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Belgio: l’affare Dexia e la nascita del nuovo governo

L'accordo per la formazione di un nuovo governo, raggiunto in piena notte da otto partiti (quattro fiamminghi e quattro valloni) dopo 482 giorni di stallo politico, è stato salutato come un nuovo inizio nella storia dello Stato belga. Inizio che condurrà il Paese alla sesta riforma istituzionale in quarant'anni sotto la guida di un esecutivo a guida del socialista francofono Elio Di Rupo. Le tensioni tra la comunità fiamminga e quella vallone sembrano smorzarsi, restituendo euforia ad un'opinione pubblica esausta dopo un anno e mezzo di inerzia.

L'entusiasmo è comprensibile, ma ha il difetto di mascherare una realtà tutt'altro che rosea. Per due ragioni.

La prima è che la crisi belga non è solo politica, bensì di identità nazionale. Non è iniziata il 13 giugno 2010, data delle ultime (inconcludenti) elezioni, ma nel giugno del 2007, in occasione di quelle precedenti vinte dai crisitano-democratici di Yves Leterme, o se vogliamo dal 1830, anno di indipendenza dello Stato belga.

fiamminghi, che rappresentano il 60% della popolazione, sono sempre meno favorevoli ai trasferimenti di ricchezza comandati da Bruxelles in favore della Vallonia nonché dei sobborghi che circondano la capitale stessa. Risorse che non sono servite a diminuire il cronico tasso di disoccupazione di queste aree. Le Fiandre avvertono il peso di un governo centrale considerato troppo oppressivo, d'ostacolo al proprio sviluppo economico. La richiesta di autonomia, se non di completa indipendenza, è dunque condivisa a vari livelli da tutte le forze politiche della regione.

Condizioni economiche alle quali si aggiungono quelle culturali, certamente meno “contrattabili” delle prime. Le Fiandre aspirano a trasformare la frontiera linguistica creata negli anni Sessanta in un vero e proprio confine tra due futuri Stati interni. Il problema concreto è il destino del distretto bilingue di Halle-Vilvoorde, sobborgo di Bruxelles ed elemento centrale nell'agenda fiamminga. Questo arrondissement permette ai 150.000 francofoni che vivono nella periferia fiamminga della capitale belga di essere giudicati nella propria lingua e da un giudice della propria lingua, oltre a votare per i partiti francofoni di Bruxelles. Halle-Vilvoorde segna un'eccezione nella continuità territoriale della comunità fiamminga, per cui se il Belgio fosse realmente diviso in due entità autonome o addirittura indipendenti, i francofoni si ritroverebbero dalla parte sbagliata della frontiera. Considerato che i fiamminghi considerano il "territorio" stabilito dalla barriera linguistica un punto non negoziabile, il destino di Halle-Vilvoorde è più che mai incerto.

Da qui potrebbe passare il destino del Belgio. E per estensione dell'Europa, visto che Bruxelles ne è la capitale.

La seconda ragione porta il nome di Dexia. La banca franco-belga, già salvata nel 2008 con una poderosa iniezione di fondi pubblici (6,4 miliardi di euro), è di nuovo sull'orlo del baratro perché troppo esposta nei confronti dello Stato greco (3,8 miliardi di euro in titoli di Atene). Il motivo per cui la banca detiene una così grossa fetta di titoli a rischio risiede nel core business della stessa, ossia l'attività di finanziamento agli enti locali: per anni l'ente ha sovvenzionato obbligazioni a lungo termine mediante pagamenti a breve, attraverso un complicato sistema di strumenti derivati. Ne sanno qualcosa i nostri comuni, i quali hanno a lungo beneficiato dei finanziamenti di Dexia per poi ritrovarsi a dover pagare delle cifre astronomiche (in proposito sono tuttora in corso alcuni contenziosi).

Cosa c'entra la nascita del nuovo governo in Belgio? Dexia è “too big to fail”, dunque la responsabilità del suo probabile salvataggio ricadrà, come abbiamo visto in queste ultime ore, sulle spalle degli Stati in cui ha sede: Francia e, appunto, Belgio. Il presidente della Banca centrale francese Noyer ha già fatto sapere che Parigi interverrà per salvare l'istituto; gli ha fatto eco il Ministro delle finanze (in prorogatio) belga Reynders.

È evidente che le misure necessarie ad un'operazione così importante (e onerosa) richiedono la presenza a Bruxelles di un governo stabile e operativo. L'accordo raggiunto da Di Rupo sarebbe insomma dettato dall'emergenza default che incombe su un importante asset del Paese.

Nonostante la crisi politica (e quella finanziaria globale), nell'ultimo anno l'economia belga ha registrato risultati lusinghieri: nel 2010 il Pil è cresciuto del 2,3% e le stime di crescita parlano di un 2,8% per il 2011, le casse pubbliche hanno registrato un significativo avanzo di bilancio e il Paese è tra i primi al mondo per la capacità di attrarre investimenti esteri. Segno che l'instabilità politica non sempre arriva a compromettere la stabilità economica.
Tuttavia, la vicenda Dexia ha rotto questo equilibrio inerziale. Quando una nave rischia di finire sugli scogli, deve esserci qualcuno pronto a prenderne il timone. Le diatribe linguistiche possono aspettare.

Nella foto: Carta di Laura Canali tratta dal Quaderno Speciale di Limes 3/2010 "La lingua è potere"

Questo articolo è stato pubblicato qui

Commenti all'articolo

  • Di Damiano Mazzotti (---.---.---.48) 10 ottobre 2011 11:11
    Damiano Mazzotti

    Forse nell’Europa del 2012 la nazione Belga non avrà molto senso... A parte quello di dare una poltrona a un re e a dei politici incapaci che fanno solo danni. Io ci farei uno spezzatino a quattro: la capitale la farei diventare un piccolo Stato autonomo, amministrativo e operativo, centrato negli investimenti europei e specializzato nella ricerca e sviluppo (una Montecarlo della New Economy); la regione francofona potrebbe diventare una regione autonoma francese; le altre due dovrebbero decidere se diventare regioni autonome di Olanda o Germania (la Germania è uno stato federale che funziona bene come la Svizzera).
     
    Vedremo chi offrirà di più...

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