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Caso Lodi: quando la forzatura delle norme produce discriminazione

Si osserva sempre più spesso che i politici compiacciono “la pancia” dell’elettorato, che “la pancia” guida le scelte della gente, che le decisioni di chi detiene pro tempore il potere determinano reazioni “di pancia” da parte dell’opinione pubblica. A fronte di questa tendenza, serve usare la testa, per compensare quella razionalità di cui sovente si avverte la mancanza; e serve altresì ricorrere al diritto, che è una solida àncora quando l’emotività sembra prendere il sopravvento.

di Vitalba Azzollini

Stavolta il riferimento è alla vicenda dei bambini stranieri che a Lodi sono stati esclusi dalla fruizione della mensa scolastica e di altri servizi a tariffe agevolate. Dalle famiglie straniere si è pretesa, infatti, l’esibizione di certificati sul possesso di immobili o redditi rilasciati dai Paesi di origine, mentre per quelle italiane basta una autocertificazione. E nei casi in cui la produzione di certificati originali è stata impossibile, o i certificati sono stati ritenuti non adeguati, si è richiesto alle famiglie il pagamento della tariffa massima prevista per ottenere certe prestazioni: tariffa che esse non hanno potuto permettersi.

Ne è conseguito un trattamento differenziato, anzi, in termini più chiari, una discriminazione a danno degli scolari stranieri.

La partecipazione empatica alla vicenda è stata molto forte e in pochi giorni, a seguito di un’iniziativa pubblica, si sono raccolti i fondi necessari per consentire a tutti i bambini di pranzare insieme. Al di là delle reazioni “di pancia”, sul piano del diritto come può valutarsi la questione?

Il punto di partenza è il regolamento per prestazioni sociali agevolate, con cui il comune di Lodi ha sancito quanto sopra sintetizzato, e cioè che, per poter usufruire di tali prestazioni, i cittadini extracomunitari devono produrre, in aggiunta alla propria dichiarazione ISEE (indicatore della situazione economica equivalente), una “certificazione rilasciata dalla competente autorità dello Stato estero, corredata di traduzione in lingua italiana e legalizzata dall’Autorità Consolare”, che ne attesti la situazione reddituale e patrimoniale. La sindaca di Lodi ha spiegato che il comune non avrebbe altrimenti modo di conoscere quali redditi e beni i cittadini stranieri possiedano all’estero e che il regolamento comunale è conforme alla normativa nazionale e alle direttive regionali.

È proprio così? Lo è. Infatti, il D.P.C.M. n. 159/2013, in tema di ISEE, prevede che il richiedente possa presentare una dichiarazione sostitutiva unica (DSU), “concernente le informazioni necessarie per la determinazione dell’ISEE”, resa ai sensi del D.P.R. n. 445/2000 (e a quest’ultimo decreto fanno anche riferimento le linee guida in materia di ISEE della giunta regionale lombarda: D.G.R n. X/6972 del 31/07/2017). Ma lo stesso D.P.R. n. 445/2000 dispone che “i cittadini di Stati non appartenenti all’Unione regolarmente soggiornanti in Italia, possono utilizzare le dichiarazioni sostitutive (…) limitatamente agli stati, alle qualità personali e ai fatti certificabili o attestabili da parte di soggetti pubblici italiani”. Invece, per atti formati all’estero e non registrati in Italia serve acquisire la certificazione del Paese straniero, legalizzata e tradotta all’estero nei termini di legge. Ciò è confermato anche nella Circolare n. 3/12 del Ministero per la Pubblica Amministrazione.

Quindi, la sindaca di Lodi ha ragione? Non esattamente, e per più di un motivo. Innanzitutto, all’epoca dell’emanazione delle regole sulle prestazioni agevolate, ottobre del 2017, forse il comune si era reso conto che le procedure di acquisizione di certificazioni presso certi Paesi avrebbero potuto essere oltremodo difficili o addirittura impossibili: tant’è che in dette regole viene precisato che l’obbligo di certificazione prodotta dal Paese di origine non trova applicazione, tra l’altro, nei confronti di cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea ove è “oggettivamente impossibile” acquisire la documentazione necessaria per la compilazione della DSU ai fini ISEE.

A tal fine, nello stesso regolamento era stato previsto che entro il 31/12/2017 il comune avrebbe predisposto l’elenco di tali Stati: non risulta che lo abbia fatto, e anche da questa omissione deriva il problema in discorso. Infatti, se quell’elenco fosse stato redatto, il comune da un lato avrebbe evitato di esigere dalle famiglie provenienti dagli Stati ivi inclusi il rispetto di un obbligo che era impossibile assolvere; dall’altro, non avrebbe sospeso i servizi a tariffe agevolate per la verifica dei singoli casi, dando così luogo alla discriminazione di cui si è detto.

Ma il comune di Lodi – come altri comuni che adottano comportamenti similari – non è l’unico soggetto a rendere difficile la vita agli immigrati: pure lo Stato fa la propria parte, e non solo per i provvedimenti più eclatanti. Ad esempio, sempre in tema di autocertificazione, esiste una norma che avrebbe dovuto abrogare dal 31.12.2012 il divieto di dichiarazioni sostitutive riguardanti le procedure relative alla “disciplina dell’immigrazione e la condizione dello straniero”.

Ma l’efficacia della norma viene rinviata di anno in anno, e da ultimo lo è stata con la legge di bilancio 2017. Per non parlare del fatto che la regola in base alla quale solo agli stranieri va richiesta la certificazione di non avere redditi e patrimoni all’estero – e non agli italiani, che pure potrebbero averne – appare in contrasto con il principio di parità di trattamentosancito dal Testo Unico sull’immigrazione.

Sul tema servirebbe ispirarsi a quanto previsto in una diversa materia: il gratuito patrocinio. Al riguardo, come la Cassazione ha ribadito di recente, in applicazione del Testo Unico in tema di spese di giustizia, “l’impossibilità di produrre l’attestazione relativa ai redditi prodotti all’estero può essere sopperita con la produzione dell’autocertificazione“, e a quest’ultima può ricorrersi non solo in ipotesi di “impossibilità” assoluta, ma anche in casi di ritardo e inadempienza dello Stato estero: diversamente, non verrebbe garantito un diritto previsto costituzionalmente, quello alla difesa.

Anche nella vicenda di Lodi possono essere richiamati diritti oggetto di riconoscimento costituzionale, e si tratta di diritti cui fa cenno lo statuto del comune. Ivi si afferma che sono finalità preminenti del comune stesso “lo sviluppo economico e sociale, l’affermazione dei valori umani, il soddisfacimento dei bisogni collettivi, la promozione delle condizioni per rendere effettivi i diritti di tutti i cittadini perseguendo, in particolare, il principio delle pari opportunità e la solidarietà con i più deboli e gli svantaggiati”: finalità per il cui perseguimento il comune non si è forse adoperato a sufficienza, come visto.

A quanto fin qui esposto è da aggiungere una novità dell’ultim’ora. Ieri sera è stata trovata una soluzione: il regolamento contenente il regime diversificato tra italiani e stranieri viene integrato da linee guida, che rendono valida l’autocertificazione se accompagnata da un’apposita dichiarazione resa dalla rappresentanza diplomatica del Paese straniero. Tutto bene quel che finisce bene, dunque? Per i bambini di Lodi il rimedio è stato trovato, per le altre situazioni similari il problema resta immutato.

Direi che è tutto. Anzi, un’ultima notazione. Attenzione a reputare che quando il titolare di una carica pubblica vanta la ferrea applicazione di una certa norma ciò significhi che sia tutto a posto, cioè che non abbia omesso di fare quanto necessario o abbia fatto tutto quanto in suo potere.

Chi è dotato di senso critico e competenze si premuri di studiare e verificare. Anche questa è opposizione: peccato che in questi tempi di “caciara” non faccia clamore.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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