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Attacco alla Costituzione. Parlano Roberto Scarpinato e Antonio Ingroa

Nelle stanze e nei corridoi della Procura di Palermo la riforma fortemente voluta da Berlusconi viene vissuta come una minaccia all’indipendenza della magistratura. Con l’esecutivo che liquida ogni possibile forma di bilanciamento al suo potere. Ne parlano Roberto Scarpinato e Antonio Ingroia. 

di Pietro Orsatti (su left numero 2/2009)

Nell’atrio del secondo piano del palazzo di Giustizia di Palermo una piccola folla di magistrati della Procura, con relativi uomini delle scorte, attende il saluto del nuovo procuratore aggiunto. È il “primo giorno di scuola” di Antonio Ingroia, nominato solo pochi giorni fa. In una saletta a lato, il pubblico ministero si presenta brevemente ai colleghi. Alcuni applausi e poi tutti a lavorare. Perché il lavoro alla Procura di Palermo non manca e poi il non ancora cinquantenne magistrato palermitano ha avuto l’incarico, che fu già di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, passando praticamente tutta la propria vita lavorativa qui, in questo palazzone di travertino e cemento incastrato fra un mercato popolare, i palazzi signorili e le vetrine “firmate” che circondano il teatro Massimo.

Anche Roberto Scarpinato è stato procuratore aggiunto a Palermo. Poi doveva - è storia di questi giorni - diventarlo a Roma. Ha rinunciato all’incarico e ora è tornato a essere un semplice sostituto. A Palermo. “Semplice” come lo può essere uno dei protagonisti della lotta alla mafia degli ultimi vent’anni. “Semplice” come lo può essere uno dei più attenti osservatori delle mutazioni e dei condizionamenti che hanno attraversato la nostra società nell’era, incompiuta, della seconda Repubblica. «Se la riforma sarà approvata così come sta circolando in questi giorni avranno chiuso il cerchio», scandisce. Non c’è affanno, o fretta, nel ragionamento del magistrato. Ma urgenza, o meglio allarme. «Il punto nodale di tutta la questione è la proposta di togliere ai pubblici ministeri il potere di avviare le indagini - prosegue - per assegnare questo potere alle forze di polizia. Questa, che apparentemente è una riforma di mera procedura, è invece una riforma di sostanza costituzionale. Perché è inutile nascondersi che le forze di polizia dipendano dai ministeri dell’Interno, della Difesa e delle Finanze, e quindi dal potere esecutivo. Tenuto conto che in questo periodo storico, come tutti gli analisti del potere e i costituzionalisti osservano, assistiamo a un processo di oligarchizzazione e verticalizzazione del potere, il potere esecutivo si rafforzerà ulteriormente a scapito degli altri poteri.

Per fare un esempio della tendenza in atto, il Parlamento è stato in buona misura ridotto da assemblea di rappresentanti del territorio selezionati attraverso il voto di preferenza ad assemblea di nominati da alcuni oligarchi». Si è così attenuata la separazione tra legislativo ed esecutivo a vantaggio di quest’ultimo. E ora, con la stretta della riforma della giustizia, il cerchio si chiude perché sarà fortemente ridotta anche la separazione tra giudiziario ed esecutivo sempre a vantaggio di quest’ultimo. «Sostanzialmente sarà la politica a dover giudicare se stessa».
Tira una brutta aria sulla magistratura. Un’atmosfera che qui a Palermo diventa più pesante. Anche Ingroia non si nasconde davanti all’inevitabile moderazione che richiederebbe l’incarico. Si prende un po’ di tempo per parlare di Cosa nostra, inevitabilmente onnipresente per chi opera in Sicilia, e di riforma della giustizia, a lato di un seminario sulla mafia dei colletti bianchi. E va subito al dunque. «Al dire il vero - esclama con un sorriso amaro - già da qualche anno non è che si respirasse un’aria leggerissima. Sembra quasi che a qualcuno sia venuta l’idea di un regolamento dei conti, un desiderio di rivalsa nei confronti della magistratura, una riforma della magistratura - più che della giustizia - che sembra mirare a ridimensionarne i poteri. Insomma, tira una brutta aria, a dir poco. Mai fare il processo alle intenzioni, ma se la proposta rimane quella che è si tratta di una riforma che ci riporta indietro agli anni Sessanta e Settanta con quello del magistrato che era un lavoro di tutto riposo e che andava al traino di quella che era l’azione di polizia e carabinieri. Senza togliere niente alla loro capacità, ci troveremmo davanti alle forze dell’ordine anche loro indifese da eventuali pressioni del potere esecutivo». Deve essere suonato qualche campanello d’allarme anche nella maggioranza di governo se la terza carica dello Stato, Gianfranco Fini, e lo stesso ministro Alfano stanno cercando di aprire un dialogo con chi, nel bene o nel male, la giustizia l’ha amministrata nel nostro Paese. E ha fatto emergere le distorsioni della politica supplendo ad altri poteri che, di fatto, hanno ceduto le armi.
«Il nostro sistema sta progressivamente perdendo tutte le forme di visibilità democratica dell’esercizio del potere - spiega Roberto Scarpinato -. La storia insegna che il vero potere non è quello che viene esercitato sulla scena dalle istituzioni, ma quello che viene esercitato nel fuori scena. In centinaia di processi penali, da “tangentopoli” ai nostri giorni, quello che è venuto fuori è l’immagine della vera macchina del potere». Milioni di cittadini si sono resi conto che mentre sulla scena pubblica veniva presentata a uso e consumo dei media una certa dialettica politica, poi nel “fuori scena” accadeva che troppo spesso esponenti di entrambi gli schieramenti si ritrovassero coinvolti nelle stesse vicende di gestione poco trasparente degli affari.


Questa visibilità, secondo il “semplice” sostituto palermitano, non è emersa non grazie all’opposizione, non è emersa grazie al ruolo della stampa che è risultata fortemente condizionata da chi tiene le leve del potere, ma è emersa soltanto nei processi penali. «Tutto ciò è diventato in parte visibile perché c’è ancora una magistratura che gode di uno statuto di autonomia e indipendenza - spiega - e in parte perché le intercettazioni sono riuscite a rompere il muro di omertà che impedisce di portare alla luce i comportamenti devianti che vengono consumati nel segreto delle stanze del potere. Ora, la sottrazione alla magistratura del potere d’iniziare le indagini determina il rischio di un’ulteriore perdita di visibilità democratica dell’esercizio del potere. Se passa questa riforma ci troveremo in un’altra Italia, un Paese che assomiglierà molto di più a quello che c’era prima della Costituzione del 1948». È preoccupato? «Sono preoccupato più come cittadino che come magistrato. Perché qui cambia la sostanza della democrazia e la sostanza stessa della forma dello Stato. Cambia la qualità della vita dei cittadini. Si rischia di premiare tutti i “don Rodrigo” che dal Seicento ai nostri giorni rappresentano il prototipo del prepotente italiano che è stato ostacolato, in questi anni, solo dall’azione della magistratura visto che erano saltati tutti gli altri possibili controlli». E di esempi se ne possono fare davvero tanti, partendo dai casi dell’Unipol e della Banca popolare di Lodi dove la Banca d’Italia, la Consob e la Commissione e il potere di “termometro morale” della stampa non sono riusciti a contrastare distorsioni che sono emerse alla fine solo all’azione dei pm.

Le stesse preoccupazioni e contraddizioni dell’attuale tendenza di sistema politico e imprenditoriale fa quasi urlare un affaticato ma gongolante Leoluca Orlando, impegnato a raccogliere decine di migliaia di firme per chiedere le dimissioni dell’attuale sindaco di Palermo Diego Cammarata. «Questa maggioranza vuole smontare lo Stato, vuole avere a che fare con politici senza partito - spiega accalorato -, sindacalisti senza sindacato, parroci senza parrocchiani, professori senza scuola, accademici senza accademia. E senza controlli. E quando tu non vivi più la dimensione comunitaria e sociale della vita, il lunedì hai la depressione e il martedì dei deliri di onnipotenza. Sopprimendo di fatto le associazioni sociali, trasformiamo i cittadini solo in elettori e consumatori». E la riforma della giustizia, anche per l’ex sindaco della “primavera” di Palermo, è la quadratura del cerchio di una mutazione genetica della Costituzione. «Stanno cambiando la Carta con legge ordinaria, perché sanno che non ci riuscirebbero mai con l’iter del referendum confermativo».

E anche la lotta alla criminalità organizzata, ovviamente, ne potrebbe drammaticamente risentire. Perché un modello sociale, politico e imprenditoriale verticistico e autoreferenziale allargherebbe la forchetta fra chi riesce ad accedere alle risorse economiche e chi è escluso dalla redistribuzione del reddito. Ed è perciò «inutile illudersi che in contesti sociali come questi - spiega Scarpinato - le mafie possano essere sconfitte perché la mafia è un sottoprodotto della malattia della polis, dei suoi profondi squilibri interni. Instabilità che sin dall’origine dello Stato unitario determinano il problema del governo di migliaia e migliaia di persone che, essendo prive di soluzioni alternative nel circuito legale, trovano nel vasto indotto dell’economia criminale gestita dalle mafie una possibilità di sopravvivenza economica, soprattutto in una fase economica di recessione come questa. In situazioni di questo genere o si ha la situazione di Napoli, con il rischio d’implosione dell’intero sistema - 140mila persone che richiedono contemporaneamente il sussidio di povertà o riescono a campare solo grazie al sistema dell’economia criminale di sopravvivenza - o ci si ritrova come qui a Palermo dove alcuni quartieri, come lo Zen o Borgovecchio, non fanno implodere il sistema perché esiste una mafia d’ordine, che irreggimenta la criminalità comune di strada e che ha codificato le regole da seguire nel delinquere. Qui a Palermo vige ancora il cosiddetto “modello Ucciardone”, dal sistema che si creò negli anni Settanta nel carcere di Palermo, in cui i mafiosi detenuti, in cambio di alcuni privilegi, garantivano l’ordine interno». In pratica la crisi economica, e l’esclusione sociale, comporta l’aumento e il radicamento della capacità di reclutamento di Cosa nostra. Anche quando questa sceglie un profilo basso per sopravvivere all’offensiva che, finora, lo Stato e la magistratura sono riusciti a garantire.

Un profilo basso che, secondo il procuratore aggiunto Ingroia, ha anche contribuito a una distorsione nella percezione del fenomeno mafioso da parte della politica. «La politica acquisisce consapevolezza quando ci sono i morti per strada - spiega il pm - e avverte il fenomeno come un problema di priorità. Diventa prioritario quando c’è l’opinione pubblica emozionata. La mafia in Sicilia oggi ha un profilo basso e questo consente anche un dialogo, non possiamo nascondercelo, con la politica. L’altra politica, quella che non dialoga con i poteri criminali, comunque non sente appagante, in termini di consenso, la battaglia contro la criminalità organizzata quando non c’è un’opinione pubblica emozionata». E visto che ci vogliono i morti per strada per creare attenzione, in un posto come Palermo, in un palazzo di giustizia come questo schiacciato fra la città “bene” e i quartieri popolari, dove si attende l’esito di una riforma che ormai tutti definiscono come “epocale”, è davvero difficile affrontare il lavoro quotidiano per il ripristino della legalità. 

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