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Cina, la fabbrica degli squilibri

Le autorità cinesi ancora impegnate a reprimere movimenti di mercato che segnalano problemi fondamentali, come deflazione e limitate opportunità di investimento. Rompere il termometro non cura la febbre.

I regolatori del mercato finanziario cinese hanno un nuovo problema: dopo aver “messo in sicurezza” l’azionario, nel senso di aver chiuso i rubinetti che scaricavano titoli sul mercato, affossandone le quotazioni, ora il problema è diventato quello di non far scendere troppo i rendimenti delle obbligazioni. Motivo per cui si è messo in moto tutto l’apparato di quella singolare moral suasion che può arrivare a far passare brutti quarti d’ora agli intermediari indisciplinati. Una persuasione con eventuale tintinnio di manette, peraltro.

Ma perché siamo arrivati a questo punto, e perché le autorità vogliono evitare con ogni mezzo che i rendimenti obbligazionari scendano troppo? Dopo tutto, l’economia è debole in conseguenza dello scoppio della bolla immobiliare e i prezzi, sia al consumo che alla produzione, sono di recente entrati in territorio deflazionistico, anche se i primi sembrano esserne usciti.

Dopo gli immobili, i titoli di stato

Dopo quella immobiliare, le autorità temono una bolla obbligazionaria, il cui scoppio potrebbe causare nuovi problemi per la stabilità finanziaria. Sono soprattutto le banche a comprare titoli di stato a lunga scadenza, il che è un segno di assenza di opportunità di prestiti tradizionali. Ma anche i piccoli risparmiatori, scottati dai crolli di borsa e dai pesanti deprezzamenti degli immobili, cercano opportunità di guadagno.

Le autorità, da qualche mese, hanno avviato quindi un’azione “persuasiva” su banche e broker, che ha sin qui alzato di una decina di centesimi dai minimi il rendimento del titolo di stato decennale. La “persuasione” si accompagna anche a interventi di mercato piuttosto singolari. Ad esempio, la banca centrale ha comunicato (minacciato) che potrebbe prendere a prestito i titoli governativi presenti nel portafoglio delle banche pubbliche e venderli allo scoperto, per farne scendere il prezzo e aumentare il rendimento. Lo stesso tipo di operazione che sull’azionario è praticamente stata messa fuori legge.

Se questa resta sinora una minaccia, è invece realtà l’ordine dato ad alcune banche rurali di disconoscere i propri acquisti di titoli di stato, cioè di non regolare il dovuto. Come anche i non addetti ai lavori possono intuire, se le autorità finanziarie di un paese ordinano ad operatori di mercato di ostacolare il regolare funzionamento del medesimo, c’è un problema non lieve. Ma è inquietante anche la richiesta, rivolta alle maggiori banche pubbliche, di registrare i dettagli degli acquirenti privati dei titoli di stato.

A seguire, alcuni broker hanno sospeso l’operatività sui governativi, mentre i processi di autorizzazione al lancio di fondi obbligazionari sono stati fortemente rallentati e le grandi banche statali hanno iniziato a scaricare titoli.

Il risultato è un forte calo dei volumi contrattati. Ma i rendimenti obbligazionari sono qualcosa che viene determinato dalle forze di mercato, e intervenire in questo modo per sopprimere l’interazione di domanda e offerta rischia di avere conseguenze. Ad esempio, sugli investitori internazionali in titoli domestici cinesi. Ci troviamo già in un contesto in cui i non residenti stanno riducendo gli investimenti diretti esteri, cioè rimpatriando fondi, con un’unica, notevole eccezione: i costruttori automobilistici tedeschi.

Gli stranieri se ne vanno ma i tedeschi rilanciano

Nel secondo trimestre di quest’anno, i non residenti hanno effettuato disinvestimenti diretti netti per 15 miliardi di dollari, portando il saldo del primo semestre a meno 5 miliardi. Il motivo di tale dinamica può essere connesso alla debolezza congiunturale cinese, che riduce l’operatività, e alle tensioni geopolitiche. Alcuni costruttori automobilistici occidentali potrebbero aver deciso il ridimensionamento, vista la forte crescita di quote di mercato dei locali sull’elettrico, e la forte concorrenza sui prezzi.

Si diceva dei tedeschi: loro invece sembrano andare controcorrente, visto che il loro investimento diretto in Cina è cresciuto nel primo semestre di 7,3 miliardi di euro, contro i 6,5 miliardi dell’intero 2023. Qui pare che i costruttori tedeschi siano “condannati” a restare nel gioco, vista la feroce pressione al ridimensionamento delle loro quote di mercato per mano di produttori locali. Anche perché la Cina resta critica per l’approvvigionamento di materie prime fondamentali per le auto elettriche. Il timore degli osservatori tedeschi è che, alla fine, l’industria automobilistica nazionale sostituisca sempre di più le esportazioni con la produzione in Cina, nel tentativo forse illusorio di preservare la propria redditività, danneggiando il proprio mercato del lavoro.

Come che sia, la situazione pare la seguente: in Cina, la spinta alla manifattura “avanzata” porta a eccessi di produzione che alimentano deflazione. Non a caso, il deflatore del Pil cinese è da tempo negativo. Ciò mette pressione al ribasso ai rendimenti obbligazionari, producendo aumenti di prezzo che attirano investitori e risparmiatori locali, che hanno assai poche alternative interne. Le azioni delle autorità per contrastare questi movimenti si traducono in forzature dei fondamentali macroeconomici e scarsa affidabilità della piazza finanziaria cinese per gli investitori internazionali, anche prescindendo dalle tensioni geopolitiche.

La Cina ha un modello di sviluppo che è divenuto un incubatore di squilibri macro. Per sé, prima che per il resto del mondo.

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