gestione e la facilità di accedere ad un patrimonio pressoché unico al mondo da un turismo sempre più ricco e numeroso.

Insomma… abbiamo una piccola e microimprenditoria forte e variegata, ma la stoppiamo a favore di grandi industrie lente, arretrate e insolventi, abbiamo un patrimonio unico al mondo, ma lo trascuriamo e sottostimiamo a favore di iniziative in cui siamo poco interessanti e poco competitivi.

Ai nostri governanti e a molta di quella classe dirigente (e non digerente!) a cui sono affidate le sorti del nostro paese, del nostro mercato e della nostra economia è sfuggito un particolare: l’Italia del boom economico è cambiata, gli italiani non comprano più le fiat 600 e abbiamo smesso di essere la Cina d’Europa, con la possibilità di esportare prodotti di buona qualità a basso costo. I nostri riferimenti economici e di mercato non sono più i paesi occidentali, ma nuovi, lontani ed enormi mercati. L’Italia ha la fortuna di godere ancora di ottimi ricordi e di una grande reputazione all’estero, che non è quella teutonica legata alla precisione ed alla qualità, ma alla fantasia, al servizio, al turismo ed allo stile.

Speriamo che a qualcuno venga in mente di osservare la realtà, di cambiare con rapidità quegli aspetti sbagliati che ci stanno portando verso un inevitabile baratro per creare quella ricchezza, che, per ora, banche e stato stanno prelevando a grandi mani dai singoli imprenditori e cittadini, senza, però dar loro la possibilità di crearne altra e nuova.

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