Auto elettrica Ue, le frenate costano caro
Nel 2025, i costruttori europei di auto dovranno ridurre le emissioni del 15 per cento rispetto al 2021, pena sanzioni potenzialmente miliardarie, ma la diffusione delle auto elettriche è in ritardo.
Nel 2025, i costruttori automobilistici europei dovranno tagliare del 15 per cento le emissioni di anidride carbonica rispetto ai valori del 2021. Se non dovessero riuscirvi, rischiano di dover pagare pesanti ammende. Secondo il Regolamento 2019/631, infatti, fino al 2024 le auto devono produrre emissioni medie di 95 g di CO2 per chilometro, ed i veicoli commerciali leggeri di 147 grammi. Dal prossimo anno, e sino al 2029, il valore medio passa a 93,6 grammi per le auto e 153,9 grammi per i veicoli commerciali leggeri. Il fatto che quest’ultimo valore aumenti non deve trarre in inganno perché si tratta di differente metodologia di misurazione delle emissioni.
Nel periodo 2030-2034 è atteso un drastico calo delle emissioni, frutto dell’aumento del parco circolante di veicoli elettrici. Dal 2035, emissioni auto zero. A livello di singoli costruttori, è previsto un sistema di incentivi che allenta il target di tagli di emissioni. Ad esempio, ci sono bonus CO2 per il maggior peso dei veicoli ed altri per soglie di immatricolazioni di ibridi plug-in di almeno il 15 per cento del totale.
PENALI PER MANCATA RIDUZIONE DELLE EMISSIONI
Sono previste delle penali: se le emissioni medie di CO2 della flotta di un produttore superano l’obiettivo di emissione specifico in un determinato anno, il produttore deve pagare – per ciascun nuovo veicolo venduto in quell’anno – un premio per le emissioni in eccesso pari a 95 euro per g/km di superamento dell’obiettivo.
E qui iniziano i dolori. Con la frenata del mercato delle elettriche, i costruttori lanciano crescenti grida d’allarme, vedendo allontanarsi l’obiettivo e quindi avvicinarsi le sanzioni. In particolare, la fine dei bonus di acquisto sul mercato tedesco ha gelato il mercato. Le ristrettezze dei bilanci pubblici, che in un mondo ideale non andrebbero immolati a sussidiare gli acquisti di auto elettriche, fanno il resto. E, nel classico circolo vizioso, se il takeoff di adozione dei veicoli elettrici non avviene, i costi non scendono e il dispiegamento dell’infrastruttura di ricarica torna ai box.
Gli analisti della banca svizzera UBS a febbraio stimavano un rischio di sanzioni complessive per 7,5 miliardi di euro, di cui tre quarti a carico di Volkswagen, pari a circa il 19 per cento del suo utile operativo. La casa tedesca deve raggiungere un target di 24 per cento di elettriche nel 2025, contro il 15 per cento del 2023.
In Francia, si stima che Renault, se non aumentasse le vendite di auto a batteria rispetto al 2023, potrebbe pagare una multa di oltre un miliardo di euro, pari al 28 per cento del suo utile operativo. Stellantis sarebbe meno esposta, con una multa di oltre un miliardo ma che inciderebbe solo per il 5 per cento dei suoi profitti operativi.
Più pessimista la stima dei costruttori transalpini: dieci miliardi di euro di sanzioni, calcolate sulla tendenza corrente (in calo) delle vendite, mentre la stima di UBS, dello scorso febbraio, è basata sul mix di vendite. Resta tuttavia, alla luce del quadro normativo in essere, un rischio finanziario non trascurabile.
SOLDI PUBBLICI, COLPO DI FRENO E DIFESA IBRIDA
L’allarme dei costruttori serve ovviamente a mettere pressione ai governi e ottenere sussidi agli acquisti, sia per i privati che -soprattutto- per le flotte aziendali. In Regno Unito, dove esiste un problema simile di asticella annua sanzionata dei volumi di vendite elettriche, Stellantis ha già mandato a dire al governo di Londra che potrebbe decidere di delocalizzare per evitare le sanzioni, ma è evidente che lo stesso discorso rischia di essere assai meno praticabile, quando fatto “in casa”.
Naturalmente, è sempre possibile che la prossima Commissione Ue, che si annuncia più sensibile su temi del genere, possa decidere di rallentare la progressione di adozione e il relativo sistema sanzionatorio, ma attenzione alle conseguenze non volute. Ad esempio, il fatto che i costruttori rischierebbero di trovarsi a metà del guado, in assenza di piattaforme di assemblaggio sufficientemente flessibili, e avere grossi e costosi guai.
Oltre al fatto che i cinesi stanno sbarcando in forze Europa. La leader BYD, ad esempio, costruirà l’ormai celeberrimo impianto ungherese ma ha anche siglato in questi giorni l’accordo per uno simile in Turchia, paese che fa parte dell’unione doganale europea, le cui merci non sono quindi soggette a dazi quando entrano in Ue.
Secondo gli ambientalisti e alcuni centri studi, invece, l’allarme dei costruttori sarebbe strumentale, nel senso che si sarebbero sin qui concentrati su alto e intermedio di gamma termica, per spingere la marginalità e mettere fieno in cascina anche per sussidiare gli assai più magri margini delle mitologiche city car elettriche, che si annunciano in massa proprio a ridosso del cambio d’anno.
Come che sia, unendo i puntini, trovo ancora più difficile sfuggire alla mia originaria sensazione: il mercato dell’auto elettrica, per i costruttori europei, rischia di essere perso. Sarebbe un drammatico vuoto d’aria alla produzione industriale (peraltro già messo in conto, date le differenze tra motore termico ed elettrico), che eventuali insediamenti cinesi compenserebbero solo in minima parte.
Per ora, la soluzione difensiva dei costruttori, che permetterebbe loro anche di puntare al raggiungimento dei prossimi target di taglio emissioni, pare sempre più essere quella ibrida, nello specifico la mild hybrid, cioè senza spina, con batterie a basso voltaggio e sistema di recupero dell’energia in frenata. Stellantis ha già annunciato una nutrita pipeline di lancio per i prossimi mesi. Vedremo. Ma la benzina e il motore termico resterebbero.
A questo proposito, poiché l'”orrido” capitalismo ha in sé non comuni doti di adattamento, come del resto il genere umano di cui è figlio legittimo, segnalo l’interessante sviluppo di un produttore di motori a combustione interna “on demand“, nato in origine dall’accordo tra i cinesi di Geely e Renault, a cui oggi guardano o potrebbero guardare altri costruttori, timorosi di affogare a metà del guado di una transizione potenzialmente letale come tutte le transizioni. Il mese scorso Saudi Aramco, compagnia petrolifera saudita, ha speso 740 milioni di dollari per acquisire il 10 per cento di Horse Powertrain: nata lo scorso 31 maggio, 17 mila dipendenti in 17 fabbriche nel mondo, capacità produttiva attuale a 3,2 milioni di unità annue, obiettivo 5 milioni. Adattamento è il nome del gioco, come insegna la teoria dell’evoluzione.
Foto di andreas160578 da Pixabay
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