• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Cronaca > Conflitto carabinieri polizia? Inciampa la fiamma

Conflitto carabinieri polizia? Inciampa la fiamma

Due operazioni contro la mafia apparentemente ineccepibili rivelano, nelle pieghe della cronaca, un conflitto irrisolto fra carabinieri e polizia. Le ombre del 1992 avvelenano ancora il clima degli ambienti investigativi 

Ci sono delle ombre, delle cose poco chiare, nelle ultime operazioni condotte a Palermo dai carabinieri. Leggendole, a freddo, e collegandole ad altri fatti emersi negli ultimi anni della storia della lotta a Cosa nostra, sembra trasparire fra le righe un conflitto, neanche troppo velato, fra le nostre forze dell’ordine, in particolare fra carabinieri e polizia di Stato. Un gioco, decennale, che da normale prassi di “concorrenza” è sfociato in qualcosa di ben diverso e pericoloso. Una “stortura” che, purtroppo, si è presentata più volte nella storia repubblicana, a partire dalla morte del bandito Giuliano e dalla strage di Portella delle Ginestre. Una “corsa” a chi fa di più e meglio che spesso ha messo a repentaglio l’efficacia dell’azione delle forze di pubblica sicurezza. Ora la partita si riapre.

Con indiscrezioni che raccontano addirittura di intercettazioni di un apparato dello Stato nei confronti dell’altro, con un susseguirsi di forzature in operazioni sempre più spettacolari, mediaticamente ineccepibili ma in realtà più virtuali che concrete. Un conflitto che, questa una delle ipotesi più accreditabili, si concentra attorno al dualismo irrisolto fra i due ministeri di competenza, e quindi fra Roberto Maroni e Ignazio La Russa, e al progetto di direzione unica di tutti gli apparati dell’intelligence italiana, progetto di cui l’ispiratore, sul modello della riorganizzazione dell’intelligence statunitense attuato da Negroponte sotto il “regno” di Bush, è l’ex capo della polizia Giovanni De Gennaro, oggi direttore del dipartimento delle Informazioni per la sicurezza. E questo conflitto, come già successo in passato, ha un campo di battaglia: la lotta a Cosa nostra. Per delineare gli effetti collaterali di questa contesa basta andare ad analizzare gli ultimi fatti di cronaca. A cominciare dall’ultima operazione, la Chartago, di fine gennaio. Un’operazione che sembrava essere risolutiva ma che, a guardarla da vicino, mostra aspetti inediti e un quadro ben più complesso.

A cominciare dal fatto che hanno dovuto fare in fretta. Il rischio che la “piccola” guerra di mafia che da alcuni anni sta colpendo il territorio della provincia di Palermo e in particolare i comuni di Partinico e Borgetto degenerasse in un bagno di sangue era troppo alto, hanno dichiarato i vertici dei carabinieri. Per questo sono scattate le manette. Sedici arresti eseguiti il 21 gennaio dai reparti dell’Arma, fra i quali spicca quello di Nicolò Salto, capo mandamento di Borgetto sopravissuto a un agguato solo due mesi prima. E poi un sequestro di due milioni di euro e perquisizioni a tappeto sul territorio. Una grossa operazione, la più grossa in questa area dal 2005. Leggendo le centinaia di pagine delle motivazioni degli ordini di cattura emessi dalla Dda di Palermo spicca un nome che, poi, nella lista degli arrestati non c’è: Domenico Raccuglia, il “veterinario”, latitante da quasi 18 anni. Boss emergente. Anzi, boss e basta. Perché ormai è evidente che Raccuglia è, insieme all’altro latitante trapanese Matteo Messina Denaro, la nuova faccia di Cosa nostra. Gli inquirenti lo definiscono «pericoloso killer» e ne tracciano un ritratto dettagliato: uomo di tradizione, che si allontana dalla gestione “morbida e sommersa” di Bernardo “Binnu” Provenzano (la collaboratrice di giustizia Giusy Vitale racconta perfino che sotto imput di Totò Riina il “veterinario” era stato incaricato di liquidare “Binnu”), che in pochi anni, da Altofonte diventa uomo di spicco prima a San Giuseppe Jato e poi, dopo i numerosi arresti che hanno decimato il clan dei Vitale “Fardazza”, si impossessa del fondamentale intreccio di mandamenti che ruotano attorno a Partinico. Allievo di Brusca e Leoluca Bagarella, non sa solo sparare. È un uomo di 44 anni che “comanna” e sa come gestire il business degli appalti, del racket e della droga. E Nicolò Salto, detto scherzosamente “Lazzaro” dopo l’attentato di novembre 2008, è il suo uomo di fiducia, la sua “voce” nel territorio dove impianta la latitanza.

Raccuglia è sfuggito all’arresto. Per l’ennesima volta. Anzi, probabilmente il “veterinario”, dopo il tentato omicidio di Salto, si è spostato, ha cercato rifugio e lo ha trovato ancora più vicino a Palermo, nella zona che fu il trampolino di lancio dei Lo Piccolo nel loro tentativo di scalare Cosa nostra, verso Punta Raisi, Carini, Cinisi. Ma non pensiamo a una fuga precipitosa nella notte da qualche cascina apparentemente abbandonata. Raccuglia ha una rete di autisti, sorveglianti, staffette. Si muove sul territorio abbastanza liberamente. I “piccioli”, e lui ne ha a disposizione davvero molti, ti permettono questo e altro. Diciamo che non è “scappato”, è più corretto dire che ha traslocato.

Hanno dovuto fare in fretta. Anche perché alcuni degli elementi equilibratori del sodalizio criminale, che dopo l’arresto di Salvatore e Sandro Lo Piccolo hanno garantito in qualche modo una sorta di tregua a Palermo, sono saltati a dicembre con il centinaio di arresti dell’operazione Perseo. Si sono creati degli spazi anche in città e il conflitto latente (latente è un eufemismo visti i sette morti e le almeno due lupare bianche che hanno segnato la tregua fino a oggi) si stava per riaccendere. Già a novembre si parlava di armi. Smantellato un pezzo della rete dei clan di Palermo, le armi erano pronte a entrare in azione. Hanno dovuto fare in fretta, quindi. Bruciavano troppe macchine. Saltavano troppe ruspe. Le voci degli intercettati (quante intercettazioni telefoniche e ambientali hanno messo in piedi i carabinieri in questi ultimi mesi?) lanciavano segnali inequivocabili di un’accelerazione.

E quindi è arrivato il blitz. Non la decapitazione dei clan di Partinico e Borgetto come è stato sbandierato dall’ufficio stampa dell’Arma, ma una “potatura”. Certo, alcuni dei protagonisti militari degli scontri degli ultimi anni sono ora in carcere. Certo, è stato tagliato uno dei canali di collegamento con i “cugini” statunitensi. Ma il “veterinario” è sfuggito dalla rete. E i “rampolli” dei Vitale Fardazza (i veri padroni di questo territorio governato pro tempore da Raccuglia) nella rete non ci sono proprio finiti. E ora? Ora i Fardazza, con l’uscita di Michele Vitale (dopo più di un decennio di detenzione ha raggiunto la fine della pena) dall’università dell’Ucciardone, potranno riorganizzarsi senza l’intralcio di qualche tutore ambizioso. Strana famiglia quella dei Vitale. Da un lato riusciva a districarsi fra le linee divergenti del latitante Provenzano e del capo, Totò Riina, in carcere. Con abilità e spregiudicatezza. Per poi precipitare nell’omicidio e nella barbarie per una questione di pascolo o di vacche. Strana mafia quella rappresentata da questa famiglia. Mafia di confine fra banda di vaccari e clan consolidato e di “rispetto”. Gruppo dicotomico, criminalmente “irrituale”, ma efficace. Molto efficace.

Hanno fatto in fretta anche a dicembre. Molto in fretta. L’operazione Perseo, colossal delle manette, è piovuta su Palermo di colpo. Un centinaio di arresti e, secondo la tesi della Dda, si è sgominato il tentativo di riformare la Commissione provinciale di Cosa nostra, e quindi di avviare il superamento graduale del comando che, secondo le regole dei clan, è ancora nelle mani di Totò Riina in carcere dal ’93. Anche qui i protagonisti sono stati i carabinieri. Che hanno conquistato le prime pagine dei giornali, servizi su tutti i tg di prima serata, e addirittura uno special su “TeleCamere” di Anna La Rosa, con tanto di ministro della Difesa Ignazio La Russa a presenziare, servizi speciali e collegamenti satellitari fra Roma e Palermo. Un’operazione, la Perseo, motivata, nei tempi, da alcune intercettazioni che parlavano di «alcuni fatti gravi» da mettere in atto. Quali fatti è un mistero. Ma gravi sicuramente. Nelle 1.700 pagine di intercettazioni allegate agli ordini di cattura si trova un accenno a questi fatti “gravi”. E basta. Il resto è il racconto del tentativo da parte di un anziano boss, Benedetto Capizzi, di rimettere in piedi una sorta di Commissione provinciale di Cosa nostra, dichiarando di avere il consenso di Totò Riina, tentativo contrastato da un altro boss, Gaetano Lo Presti, capo mandamento di Porta Nuova, che dichiara anche lui di essere in contatto e di muoversi in relazione con Riina. E la fretta a volte fa fare degli errori. Lo Presti si suicida a poche ore dall’arresto, in cella di sicurezza, dopo aver letto i capi di accusa. E non solo. I carabinieri arrestano Benedetto Capizzi ma si lasciano sfuggire il figlio Sandro. Da anni si conosce la pericolosità del rampollo dell’anziano boss. Si dice, a Palermo, che Benedetto non conti più nulla da tempo e che sia Sandro a gestire il business della famiglia.



E qui scatta il primo cortocircuito. Mentre l’operazione Perseo conquista le vette dei palinsesti televisivi, cominciano a emergere delle crepe inquietanti nell’insieme dell’azione. Anche qui emerge come siano stati arrestati solo alcuni protagonisti degli ultimi dieci anni di Cosa nostra, e il suicidio di Lo Presti e soprattutto la fuga di Sandro Capizzi fanno pensare a un’operazione incompleta, forse, appunto, affrettata. Sandro Capizzi, comunque, viene arrestato alcuni giorni dopo insieme al suo vice Salvatore Freschi. Ma l’arresto non è condotto dai carabinieri. È la polizia di Stato che interviene. Lo stava “puntando” da tempo e lo va a “pescare” nella casa di un’anziana vedova dove si era nascosto e da dove stava disegnando l’organizzazione della propria latitanza.


La polizia? Non erano i carabinieri a condurre l’operazione? Il cortocircuito si nasconde, probabilmente, proprio qui. E ha una connotazione tutta politica. Per capirci qualche cosa bisogna tornare indietro nel tempo, ricordando la vicenda della trattativa fra Stato e Cosa nostra partita all’inizio dell’estate del 1992, nel periodo che intercorre fra l’attentato di Capaci e quello di via D’Amelio. La questione è tuttora aperta. Di certo c’è che il nome del capo dei Ros dei carabinieri di allora, il generale Mori, torna e ritorna all’interno degli atti processuali. Che dopo l’arresto di Totò Riina, prima non si perquisì il covo del boss, poi ci si dimenticò addirittura di sorvegliarlo, permettendo così a Leoluca Bagarella e altri di ripulirlo da qualsiasi documento compromettente (a quanto risulta l’archivio di Riina è oggi in mano a Matteo Messina Denaro). Forse, proprio per ricondurre a un livello maggiore di trasparenza le indagini, dopo l’arresto di Riina esse vennero assegnate con sempre maggior frequenza alla polizia di Stato, che ha condotto in pochi anni a un numero impressionante di successi: dall’arresto di gran parte del clan Vitale Fardazza alla clamorosa operazione di Montagna dei Cavalli con la cattura di Bernardo “Binnu” Provenzano, fino alla cattura di Salvatore e Sandro Lo Piccolo. Come riferimento, per quanto riguarda la magistratura, l’allora procuratore capo di Palermo Giancarlo Caselli.

Dopo il suo trasferimento a Torino, la squadra non viene smantellata ma non ha più quel ruolo che si è conquistata sul campo. Tutto “il grosso” passa nelle mani dei carabinieri. E qualche problema nella continuità dell’azione comincia a emergere. Latitanti intercettati che non vengono riconosciuti da chi li ascolta, per fare un esempio. Ritardi, causati da esigenze mediatiche, nell’arresto di persone di indubbia pericolosità, come nel caso di Giuseppe Salvatore Riina, figlio di Totò, che dopo l’annuncio della condanna definitiva trascorre alcune ore libero a salutare amici e parenti, indisturbato, aspettando che arrivino a Corleone i Ros da Palermo in tenuta da blitz, passamontagna compreso. Ne bastavano due di carabinieri, delle decine che presidiano il paese. Ma si voleva probabilmente il colpo di teatro. E si è rischiata una nuova latitanza.

E poi un altro cortocircuito, un eccesso degli investigatori con fiamma sul cappello, nell’uso di “cimici” posizionate a intercettare, a quanto trapela da ambienti investigativi, anche “aree” non di loro competenza. E ancora la fretta degli ultimi mesi e le maglie larghe di una rete che ha fatto sfuggire pesci molto grossi. Intanto la polizia si limita a mettere “toppe”. Catturando Vito Vitale (il latitante non riconosciuto) e Sandro Capizzi (l’emergente sfuggito). E aspettando tempi migliori per rimettere in campo le competenze oggi sottostimate.

Perché una scelta di campo così netta? Perché la fretta? Perché l’uso smodato del palcoscenico mediatico? Sicuramente gli ambienti di riferimento all’interno dei ministeri della Difesa e della Giustizia pretendevano risultati visibili e certi da spalmare sui media per dimostrare che, nonostante i tagli clamorosi alle forze dell’ordine della finanziaria d’agosto e la riforma della giustizia promossa da Alfano, il governo non limitava la propria politica della sicurezza alla repressione dell’immigrazione. E poi, dicono i maliziosi, c’era da contenere la “bomba” delle rivelazioni di Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo condannato per mafia, sulla trattativa fra Stato e Cosa nostra alla vigilia della strage di via D’Amelio e sul coinvolgimento di pezzi delle istituzioni e dell’Arma, in particolare nella figura del generale Mori, in quell’episodio ambiguo posto all’inizio della Seconda repubblica. Una parentesi, quella di Mori e del suo coinvolgimento nelle ombre della trattativa fra Stato e mafia e sulla cattura di Riina, che l’Arma vorrebbe cancellare. 


dal numero di left-Avvenimenti in edicola

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares