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Come si organizza un festival (dialogo immaginario)

 

CAPO: Okai, ragazzi. Tiriamo le somme: quest’anno col festival puntiamo ai sedici milioni di spettatori. Quello che state per organizzare dev’essere un evento, in tutti i sensi.

STAFF: Accidenti, capo, una bella responsabilità!

CAPO: Appunto. Niente gaffes. Nessuna sbavatura. Non sono ammessi errori nella progettazione.

STAFF: Tutto va programmato e finalizzato al successo.

CAPO: Proprio così. E che cosa vi ho insegnato, come si procede in questi casi per stare al sicuro?

STAFF: Si punta tutto sulla qualità, capo. E’ un festival della canzone italiana trasmesso in mondovisione, è una delle più seguite immagini della nostra nazione all’estero. Perciò: qualità della musica, qualità dei testi. In una parola, qualità del gusto.

CAPO: Gusto? Qualità?! Non capisco…

STAFF: Sì, quel mix unico che caratterizza l’Italia dai tempi di Dante. Da Giotto alla Ferrari, da Petrarca ai cantautori. Bellezza, fascino, poesia… La cultura…

CAPO: La cultura?!? Ma che cosa state dicendo?

STAFF: Mai come in questo momento gli Italiani hanno bisogno di tenersi stretti alle cose buone che sanno fare bene. C’è la crisi. C’è in giro una voglia pazza di serietà e di sobrietà. E un festival che si rispetti è sempre lo specchio della nazione.

CAPO: ?!?!

STAFF: Insomma, ciò che abbiamo in mente è una manifestazione canora in cui ogni Italiano possa riconoscersi. Un festival di cui i telespettatori che pagano il canone possano andare fieri. Giusto, capo?

CAPO: Cretini! Siete una banda di mentecatti. Non avete capito niente! Ma dove vivete, sulla luna? E’ per questo che vi pago? Per mandarmi in fallimento?

STAFF: Ma…

CAPO: Niente ma. Ora ascoltatemi bene. Per fare un buon Festival è necessario seguire una ricetta.

STAFF: Una ricetta?

CAPO: Una ricetta. Un festival è un polpettone. Per antonomasia. Anzi, un minestrone. Deve esserci dentro un po’ di tutto. Tutto quello che può piacere agli affamati. Dirò meglio: un festival somiglia al pastone per i porci.

STAFF: Per i porci? Ma capo…

CAPO: Già, per i porci, chi credete che stia seduto in poltrona il sabato sera davanti alla tivù?

STAFF: Quindi?

CAPO: Quindi si procede come nel retrobottega delle taverne. Dividiamo il composto in quattro ingredienti principali. Prima di tutto occorre un quarto di nudo femminile: seni, cosce, inguini e sederi. Ma dovete osare. Osare. Osare! Fin dove è possibile. Anzi un po’ di più. Vi fermerete solo un millimetro di carne prima che a qualche moralista non venga in mente di censurare la messa in onda.

STAFF: Ma, Capo, le donne si sentiranno offese.

CAPO: Tanto meglio, così la smetteranno una buona volta di fare le bigotte. Poi ci vuole un quarto di parolacce. Ma di quelle grasse. Da trivio. Che facciano sentire gli Italiani a proprio agio. Molte parolacce. Tantissime parolacce. L’utente medio televisivo a fine giornata, dopo il lavoro, dopo aver pagato le tasse e le bollette, non chiede altro che di ridere con la bocca piena. Insomma, non perdete di vista l’immagine iniziale: il maiale che si rigira nella brodaglia.

STAFF: E i bambini che sono davanti alla tivù? Non dobbiamo tener conto della loro educazione linguistica, dei loro valori, delle fragili menti in formazione?

CAPO: Sciocchezze. In questo mondo duro, è bene che i bambini imparino subito a parlare la lingua dei duri. Perciò, mi raccomando, specialmente negli sketch comici, una valanga di volgarità. Andiamo avanti con il terzo ingrediente: un quarto di predicazione.

STAFF: Predicazione? Che genere di predicazione?

CAPO: Un comizio sconclusionato. Il senso non ha nessuna importanza. Importa solo che a predicare sia qualcuno molto in vista. Perciò, carta bianca per quanto riguarda i compensi. Potete esagerare. Vi autorizzo io. Anzi, vi suggerisco anche un metodo per preparare il testo. Seguite l’esempio dei surrealisti. Ricordate Tzara? Prendete tanti articoli di giornale, i più disparati, di filosofia, di religione, di sport, di cucina, di gossip, quello che volete. Tagliateli con le forbici lungo le righe e infilate le striscioline di carta in un sacchetto. Mescolate bene. Quindi tirate fuori i ritagli. Uno alla volta. A caso. E disponeteli in fila su un foglio. Quello sarà il testo finale che verrà declamato dal telepredicatore.

STAFF: Ma capo, così non avrà alcun senso. Sembreranno solo farneticazioni. Nessuno capirà niente!

CAPO: Appunto. Questo è il risultato cui dobbiamo mirare. Il teleutente medio italiano adora ascoltare qualcuno che quando parla non sa quello che dice. Ma finge di crederci profondamente.

STAFF: Bè, fatto così sembra davvero una poltiglia, un minestrone messo insieme con roba avariata. Roba che emana cattivo odore. No capo, non siamo affatto d’accordo. Gli Italiani non sono così. Non meritano questo. Pretendono una tivù di qualità. Quando girano sui canali satellitari ne trovano in abbondanza. Ma anche le reti pubbliche, quando ci si mettono, sanno confezionare buone trasmissioni.

CAPO: Statemi bene a sentire. Voglio darvi una dritta. Siete tutti abbastanza adulti da ricordare quel film di grandissimo successo che sbancò i botteghini di tutto il mondo, La signora in rosso. Era l’ 84, se non sbaglio. Nella penultima scena l’irresistibile Kelly Lebrock è distesa nuda sul letto, coperta solo da un lenzuolo, davanti agli occhi increduli di Gene Wilder che ha perso la testa per lei e che per tutta la durata del film si è avventurato in rocambolesche peripezie pur di averla. Lui rappresenta l’americano medio, l’uomo comune e fessacchiotto. Un po’ come il teleutente italiano medio che seguirà il festival di san Remo. Bene, la signora in rosso lentamente si sfila di dosso il lenzuolo. Si scopre completamente. E’ nuda e irraggiungibile sotto gli occhi inebetiti di Wilder. Allora sorride e pronuncia quella frase… Ah, quella frase…

STAFF: Quale frase, capo?

CAPO: Non la ricordate? Lei sorride, guarda l’uomo totalmente irretito, totalmente istupidito, totalmente incapace di ragionare e di parlare e gli sussurra: “Serviti il pasto, cow boy…”.

STAFF: “Serviti il pasto cow boy”… E’ quello che dovremmo dire anche noi agli Italiani che guardano la tivù? Servitevi il pasto, gozzovigliate con la brodaglia che abbiamo apparecchiato per voi?

CAPO: Proprio così. Vedo che finalmente cominciate a capire come si fa la televisione.

STAFF: Mah… E l’ultimo quarto? Manca ancora un quarto di ingredienti per completare la ricetta.

CAPO: L’ultimo quarto? Già, dimenticavo… Bè, metteteci dentro quello che volete. Magari un po’ di canzoni.

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.56) 5 marzo 2012 22:54

    Caro Tortora,

    si dice nel cyberspazio che l’associazione italiana per il diritto a la teleporcheria "Meglio un inguine oggi che un documentario domani" ed un sacco di altre associazioni suine, (quadrupedi e non), sono arrabiatissime con Lei. Si legge anche di quelli che si domandano perché ha messo in mezzo a quelli di trivio... Bua, in questo caos.... solo due cose sono chiare... 1) tutti si sono imbattuti nel suo pezzo introducendo nel google la parola chiave "farfallina di belen" 2) si sono fermati a leggere solo perché pensavano che il pezzo fosse copy/pastato da un blog umoristico... non Le dico le lamentele... hanno detto tutti che il dialogo non fa ridere.

    Comunque lei non demorda, piúttosto resista e si mantenga on writing... 
    hasta el siguiente! 

     

    • Di (---.---.---.102) 7 marzo 2012 17:25

      Se le cose sono andate così, vuol dire che ho colto nel segno. La scrittura a questo serve. 

      Per quanto riguarda "trivio", con la "t" minuscola, non ha nulla a che vedere con le città o i paesi che hanno lo stesso nome, con la "T" maiuscola ovviamente. Personalmente conosco una frazione chiamata Trivio che è deliziosa per bellezze naturali e per la gente che la abita. Nell’articolo mi riferivo ad un modo di dire: trascrivo dal vocabolario Zingarelli: "da trivio" = di estrema volgarità. 
      Per quanto riguarda Belen, ammiro anche io la sua bellezza, si tratta solo di distinguere luoghi, tempi e modi dell’esibizione. Tutto qua.

      Grazie per aver letto il mio articolo,
      R. T.

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