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Chi è il cattivo nella vicenda Mirafiori?

Ora che siamo a ridosso del referendum di Mirafiori, è necessario fare uno sforzo per comprendere realmente cosa sta avvenendo. Il caos infatti la fa da padrone: il Presidente del Consiglio ha affermato che Marchionne farebbe bene a chiudere lo stabilimento, Marchionne dice di voler cambiare l’Italia, la Camusso li accusa invece di offese verso il nostro paese. Il quadro che si delinea agli occhi dello spettatore è più incomprensibile di un’opera astrattista del Novecento.

Le condizioni proposte, o meglio, imposte dal referendum del 13 e 14 gennaio sono indubbiamente lesive dei diritti dei lavoratori. Tuttavia non è da escludere la possibilità, peraltro molto ventilata, che vinca il fronte del sì. Il sindacato, data la delicatezza del tema, non ha fornito indicazioni sulla scelta da prendere, incentrando la polemica sulla natura ricattatoria, e quindi contraddittoria, del referendum. Perché, nel caso in cui l’accordo venisse rifiutato, lo stabilimento verrebbe chiuso. Come può la Fiom, l’ala più intransigente dei sindacati degli operai, consigliare i dipendenti di votare no, col rischio reale di perdere il posto di lavoro? Ma la messinscena di Mirafiori ha ben tre protagonisti, dove ognuno fa la sua parte: i sindacati, Marchionne, e il governo.

I primi sono diventati l’ombra di se stessi, dimenticando negli anni la loro stessa ragione di vita e assumendo lentamente la fisionomia di partito più che di associazioni sindacali. Risulta assolutamente inaccettabile che molti dei sindacati, che dovrebbero tutelare i diritti e gli interessi dei lavoratori, non abbiano condannato le modalità con cui si è voluto imporre il referendum agli operai di Mirafiori. Nell’Italia operaia, dove i dirigenti aziendali indossano il maglioncino e i segretari sindacali le giacche e le cravatte, solo la Fiom e, in seguito, la Cgil sono rimasti fedeli alla loro natura. Tuttavia, la parte del cattivo viene recitata da Marchionne, che con il suo “o ti mangi la minestra o ti butti dalla finestra” viene additato come il principale responsabile delle polemiche. È il caso tuttavia di spogliarsi del saio da monaci perbenisti che ci siamo abituati a indossare, indicando lui come il malfattore per il ruolo che ricopre. Marchionne, per quanto possa essere cattivo, è un imprenditore, non un benefattore. L’unico suo interesse è trarre guadagni dalla sua azienda, senza essere tenuto a coniugare politiche aziendali più attente ai bisogni dei lavoratori insieme alla necessità di aumentare l’entrate della Fiat. Non c’è da restare sorpresi: questo andazzo risale a parecchi anni fa, con la gestione dell’Avvocato Agnelli e anche prima. Finita l’era di Mamma Fiat, fu l’Avvocato a improntare la politica aziendale sul mero accatto, pronto a vendersi alla classe governativa di turno in uno scambio di favori e interessi che favorissero la classe dirigente politica e economica, e i cui mali sono stati pagati poi dal settore pubblico. Non è perciò necessario fingere di essersi svegliati oggi. La situazione è questa da molto tempo, basti vedere in quali condizioni di sfrenato affarismo clientelare è nato il progetto dell’Alfasud. I cattivi allora sono quei politici che hanno approfittato dell’imbarbarimento nella gestione della Fiat. Dare tutta la colpa a Marchionne significherebbe invece buttarla sulla mutanda. Il declino della Fiat e il declino dell’Italia viaggiano sullo stesso binario, e l’unica possibilità di risalita sta nel ristabilire gli equilibri tra classe politica e classe economia. Ovvero, che i segretari sindacali ritornino a indossare maglioni e i dirigenti i completi eleganti.

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