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"Citizen-watchdog", sono i cittadini monitoranti la risposta alla corruzione nelle grandi opere?

Quante opere pubbliche potremmno realizzare con gli stessi soldi drenati invece dalle grandi opere inutili? 

Quante scuole potremmo mettere in sicurezza? Quanti ospedali pubblici si potrebbero dotare delle migliori tecnologie, diminuendo così il “turismo sanitario” tra le regioni italiane? Quante strade oggi di fatto impraticabili perché piene di buche (a Roma una buca ogni 15 metri) potrebbero essere rifatte, evitando così incidenti anche mortali?

Dal solo project financing abbiamo un indebitamento «implicito, sotterraneo o nascosto» di circa 200 miliardi di euro, a cui i calcoli della Cgia di Mestre aggiungono altri 93,6 miliardi come “costi per corruzione”. Con una minima parte di questo denaro potremmo ad esempio coprire interamente le spese per le renziane “Scuole sicure” (400 milioni di euro), renderle antisismiche aggiungendo altri 40 milioni e, con altri 244 milioni costruirne di nuove: tenendo per buone le cifre fornite dal governo Renzi, avremmo di fatto risolto il problema dell'edilizia scolastica con meno di un miliardo sottratto alla corruzione da grandi opere.

Per approfondire:

Quando si parla di “spese inutili” l'esempio classico è quello delle spese militari – altrettanto inutili e dannose – dimenticando troppo spesso quanto denaro l'Italia abbia sprecato e continui a sprecare nella cementificazione di un Paese che, al 2015, vedeva oltre 2 milioni di ettari irrimediabilmente compromessi (7% del territorio[1]). Emblematico è uno dei tanti dati riportati nel più volte citato “Grandi opere contro Democrazia”, curato dal giornalista Roberto Cuda: la Regione Lombardia, prima in Italia per urbanizzazione del territorio[2], spende 1,9 miliardi di euro per «salvare» tre autostrade: Brescia-Bergamo-Milano (BreBeMi), Tangenziale Esterna di Milano e Pedemontana Lombarda, i cui livelli di traffico reali sono inferiori – e non di poco – alle aspettative. Di conseguenza, inferiore è anche il ritorno sull'investimento del consorzio aggiudicatore e del project financing con cui tali infrastrutture sono state realizzate. Ma con 1,5 miliardi di euro la Regione avrebbe potuto migliorare il sistema ferroviario, usato quotidianamente da circa 700.000 pendolari.

Per approfondire:

La BreBeMi ha inoltre una particolarità: è stata costruita «per interrare rifiuti», come denuncia il 4 novembre 2014 il sostituto procuratore nazionale antimafia Roberto Pennisi alla Commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti. Un'attività che rimanda al ben poco nobile esempio dell'autostrada Garoe-Bosaso in Somalia, simbolo della malacooperazione italiana degli anni '90 e tra le cause dell'omicidio dei giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.

Per approfondire:

Grandi opere inutili – e spesso pericolose – tornano ciclicamente nella cronaca locale, nazionale e internazionale, che siano il traforo di un monte pieno di amianto e uranio (Tav Torino-Lione) o una diga come quella di Mosul in Iraq – dove è impiegato uno dei nostri contingenti militari più ampi – di cui sono noti, e da tempo denunciati anche in Italia, i problemi strutturali.

Spesso i territori non hanno bisogno della “grande e unica opera” ma di un insieme di interventi diffusi e coerenti che, partendo dall'esistente riqualificandolo, connettendolo, utilizzando nuove tecnologie e materiali sappiano offrire a costi accettabili l'accessibilità e le connessioni a cittadini e imprese. E qui gli strumenti di intervento vanno reinventati e non basta superare la Legge obiettivo

Scrive Anna Donati in “Grandi opere contro Democrazia”[2].

Ma i territori hanno bisogno – anche – di movimenti che li difendano dagli interessi speculativi, di comunità che coltivino un «rapporto genetico»[3] con il proprio territorio, monitorando lo stato delle infrastrutture, che raccolgano analisi e documenti – anche attraverso nuovi strumenti come il (per ora poco usato) Freedom of Information Act – comunità monitoranti che facciano (contro)informazione e denuncia, sia penale quanto mediatica. O ancora, comunità che entrino – costituendosi in comitati popolari, come evidenzia Guido Viale sul Manifesto – nel controllo e nella gestione di servizi e infrastrutture, da considerare non come beni pubblici o privati ma come veri e propri beni comuni. Il quotidiano Repubblica – o qualunque testata nazionale italiana – avrebbe denunciato le «anomalie gravi» di 300 tra ponti, viadotti e gallerie sulle 45.000 infrastrutture italiane se il 14 agosto 2018 non fosse crollato il ponte Morandi a Genova?

Il crollo del ponte di Genova genera una domanda – che si ripete ad ogni crollo: si poteva evitare? Se ci fosse stata una comunità monitorante quella struttura – che sia il ponte, la scuola, il palazzo o il tratto stradale – sarebbe stata costruita con scarsa qualità nei materiali, nei lavori e, soprattutto, nei controlli? Ancor più se a quella comunità si fossero aggiunti giornali recettivi alle loro denunce?

Il ponte Morandi sarà un punto di svolta nel monitoraggio delle infrastrutture italiane?

Quante volte i Benetton – unici accusati non completamente a ragione - sono stati oggetto di inchieste e approfondimenti prima del crollo del ponte Morandi? Quante volte, prima del 14 agosto 2018, si è parlato del Segreto di Stato sulle concessioni? Quanti giornali, dopo i primi giorni di servizi allarmati, si sono trasformati in osservatori sulla pericolosità o la scarsa manutenzione delle infrastrutture italiane? Quanti di quei giornali che fanno campagne sui diritti umani approfondiscono le violazioni delle nostre multinazionali (Benetton-Mapuche; Eni-Opl245; Salini-Impregilo-Gibe III)? Quanti denunciano il ruolo della grande industria italiana nei blocchi di potere internazionali che, ieri come oggi, tengono in piedi le dittature in giro per il mondo (Fiat-Argentina-regime Videla; Eni-Egitto-al Sisi)? Quanto (Partito del)Cemento c'è nella stampa italiana?

L'Italia che (si) monitora: dal citizen-journalism ai “citizen-watchdog”

La risposta ad accuse come la «propaganda dei grandi giornali» o al «servilismo» verso «poteri forti» - mai comunque nominati – di cui non sempre a torto viene incolpata la cosiddetta stampa “mainstream” italiana è il citizen-journalism: cittadini che, grazie alla (falsa) gratuità di internet, si trasformano in giornalisti. O almeno ci provano, con alterne fortune.

Oltre alla diffusione di “fake-news” usate da sempre anche dai giornali cartacei, la disintermediazione della rete ha permesso la nascita di siti di informazione – e controinformazione - “civica”: alla fine degli anni '90 esperienze come Indymedia, espressione giornalistica del movimento altermondialista, hanno permesso non solo di denunciare quel capitalismo i cui danni sono oggi approfonditi sulle prime pagine dei più importanti quotidiani nel mondo, ma anche di far germinare quella pratica di monitoraggio “dal basso” che oggi permette di fare informazione sugli abusi delle forze dell'ordine o sulla reale incidenza – sanitaria, ambientale, economica, politica – di grandi opere come il gasdotto Tap in Puglia, la Tav in Piemonte o il progetto del nuovo aeroporto di Firenze, che andrà ad incidere su un'area, la Piana Firenze-Prato-Pistoia, già nota per gli altissimi livelli di inquinamento.

Comunità monitoranti possono essere considerati il lavoro sul petrolio in Basilicata portato avanti da decenni dal giornalista Maurizio Bolognetti (Pagina Facebook) – oggi possibile candidato alla presidenza della Regione per i Radicali – o, tra gli altri, il giornalismo civico su ambiente, salute e legalità dei Cittadini Reattivi” della giornalista Rosy Battaglia, il lavoro di controinformazione di Re:Commonmalaffare e distruzione dei territori», come si legge sul sito) e Comune-Info.net (beni comuni). Da circa due anni, inoltre, il rapporto trasparenza-corruzione-grandi opere è alla base del progetto AppaltiLeaks.

Comunità che toccando spesso i rapporti tra imprenditoria, politica e criminalità – intesa nelle sue tante declinazioni, dalle consorterie mafiose al land grabbing di Stato – nell'epoca pre-internet avrebbero forse trovato spazio solo tramite lettere ai giornali o a livello dei soli territori coinvolti e che oggi possono essere, e spesso sono, vere e proprie “comunità-watchdog”, comunità che hanno fatto loro il senso pieno del diritto alla cittadinanza in una fase storica in cui l'opposizione istituzionale è assente, distratta quando non connivente.

Storia (giudiziaria) delle grandi opere italiane

Una connivenza che spesso arriva anche nelle aule di tribunale. «Se notate», scrive nel 2015 sul Fatto Quotidiano Fabio Balocco, avvocato e ambientalista

non esiste praticamente grande opera che non comporti indagini giudiziarie sulla corruttela che la accompagna

Se infatti il Tar del Lazio – che si occupa d'ufficio dei processi sulle infrastrutture strategiche italiane - si esprime dal 2004 giudicando le grandi opere «indiscutibili e non contestabili»[4], un'intera “storia delle infrastrutture strategiche italiane” potrebbe essere scritta semplicemente mettendo insieme le inchieste giudiziarie sulle grandi opere portate avanti negli anni dalle procure italiane.


Clicca sull'immagine per accedere alla mappa interattiva

Nel 2015 il Ros dei Carabinieri, su richiesta della Procura di Firenze, arresta quattro persone – tra cui Ettore Incalza, all'epoca capo della Struttura tecnica del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, in seguito prosciolto – e ne indaga altre 51, accusate di far parte di un «articolato sistema» cui vengono addebitati reati come corruzione, induzione indebita, turbata libertà degli incanti e contro la pubblica amministrazione. Al centro dell'interesse degli inquirenti il sistema di assegnazione di consulenze, progettazione e direzione dei lavori. Le indagini riguardano:

  • Alta velocità Genova-Milano (Terzo Valico di Giovi)
  • Alta velocità Milano-Verona (tratta Brescia-Verona)
  • Autostrada Civitavecchia-Orte-Mestre
  • Autostrada Reggiolo Rolo-Ferrara
  • Hub porto di Trieste
  • Metropolitana di Milano, linee M4 e M5
  • Metropolitana di Roma, linea C
  • Nodo Tav di Firenze (sottoattraversamento della città)
  • Nuovo terminal porto di Olbia
  • Palazzo Italia, Expo 2015
  • Tangenziale Esterna est di Milano
  • Tav Firenze-Bologna
  • Tratto autostrada A3 Salerno-Reggio Calabria
  • Autostrada Ras Ejdyer-Emssad (Libia)

Un “Sistema” di «opposizione-resistenza»

Oltre ai tribunali ordinari italiani, nel novembre 2015 anche il Tribunale Permanente dei Popoli (Tpp) si esprime sulle grandi opere italiane, nello specifico sulla Tav Torino-Lione, che ad oggi rimane l'unica sentenza che abbia interessato il nostro Paese. La sentenza, che arriva dopo quelle sul disastro di Bophal (avvenuto nel 1948, con sentenze nel 1992 e 1994) e Chernobyl (1996, a dieci anni dall'incidente), oltre che sull'attività delle multinazionali in Colombia (2001-2006) e sulle conseguenze dei trattati di libero commercio in Messico (2011-2014). Il lavoro dei giudici del Tpp vuole

approfondire e verificare l'interazione ed il rapporto gerarchico tra variabili e determinanti economico-finanziarie di una “grande opera” proposta come strategica a livello nazionale, e sostenuta a livello europeo, e gli obblighi relativi al rispetto dei diritti fondamentali degli individui e delle comunità nelle normative nazionali ed internazionali

Nello stesso procedimento sul Tav, il Tpp ha inserito anche altre grandi opere «rappresentanti di situazioni comparabili e/o complementari, per contenuti ed attività di opposizione-resistenza delle comunità interessate, del caso esemplare del Tav Torino-Lione» come il Mose di Venezia, il Muos di Niscemi o l'aeroporto di Notre Dame des Landes (Francia), bloccato nel gennaio 2018.

Se l'inchiesta Sistema ha subito una serie di assoluzioni e archiviazioni che ne hanno di fatto depotenziato la portata, il Tpp non è un tribunale giudicante: non può comminare pene o emanare condanne giuridicamente vincolanti. Insomma: nessuno verrà mai arrestato per le sentenze del Tpp, da non confondere, in tal senso, con il Tribunale Penale Internazionale de l'Aja (Tpi). Può, però, essere un autorevolissimo alleato per le comunità monitoranti e, di conseguenza, per la stampa libera.

Nazionalizzazione uguale meno corruzione?

Nazionalizzare l'intera rete autostradale italiana: è la soluzione – fino ad oggi solo annunciata, come molti altri provvedimenti – che il governo Conte ha individuato dopo il crollo del ponte Morandi a Genova, per il quale i documenti emersi nei giorni immediatamente successivi mostrano colpe tanto sul lato privato quanto del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti.

Senza voler entrare nel merito della questione, se non per chiedere dove verranno trovati i denari pubblici per un'operazione che si preannuncia tutt'altro che economica, la domanda da porre in questa sede è un'altra: come si comporterà quel “blocco politico-industriale-finanziario” che fino ad oggi ha dettato legge nelle grandi opere italiane di fronte a questo – per ora ipotetico – nuovo contesto?

La nazionalizzazione, evidenzia infatti Marco Damilano su l'Espresso (26 agosto 2018):

non risponde a una visione industriale e neppure a un'idea di unità nazionale, come era negli anni Cinquanta-Sessanta, ma all'esigenza di sostituire al vecchio establishment una nuova razza padrona. Un nuovo partito-Stato che non si identifica con una maggioranza di governo e con un governo pro tempore, ma pretende di rappresentare il tutto: tutta la società, tutti i cittadini, tutto il popolo. E chi resta fuori, o si oppone, finisce per diventare un nemico del popolo

Una situazione in cui, per dirla con Guido Viale, si sostituiscono «alle vecchie clientele nuovi imprenditori» che garantiranno «gli stessi vantaggi».

Con la nazionalizzazione delle autostrade – ma la domanda è valida per qualunque altro provvedimento preso sulle grandi opere pubbliche – verranno recuperati i 93,6 miliardi di euro di corruzione? Scomparirà la corruzione legata ad appalti, concessioni e lavori nelle grandi opere pubbliche italiane? I materiali usati per costruire, ripristinare o fare manutenzione di queste grandi e piccole infrastrutture saranno sempre della miglior qualità esistente in quel dato momento? Saranno disposte le grandi imprese del settore a perdere potere e profitti senza cercare un modo per rientrare anche nel nuovo business nazionalizzato? Insomma: con la (eventuale) nazionalizzazione – delle Autostrade o di qualsiasi grande opera – finirà il potere del “Partito del Cemento”? O quello delle grandi opere pubbliche nazionalizzate sarà solo un nuovo contesto in cui far girare i vecchi metodi della corruzione e delle tangenti?

Note:

  1. “Suolo minacciato, ancora cemento oltre la crisi” - Legambiente
  2. “Oltre la legge obiettivo?”, Anna Donati, in "Grandi opere contro democrazia" - Roberto Cuda (a cura di), Edizioni Ambiente, Milano, 2017, p.63;
  3. “L'unica grande opera utile”, Tomaso Montanari in Cuda, op.cit., p.103
  4. “La storia infinita del ponte sullo Stretto”, Stefano Lenzi in Cuda, op.cit., p.81
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