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Chávez: perché ne sentiremo la mancanza

 

La scomparsa di Hugo Chávez farà capire bene quanto ha pesato nell’intero continente la sua personalità complessa e generosa negli ultimi quindici anni. Una parte del suo programma è stato realizzato: i conflitti interni tra gli Stati si sono attenuati, in molti casi si è arrivati a un atteggiamento comune che ha ridotto fortemente la possibilità di intervento degli Stati Uniti. Il “socialismo del XXI secolo” tuttavia è rimasta solo un bel progetto, mentre le differenze sociali sono rimaste intatte, nonostante le misure assistenziali che hanno ridotto la povertà assoluta degli strati popolari, che per questo oggi piangono l’unico presidente che hanno sentito vicino a loro.

Naturalmente il progetto bolivariano è rimasto fragile. Rimane sempre per Washington la possibilità di intervenire eliminando qualche leader scomodo, anche se in questo caso mi permetto di dubitare che il cancro che ha colpito Chávez sia stato il frutto di un intervento mirato come quello che ha quasi sicuramente accelerato la fine di un Arafat sempre scomodo per Israele. Lo dico soprattutto perché se ci fosse non dico qualche prova, ma almeno un indizio consistente, i due diplomatici statunitensi (l’incaricato della forza aerea, David del Monaco, e Devlin Costal) dovevano essere non solo invitati a lasciare il paese ma denunciati ben più precisamente, richiedendo un giurì internazionale per accertare le loro responsabilità. In realtà nella motivazione della loro espulsione dal paese “per azioni contrarie alle loro responsabilità” si accenna solo a intercettazioni dei due funzionari che rivelano semplicemente tentativi di contattare ufficiali venezuelani (che sono poi i compiti abituali di ogni addetto militare…). Il significato di questa espulsione si capisce meglio leggendo il comunicato con cui il ministro degli Esteri Elias Jaua annuncia la misura: “il governo venezuelano non permetterà il più piccolo segno di ingerenza da parte di quelli che credono che la situazione creata dalla salute del presidente Hugo Chávez possa tradursi in dimostrazioni di debolezza”. Questo spiega la decisione di mobilitare l’esercito subito dopo la morte del presidente, e fa capire quali siano i timori di Nicolás Maduro. Probabilmente la notizia di un intenzionale attacco alla salute del presidente Chávez, apparsa come certa su tutti i mass media, è stata solo il frutto di un’interpretazione fantasiosa di dichiarazioni dettate da un comprensibile allarme di fronte all’aggravamento delle condizioni del presidente.

Non sarà facile governare senza Chávez, in effetti. Le difficoltà di trovare una nuova direzione forte e riconosciuta da tutti gli esponenti del PSUV e dell’esercito le avevo ricostruite pochi mesi fa, subito dopo il nuovo turno elettorale. È durato poco il sospiro di sollievo del Venezuela e di una parte importante dell’America Latina per il successo di Chávez in due elezioni vinte a distanza di pochi mesi, su cui quasi tutti i commentatori italiani questa notte pontificavano senza pudore ripetendo che il successo di Chávez si era ridotto a solo il 54% senza accorgersi di quanto fosse grottesco dirlo in un paese come il nostro senza maggioranza, e in cui il presidente Monti, presunto “salvatore della patria” ottiene un misero 10,56%...

Di questi problemi avevo parlato ampiamente sul sito in diversi articoli, tra cui Chávez vince da lontano, e soprattutto in quelli contenuti nel nutrito Dossier Venezuela. Già il peggioramento della salute del presidente a poca distanza dal giorno del giuramento aveva creato subito notevoli incertezze e tensioni. Avevo già accennato che i problemi potevano venire non tanto dall’esterno della coalizione chavista, quanto dalla rivalità tra i due principali candidati alla successione, il vicepresidente da poco designato, Nicolas Maduro, e il presidente del parlamento, Diosdado Cabello, l’uomo più odiato dalla base per l’ostentazione di una ricchezza accumulata con la corruzione, e vero leader della “boliburguesia”. Di tutta la cerchia dei collaboratori di Chávez, Cabello è probabilmente il più potente: è stato trombato dagli elettori più volte, ma è stato sempre recuperato dal presidente che gli ha assegnato cariche non elettive. Probabilmente, oltre a una vecchia amicizia, la protezione di Chávez si deve al fatto che Cabello è l’uomo più gradito ai militari, che in larga maggioranza sono tutt’altro che di sinistra, ed anzi sono quelli di sempre, con legami non troppo occulti con i colleghi colombiani e attraverso di loro con gli Stati Uniti. E che hanno un grande peso nell’amministrazione statale: sono ex militari la metà dei governatori…

Ora la scomparsa del comandante Chávez pone problemi delicati non solo nel Venezuela, ma in America Latina, dove egli svolgeva una funzione di grande tessitore di rapporti, che nessuno dei suoi successori venezuelani potrà esercitare con lo stesso prestigio, mentre sarà più difficile che ci riescano Evo Morales (alle prese con seri problemi interni) o Correa, anche per il minor peso dei loro paesi, mentre Cristina Kirchner per l’Argentina difficilmente potrebbe avere la volontà e la capacità di costruire la nuova America LatinaNuestra América, intorno al suo paese come aveva fatto generosamente Chávez. D’altra parte Lula o Dilma per il Brasile avrebbero difficoltà ad essere accettati, per il ruolo subimperialista del loro paese, che hanno spesso difeso a spada tratta anche da legittime rivendicazioni di governi progressisti. E Cuba, che è stata la principale beneficiaria del “Risveglio dell’America Latina”, a cui a sua volta ha contribuito generosamente offrendo i suoi giovani medici e atleti per riorganizzare le periferie abbandonate del Venezuela, è troppo avvinta nelle sue contraddizioni irrisolte per poter giocare un ruolo continentale come in passato.

Avevo già qualche mese fa tentato una riflessione sulle ragioni di tanta inquietudine per il futuro del processo “bolivariano”. La prima considerazione riguardava la collegialità del potere in Venezuela, che è solo apparente: il gruppo dirigente ristretto finora è rimasto sostanzialmente immutato, a parte qualche allontanamento o destituzione, che ha spostato questo o quel dirigente da un incarico all’altro, ma sempre sostanzialmente per designazione del líder máximo, senza nessun ruolo del corpo del PSUV, che serve solo a organizzare manifestazioni di piazza, e non ha un vero dibattito interno o una qualche forma di controllo sui dirigenti e sulla loro selezione. In certi casi non serve neppure a sondare gli umori della base, tanto è vero che a volte non riesce a contrastare il forte astensionismo, e raccoglie meno voti di quanti siano sulla carta i suoi iscritti. È evidente che il ruolo di arbitro di Hugo Chávez ha tenuto finora insieme tutti, ma senza che si siano delineate alla luce del sole le differenze politiche, che possono emergere invece bruscamente dopo la sua scomparsa definitiva. Lo stesso, in forma e misura diversa da paese e paese, si può dire almeno per Bolivia ed Ecuador. Altri paesi, come l’Uruguay, fanno parte dello schieramento progressista solo nella fantasia della provincialissima sinistra italiana (vedi Un mito progressista : l’Uruguay )

Sono gli inconvenienti di un potere fortemente centralizzato intorno a una persona sola, che se non era il “dittatore” demonizzato dalla stampa europea e statunitense (in Italia soprattutto da Repubblica, che delega la cosiddetta “informazione” a un fazioso Omero Ciai, ex comunista ultrapentito), non era certo nemmeno soltanto un primus inter paresNe avevo parlato più volte, accennando anche io stesso al pericolo che i nemici interni ed esterni di un leader potessero essere tentati di toglierlo di mezzo: con Fidel Castro nei primi anni i tentativi di omicidio sventati sono stati molti. Tra le misure prese per evitarne il successo, oltre alla grande efficacia dei servizi segreti cubani, e l’utilizzo di tecniche elaborate per coprire i movimenti di Fidel, c’era anche la decisione di ridurre al minimo le occasioni in cui il fratello Raúl, successore designato, si trovava nello stesso luogo del comandante in capo, per evitare che venissero eliminati insieme con un colpo solo.

Ma che non siano stati ben risolti i problemi della “istituzionalizzazione della rivoluzione” che preoccupavano già Guevara alla vigilia della sua partenza da Cuba, è confermato dalla immobilità di un gruppo dirigente fortemente invecchiato e da cui sono stati anzi periodicamente e bruscamente esclusi i quarantenni e cinquantenni che vi erano stati temporaneamente inseriti (ora ne è arrivato un altro, speriamo per lui e per tutti che riesca a portare avanti il rinnovamento del partito, e a creare una direzione davvero collegiale). È questo che ha impedito a Cuba di assumere un ruolo di protagonista.

In Venezuela inevitabilmente la morte di Chávez farà venire alla luce molti dei problemi della rivoluzione. Le divergenze che traspaiono spesso dagli atteggiamenti di singoli dirigenti, e che venivano occultate o mediate finora dall’intervento del presidente, possono esplodere alla luce del sole in forma lacerante, soprattutto perché i milioni di iscritti non sono mai stati chiamati ad esprimersi sulle diverse opzioni, e tanto meno mobilitati per spazzar via la boliburguesía parassitaria che si veste di rosso, ma aspira a diventare semplicemente la classe dominante del Venezuela, spezzando e fermando a metà strada la rivoluzione bolivariana.

Ma, come ha detto Almeyra, il chavismo andava al di là dell’uomo, era l’ondata che lo ha estratto dalla prigione dopo il golpe del 2002, e lo ha spinto a radicalizzarsi, erano gli operai che occupavano Sidor e ne chiedevano la nazionalizzazione a Chávez sfidando il ministro del lavoro, erano le masse decisamente antimperialiste che si organizzano negli organi del potere popolare. Il futuro del Venezuela dipenderà da loro, e da come sapranno vigilare rispetto ai tentativi di capovolgere il processo riducendo Chávez a un’icona su una maglietta rossa.

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