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Caso Zangrillo: perché le notizie positive non "tirano"?

Sembra che tutti coloro che diffondono messaggi positivi, malgrado si basino su riscontri scientifici, siano destinati alla gogna mediatica.

È successo al professor Giulio Tarro, al professor Alberto Zangrillo, alle equipe di Mantova e Pavia che hanno lavorato alla plasmaterapia. Ma anche al premio Nobel Luc Montagnier, qualche mese addietro.

Perché questo catastrofismo a tutti i costi?

Chi ci guadagna dal perdurare delle misure di contenimento e dal permanere della paura nei cittadini?

 

Nei giorni scorsi si è verificato un fenomeno singolare in seguito alla dichiarazionie del prof. Alberto Zangrillo, direttore dell’Unità Operativa di Terapia Intensiva e Rianimazione Generale presso l'Ospedale San Raffaele di Milano, il quale nel corso di una puntata della trasmissione Mezz’ora in più di Lucia Annunziata, in onda su Rai 3, ha affermato che che il coronavirus “dal punto di vista clinico non esiste più”.

La logica vorrebbe che una simile notizia, sostenuta da una persona competente che ha vissuto l'epidemia in prima linea, a diretto contatto con i malati ricoverati in terapia intensiva di un grande ospedale situato proprio nell'area di maggiore diffusione e letalità del coronavirus, dovrebbe seppur con le dovute cautele ingenerare un senso di sollievo nella popolazione.

Invece le sue parole sono state accolte da una ondata di indignazione e di rifiuto che ha invaso media e social network, con la diffusione di informazioni atte a screditare professionalmente il povero Zangrillo, sottoposto alla gogna per aver osato tentare di rassicurare i cittadini italiani.

Il motivo per cui alcuni giornali si sono attivati per confutare le parole di Zangrillo sono facilmente intuibili. L'epidemia da coronavirus ha rappresentato per molte testate una miniera d'oro insperata, con un incremento delle vendite che non si verificava più da anni. E' quindi abbastanza comprensibile che cerchino di cavalcare il più a lungo possibile l'onda favorevole e mantenere alta la tensione e la paura tra il pubblico. La percezione di una diminuzione del rischio porterebbe inevitabilmente le persone a disinteressarsi gradualmente del problema.

Cosìcché, alcuni giornalisti hanno presentato il professor Zangrillo come “il medico di Berlusconi” affermando, con ammiccamento da gossip, che questo rivelerebbe le sue simpatie politiche. Ora, il fatto che Berlusconi si sia rivolto a lui per curarsi dovrebbe in realtà avvalorare le capacità professionali del professore, visto che Berlusconi affida certamente la sua salute ai migliori specialisti. Ed è altrettanto ovvio che nessun medico si rifiuta di visitare un paziente, anche se ha diverse convinzioni politiche. D'altronde, lo prevede lo stesso giuramento di Ippocrate.

Ma un giornalista furbo sa bene che la maggior parte del pubblico non rifletterà, né si chiederà perché mai la dichiarazione di Zangrillo dovrebbe avvantaggiare Berlusconi che ha certamente più da guadagnare con le sue reti TV finché dura il panico da coronavirus. Il giornalista furbo sa bene che il pubblico reagisce sull'onda dell'emozione e che basta legare un nome a Berlusconi per far sì che diventi antipatico a tutti quelli che lo avversano.

Diffamare a mezzo stampa una persona per inficiare le sue idee e le sue parole, quella che in inglese è definita “character assassination”, è una tattica ormai consolidata nel giornalismo e in politica. Un tempo, infatti, i personaggi scomodi venivano eliminati fisicamente, ottenendo l'effetto opposto di renderli dei martiri. Oggigiorno, ai tempi della dittatura dei mass media, si è capito che è molto più efficace ed indolore farli fuori mediaticamente, insinuando dubbi sulla loro moralità o attendibilità.

«Zangrillo è soprattutto noto per essere da circa 30 anni il medico personale di Silvio Berlusconi, assistito in diverse occasioni per malattie e operazioni con ricoveri proprio al San Raffaele.» Si legge su Il Post, anche se poi precisa: «Nonostante la sua vicinanza all’ex presidente del Consiglio, Zangrillo non ha mai tentato o intrapreso la vita politica, dedicandosi esclusivamente alle attività cliniche e di ricerca.»

Ma tant'è, la gente ormai assocerà automaticamente il nome di Zangrillo a Berlusconi e trasferirà l'avversione per quest'ultimo sul medico – e qualunque altro professionista o collaboratore - da lui scelto.

Inoltre, si innescherà la solita battaglia tra simpatizzanti di fazioni politiche opposte, anche quella sapientemente guidata dai media per scatenare reazioni virali e ottenere maggiori vendite e condivisioni delle pagine online.

Come se non bastasse, il malcapitato professore è stato anche accusato di essere in cerca di visibilità. Sempre il post scrive: «Negli anni ha comunque dimostrato di gradire una certa attenzione da parte dei media, partecipando a numerosi programmi televisivi e dando innumerevoli interviste ai giornali.»

In pratica, la pletora di esperti, virologi, epidemiologi che negli ultimi mesi hanno affollato programmi televisivi e rilasciato proclami catastrofici lo facevano unicamente a scopo umanitario, chi tenta invece di riportare la situazione entro i livelli di un ragionevole ottimismo è in cattiva fede.

Non vale nemmeno la pena ribattere qui a quanti hanno tentato di sminuire il ruolo di Zangrillo ricordando che non è un epidemiologo. Né a chi ha tentato di ridurre il prestigio dell’IRCCS Ospedale San Raffaele, indiscusso centro di eccellenza italiano, riconosciuto a livello europeo, chiamandolo un “semplice ospedale privato”.

I media, riportando le parole del professor Zangrillo fuori contesto, hanno contribuito alla diffusione di fraintendimenti, come quelli sulla presunta mutazione del coronavirus. La frase pronunciata da Zangrillo “il coronavirus dal punto di vista clinico non esiste più” significa che nell’esperienza di chi si occupa dei pazienti affetti da COVID-19 la gravità dei sintomi sembra essere molto inferiore rispetto ad alcuni mesi fa. Quindi Zangrillo non ha detto né che il virus è scomparso, né che è mutato, ma che è meno rilevante per i sintomi che sviluppa e le reazioni che scatena nell'organismo delle persone infette.

Le sue affermazioni si basano su una ricerca condotta da Massimo Clementi, direttore del Laboratorio di microbiologia e virologia del San Raffaele, analizzando campioni di muco e saliva, prelevati con il tampone, per valutare la carica virale del virus, cioè la quantità di particelle virali presenti nell'organismo dei malati. In linea di massima, più risulta alta la carica virale, più è probabile che la persona infetta manifesti sintomi importanti, che si possono aggravare. I ricercatori hanno poi messo a confronto i risultati di queste analisi riferite a maggio con quelle effettuate a marzo, trovando una minore carica virale.

 

Zangrillo, quindi, non ha mai affermato che il coronavirus sia “scomparso” né che sia “mutato” ma segnala che è stata rilevata una minore “capacità replicativa” del coronavirus a maggio rispetto ai mesi precedenti. La ricerca indica che è cambiata la “manifestazione clinica”, cioè il modo in cui si presenta la COVID-19 negli infetti.

Il virologo Guido Silvestri, docente alla Emory University di Atlanta, che studia l'evoluzione dell’epidemia in Italia, chiamato in causa su quella che è stata definita “la bomba Zangrillo” ha ribadito: «Sull'aspetto specifico enunciato da Zangrillo, cioè l'osservazione che la carica virale nei tamponi naso-faringei positivi per Sars-CoV-2 è più bassa adesso che a inizio epidemia, si tratta di dati di laboratorio molto solidi e in corso di pubblicazione.»

«In quanto alla famosa proiezione dei modelli epidemiologici che prevedeva 150.000 ricoveri in terapia intensiva entro l'8 giugno, penso che sarebbe utile usare questa vicenda come un'opportunità per spiegare al pubblico, con onestà e umiltà, i limiti concettuali di tali modelli» ha commentato l'esperto. «Infine, sulle beghe politiche tipicamente italiane che influenzano le valutazioni degli aspetti medico-scientifici di Sars-CoV-2 e Covid-19, ripeto una volta per tutte che mi interessano poco. Io cerco solo di capire come stanno le cose usando il metodo e i dati della scienza» ha concluso Silvestri.

Sulla vicenda è intervenuto infine il viceministro alla Salute, Pierpaolo Sileri, lui stesso medico chirurgo, il quale durante la trasmissione Tagadà ha confermato che: «I malati non arrivano più nelle terapie intensive, consideriamo anche questo e diamo ottimismo. Il dottore Zangrillo ha ragione, voleva dire esattamente questo. Lavorando in terapia intensiva ha fatto quella osservazione che io trovo corretta. Il numero dei decessi è in calo, ho parlato con altri medici, dicono che non vedono casi gravi da molti giorni, le persone che purtroppo muoiono si trovano in terapia intensiva da diverso tempo. Una cosa è certa, gli ospedali sono meno pieni.»

Tutto risolto quindi? La gente ora si sente più tranquilla e ottimista? A giudicare dai post su Facebook e dai Tweet si direbbe proprio di no. Molti continuano a dare maggior credito a chi presagisce un aumento di virulenza del coronavirus e a chi diffonde previsioni di una prossima ondata di contagi e decessi più catastrofica della prima. Insomma, sembra proprio che la gente voglia continuare a vivere nella paura.

E questo solleva un'altra questione che i giornalisti conoscono bene: il pubblico, in genere, è maggiormente attratto dalle cattive notizie.

Gran parte delle informazioni, a cui giornalmente siamo esposti, riguardano violenza, criminalità, omicidi, problemi economici, incidenti, conflitti, catastrofi naturali. Raramente, infatti, capita di leggere titoli di notizie positive, o di ascoltare qualcosa che induca ottimismo.

Spesso, i giornalisti sono stati accusati di cinismo e di creare eccessivo allarmismo ma la verità è che sanno semplicemente che le notizie negative vendono di più. Si crea quindi un circolo vizioso in cui i media offrono al popolo ciò che “chiede” e il popolo “subisce” ciò che i media offrono.

Purtroppo, però, le informazioni negative convogliano uno specchio deformato della realtà.  Le notizie di violenze, guerre e cataclismi, che riempiono le pagine dei giornali e altri mezzi di informazione, con dovizia di particolari macabri ed efferati, portano alla convinzione che il mondo sia un luogo infido e pericoloso, causando nelle persone un aumento del pessimismo e della insicurezza. Anche i canali social sono luoghi in cui le cattive notizie proliferano, condivise di profilo in profilo, e contribuiscono a generare un clima di apprensione, paura e ansia.

Diversi studiosi hanno cercato di spiegare questo fenomeno. Uno studio condotto dell’università di McGill del 2016, ha rilevato che i soggetti esaminati erano effettivamente maggiormente attratti dalle notizie negative, ma allo stesso tempo, asserivano di voler leggere un numero maggiore di notizie positive. Un paradosso? I ricercatori affermano che non lo è. Secondo uno studio, pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences, la ragione va ricercata, a livello evoluzionistico, nel comportamento istintuale degli individui volto a preservare la propria vita e quella della propria specie. In sintesi, le notizie negative attirerebbero maggiormente l'attenzione perché contengono informazioni istintivamente considerate utili e fondamentali per la sopravvivenza. Spesso comunicate con toni accesi e urgenti, servono a fare scattare nel cervello di chi ascolta un allarme e a scatenare una risposta emotiva di paura che serve a predisporre alla lotta o alla fuga. Paura che tende a perdurare anche una volta passato il pericolo, per timore che la minaccia possa ripresentarsi.

Un altra teoria per spiegare la dipendenza di massa dalle cattive notizie attribuisce alla sovrabbondanza di negatività cui veniamo esposti senza scelta fin da piccoli, che porterebbe ad una sorta di assuefazione, per cui tendiamo a ricercare ciò a cui siamo abituati. Secondo Micheal Shermer, editorialista di Scientific American e autore di saggi, come “The Believing Brain”, che aiutano a comprendere i meccanismi mentali che ingannano il nostro cervello, questo comportamento deriva dall’avversione alla perdita che rafforza la resistenza ad affrontare un mutamento, scegliendo qualunque cosa appaia “familiare”. Questo può portare alcune persone a reagire persino con rabbia al tentativo di convincerle a cambiare la visione del mondo che hanno sempre percepito come “realtà”. Chi è convinto, ad esempio, che la criminalità imperversi in Italia, a causa delle notizie di omicidi riportate quotidianamente dai media, reagirà con ostilità e incredulità a chi cerca di dimostrare, anche con dati inconfutabili, che è drasticamente diminuita negli ultimi anni e che il nostro Paese è uno dei più sicuri al mondo.

 

Un ulteriore corto circuito si crea quando le persone tendono a ricercare ed interagire solo con chi condivide la loro visione, evitando il confronto con opinioni diverse. In psicologia, questa reazione è attribuita al concetto di dissonanza cognitiva. Quando una emozione, come la paura, ha condizionato per lungo tempo i comportamenti di un individuo, tenderà a rifiutare di considerare obiettivamente un cambiamento della situazione e continuerà a sostenere le stesse convinzioni cercando di ignorare informazioni che potrebbero metterle in dubbio.

 

Viviamo nell'era della post-verità. Molti siti di informazione online, anche autorevoli, consci che il 60% degli utenti dei social media legge e commenta solo i titoli senza leggere l'articolo, fanno largo uso di temi e tecniche comunicative che colpiscono le emozioni degli interlocutori, innanzitutto paura, rabbia e odio, evocando scenari cupi, minacciosi e senza speranza. L'intento è quello di attivare il fenomeno del clickbaiting, ovvero catturare il click del lettore con titoli strillati e inventati, per guadagnare in introiti pubblicitari.

Oltre a denunciare i pericoli della rete e dei social network, responsabili di diffondere fake news, occorre prendere in considerazione anche la crisi della stampa ufficiale, spesso colpevole di una narrazione distorta dei fatti.
 

Giacomo Russo Spena in un articolo uscito su Repubblica sottolinea che «è doveroso rilevare come il giornalismo spesso, purtroppo, partorisca più fake news della Rete; come i governi dicano più falsità del web. Pensiamo alle menzogne, poi confessate anni dopo da Toni Blair, per giusticare la guerra in Iraq contro Saddam Hussein. Il giornalismo mainstream è, infatti, sempre più distante dall'essere il cane da guardia del potere ed è appiattito sul pensiero unico dominante. I media ufficiali sono diventati parte integrante dell'establishment, perdendo il sentore del Paese reale.»

 

Affidarsi alle fonti istituzionali, definite autorevoli, e ai media mainstream senza porsi dubbi o domande è certamente la scelta più facile ma non è detto che sia la più salutare per la propria psiche che registra a livello inconscio incongruenze e contraddizioni, generando conflitto interno e senso di malessere.

 

Il primo passo per recuperare una propria autonomia di pensiero è prendere coscienza che la percezione del mondo che ci viene trasmessa attraverso i media è parziale e spesso pregiudizievole (biased), perché basata su notizie che giornali e programmi televisivi scelgono, interpretano, confezionano e diffondono, prima di tutto per vendere, perché quello è il loro mestiere, ma anche per condizionare scelte e opinioni.

 

Occorre leggere le notizie senza fidarsi ciecamente di quelle definite “ufficiali” ma confrontando diverse informazioni e opinioni, consultando fonti differenti, verificandone anche l’affidabilità e l’autorevolezza e cercando di non farsi intrappolare dai pregiudizi e dalla faziosità.

  

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