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Bolaño e quell’ultima intervista di cuore e testa

No, non è nel pantheon degli uomini illustri, lì dove diceva volesse essere sepolto Carlos Fuentes una volta morto e lì dove qualunque scrittore, diceva Roberto Bolaño, avrebbe voluto assicurarsi la vita eterna. Essere il più grande scrittore del proprio paese per non cedere all'oblio, quell'oblio inteso borgesianamente “nel senso più ampio del termine, vale a dire: la Terra finirà, il Sole finirà, tutto finirà...” come lo scrittore cileno dice in un'intervista a Raul Schenardi inclusa ne “L'ultima conversazione” (124 pp, Edizioni Sur, traduzione di Ilide Carmignani), un libro che raccoglie cinque interviste fatte a Bolaño negli ultimi cinque anni della sua vita, compresa quella nota per essere l'ultima ma che è difficilmente catalogabile, essendo stata scritta nel corso di diversi anni: “Questa intervista, in realtà, è il frutto di un intercambio che si sviluppa per due anni, tra il 2002 e il 2003 e culmina nella intervista” come dice l'autrice presentandola.

Come dice nell'introduzione alla raccolta Marcela Valdas “tutti i romanzi maturi di Bolano indagano le reazioni degli scrittori a regimi oppressivi” e il tema del potere è uno di quelli attorno a cui girano le interviste dello scrittore cileno. Il potere che mina la purezza, come quella di Garcia Marquez e Mauro Vargas Llosa, ovvero coloro che fanno della letteratura grandissima ma che hanno il problema di essere diventati personaggi pubblici. La politica che pervade tutta la letteratura dato che tutta “in un certo senso, è politica. Voglio dire che è innanzitutto una riflessione sulla politica”, e l'idea di una letteratura che è prima di tutto attività: “Per me scrivere è l'esatto opposto di aspettare”. Insomma tutta la vita di Bolaño è letterariamente politica, passando dal trotzkismo all'anarchia quando si rese conto che i trotzkisti cominciavano a essere troppi: “Ero l'unico anarchico che conoscevo, grazie a Dio, perché in caso contrario avrei smesso di essere anarchico. L'unanimità mi fa incazzare”. Ma soprattutto il problema fondamentale che spiega nella famosa ultima intervista è che “quelli che hanno il potere (anche se per poco tempo) non sanno niente di letteratura, solo gli interessa il potere. E io posso essere il pagliaccio dei miei lettori, se mi viene voglia, ma mai dei potenti. Suona un po' melodrammatico. Suona come la dichiarazione di una puttana onorata. Ma comunque è così”.
 
Insomma il potere nelle sue sfaccettature spiegato in prima persona e tramite i suoi personaggi. Ma questa raccolta di interviste è un percorso attraverso tutta la poetica di Bolaño, e se proprio volessimo trovare un difetto è il rischio di alimentare il culto dello scrittore cileno, se difetto vogliamo chiamarlo.
 
Che Roberto Bolaño sia uno degli ultimi autori la cui personalizzazione del culto fatto da chi gli è sopravvissuto è sempre più accesa non è un segreto. Quando sei un ottimo scrittore che in vita ha avuto un buon successo e vinto premi importanti ma non ancora nel pantheon ecco che serve la morte e i libri postumi a darti quell'aurea di scrittore immancabile. Lo abbiamo visto ultimamente con David Foster Wallace, considerato da alcuni un genio già in vita ma che la morte ha contribuito a rendere mito e da qualche anno lo stiamo vedendo con l'autore cileno. A leggere le sue interviste, da una parte si percepisce il perché lo scrittore ma anche l'uomo Bolaño piaccia e intrighi, con la sua visione pura della letteratura, le sue frecciate per nulla indirette ad alcuni colleghi e dall'altra ne si capisce al meglio l'opera, la genesi e le idee che lo spingevano di volta a volta a scrivere una cosa o l'altra. Insomma questo libro è importante sia per chi si vuole nutrire del culto di un autore stimato e odiato allo stesso tempo, sia per chi vuole approcciarsi all'opera di uno dei grandi maestri contemporanei.
 
La raccolta, come detto, prende il nome dall'ultima intervista di Bolaño, ovvero quella data per Playboy a Monica Maristain ed è appunto una di quelle che pur non conoscendo l'opera di un autore non avresti difficoltà a leggere più volte. Un'intervista in cui Bolaño ripete alcune delle sue idee note, puntellandole, rendendole definitive, di un eterno al quale probabilmente neanche lui avrebbe mai pensato, né negli ultimi giorni della sua vita né, tantomeno, quando era un poeta che faceva i salti mortali per vivere. Un'intervista in cui si va dal gossip all'idea di letteratura e di vita di un poeta che non si definiva di nessun luogo se non latinoamericano, abbattendo le barriere che denunciava nella frase succitata. C'è l'idea di critica, l'amore per Nicanor Parra, Borges e Julio Cortazar tra gli altri, c'è l'amore verso il Messico e si ha sempre la sensazione di aver perso ma soprattutto c'è l'amore per la letteratura occidentale che crede “di conoscerla un po' tutta”.
 
Alle interviste dello scrittore cileno si aggiungono una introduzione di Marcela Valdes incentrata soprattutto sul postumo "2666" e sulla sua genesi e di un'interessante saggio in appendice di Nicola Lagioia in cui, tra le altre cose, lo scrittore parla dell'importanza di Bolaño non solo per la letteratura latinoamericana ma per la letteratura tout court: "Mi trovo d'accordo sul fatto che Bolaño sia un riapritore di giochi che rappresenti, cioè, malgradi vi abbia sostato per soli tre anni, il primo vero grande scrittore del ventunesimo secolo".
 
“Il silenzio della morte è il peggiore di tutti i silenzi, perché il silenzio di Rulfo è un silenzio accettato e quello di Rimbaud è un silenzio cercato, ma il silenzio della morte tronca di netto ciò che avrebbe potuto essere e non sarà mai, ciò che non sapremo mai” (Roberto Bolaño 1953-2003)

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