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Carcere: la dignità degli ultimi

Altri suicidi in carcere, si continuerà così perché è una crisi che non interessa a nessuno.

Nel 1978 la Rai commissionò al cineasta Alberto Grifi un documentario sulla condizione carceraria in Italia. Il prodotto fu un piccolo film di soli 23 minuti, intitolato “Michele alla ricerca della felicità”, ed è un racconto di terrificante crudezza. Un pugno nello stomaco che narra della condizione carceraria in Italia, che la Rai provvide presto a censurare, e che andò in onda solo molti anni dopo, a notte fonda, nello spazio curato da Enrico Ghezzi, ed è oggi disponibile in rete cliccando su Youtube. Ben pochi comunque hanno visto quel film, così come ben pochi hanno coscienza della situazione delle carceri in Italia, anno 2010. Non ne parlano i giornali, non ne parla Bruno Vespa, e neppure Santoro, ma ogni anno in Italia avviene nel silenzio e nell’indifferenza generale una piccola pulizia etnica.

Dal 1 gennaio di quest’anno, i detenuti suicidi nelle carceri italiane sono 57. Cinquantasette. Suicidi. Di questi 47 si sono impiccati, 6 sono morti per asfissia con il gas delle bombolette da cucina, 3 per avvelenamento di farmaci e 1 dissanguato per essersi tagliato la gola. Tossicodipendenti, immigrati, disoccupati, analfabeti e altri emarginati le vittime di questa ecatombe.

Reietti, rifiuti della società, gente di cui nessuno si interessa, e la cui morte non richiama l’attenzione dell’opinione pubblica. Eppure l’Italia è lo stesso paese che reclama pene certe, e nel quale la gente si lamenta perché “nessuno va in galera”.

In realtà la galera la evita chi ha i soldi, tutti gli altri la fanno, e devono fare i conti con una situazione indegna per un paese europeo avanzato quale ci fregiamo di essere. Il sovraffollamento ha raggiunto livelli intollerabili, il lavoro è un privilegio riservato a una estrema minoranza, l'assistenza sanitaria non garantisce neppure lontanamente il diritto alla salute, per la cronica carenza di farmaci (anche salvavita), per le visite specialistiche fissate dopo mesi, per le cartelle cliniche mai consegnate. A poco è servita la condanna all’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo nel luglio 2009 per violazione dell’articolo 3 ovvero per “trattamenti inumani e degradanti” nei confronti di un detenuto nel carcere di Rebibbia che, costretto a condividere una cella di 16,20 metri quadrati con altre cinque persone, disponeva di una superficie di 2,7 metri quadrati nella quale trascorreva oltre 18 ore al giorno. Decisamente inferiore agli standard del Comitato per la prevenzione della tortura che prevede in 7 metri quadrati a persona lo spazio minimo sostenibile per una cella, la Corte di Strasburgo ha stabilito una soglia minima di 3 mq per detenuto.

Se il grado di civiltà di un Paese si misura dalle condizioni delle sue carceri, il nostro sistema penitenziario è l’ideale cartina al tornasole dell’Italia. Il paese che solo tre anni fa celebrava come una grande vittoria diplomatica in difesa dei diritti umani l’aver fatto approvare la moratoria sulla pena di morte dalle Nazioni Unite, vede ogni settimana almeno una esecuzione capitale, se pur spontanea, all’interno dei propri istituti penitenziari.

Un piccolo risparmio per la collettività, un macigno sulla coscienza della Stato.

Michele alla ricerca della felicità (Alberto Grifi)

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