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Caso Huawei tra guerra commerciale, tecnologica, geopolitica ed intelligence

Nel caso Huawei confluiscono aspetti di diverso ordine che si incastrano fra loro: commerciale, tecnologico, geopolitico e di intelligence. In primo luogo c’è la guerra commerciale fra Usa e Cina per la conquista di quote di mercato. Come si sa Trump ha dato il via alla guerra commerciale con la Cina (e con l’Europa) per sostenere l’industria automobilistica americana e mantenere le promesse elettorali agli stati del rust belt che gli avevano consegnato la vittoria nel 2016.

Poi nel summit di Buenos Aires, era venuta fuori una tregua dei 90 giorni nell’applicazione dei dazi doganali, ma in quella stessa serata, era partito il mandato d’arresto per Meng Wanzhou, direttrice finanziaria del gruppo, prontamente eseguito dallo zelante suddito canadese cui era immediatamente rivolta la domanda di estradizione. Come dire che l’accordo era momentaneo e limitato, solo una momentanea tregua su un singolo tratto del fronte, mentre la guerra proseguiva (e con rinnovato slancio) in altra parte di esso.

Gli Usa non accettano l’idea di essere scalzati dalla Cina in settori decisivi sia sul piano commerciale che strategico e sono pronti ad una guerra senza limiti per impedire che ciò accada.

In secondo luogo c’è la delicatissima partita per il dominio tecnologico. In questi trenta anni, la Cina è enormemente cresciuta grazie ad esasperate pratiche di reverse engeneering ma anche grazie ad accordi commerciali con le aziende occidentali che decidevano di delocalizzare nel loro paese e che prevedevano l’obbligo cella condivisione dei segreti tecnologici.

Oggi la Cina non è più la grande fabbrica per prodotti low cost del mondo: non più jeans, giocattoli e mattoni a buon mercato, ma anche prodotto high tech ed a livelli decisamente buoni. E la Huawei è un fiore all’occhiello: nel mercato dei cellulari i suoi prodotti sono al secondo posto mondiale, immediatamente dietro la sud coreana Samsung e precede la Apple. In questo c’è tanto l’effetto dello spionaggio industriale quanto lo sviluppo della ricerca locale, senza dimenticare l’accesso privilegiato alle terre rare, indispensabili per questi prodotti e delle quali la Cina detiene circa il 90% dei giacimenti attualmente attivi.

In terzo luogo c’è l’aspetto geopolitico che non si limita allo scontro con l’Iran al quale Trump ha voluto rinnovare le sanzioni, ribaltando le decisioni del suo predecessore.

Dentro c’è una questione particolare di grande importanza: gli Usa pretendono che le loro leggi abbiano una efficacia extraterritoriale, e, per esempio, ritengono che anche soggetti di altri paesi siano tenuti ad applicare le norme di embargo decise unilateralmente.

Il presupposto è che, siccome le transazioni internazionali sono eseguite in dollari ed il dollaro è moneta Usa, questo implica che ogni soggetto debba accettare le sanzioni Usa per poter usare i dollari necessari alla transazione e poter accedere alla clearing house dove registrare l’accordo.

Nel caso specifico, sembrerebbe che la Huawei abbia fornito all’Iran, attraverso una società di comodo, materiale coperto da sanzioni della comunità internazionale. Può anche darsi, come può darsi che i prodotti contenessero elementi di tecnologia americana, ma, anche in questo caso, in base a quale principio giuridico il mandato d’arresto per Meng Wanzhou è stato emesso da una Procura americana? E tanto più, in base a quale norma debba essere un tribunale americano a giudicarla? Quale altro paese potrebbe fare la stessa cosa?

Da questo punto di vista, la mossa americana non è rivolta solo contro una importante manager cinese (ed, attraverso essa, contro la Cina), ma ha un contenuto di “avvertimento” all’Europa ed al Giappone. Sin qui c’erano stati casi simili (prevalentemente sanzioni economiche contro banche europee che avevano concesso crediti al’Iran in violazione alle norme sull’embargo), ma non erano stati toccati soggetti delle altre due grandi potenze mondiali, Cina e Russia.

Ora, con questa mossa, gli Usa esigono il tacito riconoscimento di super potenza mondiale anche dalla Cina. La cosa acquista particolare peso e significato ove si tenga presente che nelle prossime settimane l’Europa dovrà decidere se rinnovare le sanzioni alla Russia per la questione ucraina e, a questo proposito, la crisi del mar d’Azov è giunta come il cacio sui maccheroni, con i russi che sono cascati pienamente nella provocazione tesagli.

Il messaggio del caso Huawei serve anche nei confronti dei governi italiano e tedesco, semmai volessero farsi promotori della fine o anche solo di una attenuazione delle sanzioni. E questo conferma che gli Usa hanno nel Dipartimento della Giustizia il loro braccio operativo nella guerra economica, strumento attraverso il quale gli Usa esercitano un dominio anche politico.

Infine, l’aspetto dell’intelligence. La Huawei si muove su un terreno di diretto interesse politico e militare, avendo accesso ai nodi delle comunicazioni attraverso la fornitura di parti della componentistica (per l’Italia la questione riguarda la rete Sparkle che serve la Telekom) il che ovviamente significa la possibilità di tenere sotto controllo le comunicazioni sia istituzionali che private di ben più di mezzo mondo.

E, infatti, la Huawei lavora a stretto contatto sia con l’Armata Popolare di Liberazione cinese sia con i vari organismi di intelligence del paese e, proprio per questo, ha ripetutamente goduto di quei sostanziosi aiuti bancari, incoraggiati dal governo, che ne hanno consentito la rapida ascesa.

Dunque, non stupisce che essa fosse nel mirino dei servizi americani ben prima del caso di questi giorni ed è del tutto intuitivo che, attraverso la Huawei, la Cina eserciti una massiccia opera di spionaggio a livello mondiale. Sin qui gli americani non hanno torto nell’avvertire il pericolo, se non fosse che loro non sono affatto da meno sullo stesso piano: ci siamo dimenticati della faccenda di Echelon? O di quando venne fuori che la Cia spiava i cellulari di tutti i capi di governo europei, compresa la Merkel? O i cento altri casi di spionaggio di massa dei servizi Usa?

Il fatto è che agli americani non dà per nulla fastidio lo spionaggio, quello che non gli sta bene è che a farlo siano altri.

Tutto questo premesso, si capisce bene quale sia la portata dell’episodio che non va disgiunto dalla questione dei dazi o da altri aspetti della guerra economica.

Qui, però, si pongono altre domande: chi ha deciso l’azione contro Huawei, perché e perché proprio quel giorno.

Ci sono tre ipotesi:

a. il Presidente d’accordo con i suoi apparati di intelligence (ed il Dipartimento della giustizia è uno dei più importanti apparati di intelligence degli Usa) allo scopo di alzare la posta nella guerra commerciale subito dopo l’apparente e momentanea tregua di Buenos Aires

b. il dipartimento della giustizia (verosimilmente di intesa con Fbi e forse Cia) a prescindere dal Presidente per inserirsi nella trattativa con la Cina da non ridurre alla partita commerciale, ma da portare sul piano strategico e la data è stata scelta proprio per sottolineare che la partita commerciale non è il tutto, ma solo una parte. Quindi una intelligence che non si contrappone al Presidente ma che lo affianca giocando, però, una partita in proprio

c. dipartimento della giustizia e servizi contro il Presidente per indebolirlo sul piano internazionale ed imporre una linea di scontro con la Cina che non ammette accordi parziali ed anche qui la data è significativa.

Dunque una comunità dell’intelligence che si contrappone al Presidente con un proprio indirizzo politico.

La prima ipotesi è stata rapidamente indebolita da Trump che si è offerto di fare da mediatore fra la Cina e la Procura Usa, per ottenere il rilascio condizionato della signora: sul piano costituzionale è un orrore senza precedenti (che fine fa la separazione dei poteri?), ma suona come una presa di distanza del Presidente dall’operato del suo dipartimento della Giustizia. E’ solo un gioco delle parti? Sarebbe una sceneggiata napoletana: non è credibile neppure per uno scombinato come Trump. Restano le altre due ipotesi, ma capiremo meglio in seguito.

Quanto alla Cina, per ora la reazione si è limitata all’arresto di un paio di diplomatici canadesi, come dire che se la sono presa con la servitù per far capire al padrone che sono irritati. Probabilmente attendono che il tribunale canadese decida di respingere la domanda di estradizione per poi ottenere la libertà della signora. Vedremo.

Aldo Giannuli

Questo articolo è stato pubblicato qui

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