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Berlusconi, il leghista Cavalletto e una politica indegna di noi

Solo restano i miti della fedeltà al capo e della difesa della razza.

Avrebbe potuto iniziare così il proprio intervento qualcuno che scrivesse a commento di quanto trasmetteva la radio nazista, dalle rovine di Berlino, con l’Armata Rossa alle porte, nell’aprile del 1945.

E’ quel che possiamo scrivere oggi, commentando le voci che giungono da dentro la maggioranza; due dichiarazioni diverse, dal centro e dalla periferia del regime berlusconiano-leghista, che danno entrambe testimonianza della barbarie in cui è precipitata la nostra politica nell’ultimo ventennio.

Dopo aver negato d’aver intenzione di dimettersi, comunicando di voler porre la fiducia sulla lettera di risposta a UE e BCE , Silvio Berlusconi ha detto: “Voglio vedere in faccia chi prova a tradirmi”. Un’affermazione degna di un capo-cosca, o se qualcuno vuole di un profeta, ma che suona del tutto inopportuna in bocca al capo dell’esecutivo di una grande democrazia occidentale; a chi dovrebbe considerare la politica come dibattito d’idee e confronto su iniziative e programmi.

Una frase che potrebbe aver detto Conchobar Mac Nessa detto il Distruggitore, Re dell’Ulster, magari dopo aver banchettato con i propri guerrieri, mangiando con le mani dal grande calderone comune, in una scena saliente di un racconto epico come il “Táin Bó Cuailnge”, e che pure compendia l’essenza del berlusconismo: il suo fare della fedeltà al Capo l’unico valore non negoziabile e della difesa degli interessi del Capo l’unico obiettivo, costantemente perseguito, della propria azione. Il suo aver ridotto la politica italiana ad un eterno scontro tra personalità dentro ad un costante noi contro loro; il suo aver creato un partito-tribù in cui le fortune politiche dei singoli dipendono solo dal benvolere del capo.

Giuliano Ferrara sosteneva, ancora giovedì sera, che dovremmo essere grati a Silvio Berlusconi per aver modernizzato la nostra politica.

No: con l’aiuto del suo fedele alleato, l’altro capo-tribù Umberto Bossi, l’ha fatta regredire all’età del ferro.

Una politica adatta al più volgare dei villaggi televisivi possibili; quella che permette all’onorevole Davide Cavalletto di gioire per lo sgombero, forzato dalla minaccia delle acque dello Stura, di un campo Rom a Torino.

Quando non si è fatto nulla della propria vita, quando si è ignoranti e incapaci di tutto, solo si può essere fieri della propria nazionalità e del proprio gruppo etnico; è questo che fa del razzismo, tra tutte le aberrazioni ideologiche, quella dei miserabili.

Se la fedeltà al capo appartiene agli albori della politica, approfittare di una catastrofe per farsi un poco di pubblicità presso la feccia dell’elettorato, è un comportamento tanto vile da sfuggire a qualunque definizione; che non dovrebbe trovar posto in uno società, per quanto incivile possa essere diventata.

Il segno di una viltà tanto infame da non essere neppure solo disumana, anche gli animali arrivano ad essere solidali davanti ai cataclismi, ma contro natura.

Si guardino allo specchio, gli ultimi difensori del governo, mentre i carri-armati della finanza minacciano di schiacciarci sotto il loro peso: si riconoscono nell’Italia di Berlusconi e di Cavalletto? Hanno bisogno, per affrontare le incertezze del vivere, di un capo a cui obbedire? Devono, per trovare il coraggio d’andare avanti un altro giorno, raccontarsi le eterne menzogne della razza?

Non credo sia così; anche se pare, secondo un sondaggio pubblicato oggi, che un italiano su quattro non creda alla democrazia, una simile riduzione al nulla della politica non è degna di noi.

Accada quel che accada domani, neppure di quelli tra noi che hanno votato Berlusconi o Lega.

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