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Assassinio Regeni: il mandante è il governo

Al Sisi ha ottenuto il controllo del parlamento con il più alto numero di poliziotti e militari della storia del paese mentre l’Egitto è in coda a tutte le classifiche mondiali per il rispetto della libertà di stampa”. Ecco il movente del delitto di Giulio Regeni.

Sta nell’incipit dell’articolo che oggi Il Manifesto pubblica in apertura col vero nome dell'autore, fuori da pseudonimi usati in alcuni precedenti brani “adesso che quella cautela è stata tragicamente superata dai fatti”. Gli agenti dei Servizi italiani che già volano fra Roma e il Cairo potranno - se la politica dei Palazzi vorrà - rivelare circostanze ed esecutori materiali, ma il mandante è citato a chiare lettere nell’attacco del pezzo: Al Sisi, il generale golpista che gli alleati occidentali hanno voluto per liquidare l’incognita della presidenza Morsi. E’ lui ad aver normalizzato il Paese a suon di stragi, iniziò il 14 agosto 2013 presso la moschea Rabaa trucidando 1500 attivisti islamici lì accampati. Ha continuato usando molto il bastone, contro ogni genere d’opposizione, se ne accorsero, tardivamente anche quei ‘ribelli’ laici che gli avevano tirato la volata con la petizione e il corteo anti Morsi.

Bastoni, coltelli, sigarette, scosse elettriche sono un vecchio armamentario dei mukharabat egiziani. Si tratta della stessa polizia che seviziava Samira Ibrahim in un angolo del Museo del Cairo, durante le settimane seguenti alla rivolta definita rivoluzione, e tempo prima aveva triturato il volto e la vita di Khaled Said. E’ anche contro simili sopraffazioni che il 25 gennaio 2011 Tahrir tracimava di corpi che chiedevano libertà, dignità, giustizia. Soffocata l’una, calpestata e offesa le altre, oggi più di ieri, assassinando i suoi speranzosi protagonisti come l’attivista Shaimaa al-Sabbagh. Purtroppo questi valori lasciano indifferenti la lobby dei militari e quei milioni di egiziani indissolubilmente legati alle molteplici attività gestite dall’esercito (industria, agricoltura, commerci, servizi). Cosicché un consistente pezzo d’Egitto nutrito dalle divise le resta fedele. Esiste, però, un’altra faccia della nazione, islamica e laica, dissanguata da galera e terrore diffusi a piene mani da Al Sisi, molto più di quello che fece Tantawi nei mesi del dopo Mubarak. Un Paese che cerca di non sparire e che Regeni, coi suoi interessi socio-economici, andava a narrare. Lo testimonia il suo pezzo.

Un’assemblea, seppure in una saletta da cento posti comunque stracolma, di lavoratori legati a un sindacato indipendente (Ctuws) che provava a creare aggregazione fuori dai canali della sigla Etuf, gradita al governo. Raccontare quest’Egitto rappresenta per il presidente-dittatore una bestemmia superiore a quelle “ingerenze sugli affari interni” che sono costate, tempo addietro, oltre un anno di galera ai tre giornalisti di Al Jazeera, pur sostenuti da una campagna d’opinione che ha mobilitato anche Amnesty International. E sotto la pesante cortina dei poliziotti, ormai schierati in ogni angolo, a ogni ora del giorno, degli agenti dell’Intelligence ufficiali, degli informatori (mestiere che consente di vivere), fino all’anello più infimo del sistema di controllo, i famigerati baltagheyah, c’è una parte della popolazione che si muove. Ancora nello scritto di Regeni: “… in questi giorni, in diverse regioni del Paese, da Assiut a Suez, al Delta, lavoratori delle società nei settori del tessile, del cemento, delle costruzioni sono entrati in sciopero a oltranza…”. E soprattutto “sfidare lo stato di emergenza e gli appelli alla stabilità e alla pace sociale giustificati dalla “guerra al terrorismo”, significa oggi, pur se indirettamente, mettere in discussione alla base la retorica su cui il regime giustifica la sua stessa esistenza“.

Un testimone scomodissimo, dunque, che analizzava grazie alla sua formazione economica e introduceva elementi di critica secondo un’impostazione che, chi l’ha incontrato, definisce marxista. Un elemento che, secondo i parametri dell’establishment al potere, non doveva agire indisturbato. Tutto ciò il ricercatore, lo sentiva, lo capiva, aveva umanamente timore. Ma non si fermava. Prendeva qualche precauzione nelle corrispondenze parzialmente protette dietro pseudonimi, ma continuava, come ogni appassionato ricercatore della realtà. Che sia stato esaminato, pedinato è certo. Già la fisionomia in certi luoghi risulta ingombrante, non ci si può celare, si è facilmente individuati per come si è, prima che per quel che si fa.

Regeni avrà avuto alle calcagna il suo mukhabarat che spiava e riferiva. Se poi a lacerarne il povero corpo, a istillargli la morte lenta sia stato qualche balordo baltagheyah (micro criminali di cui le Forze dell’Ordine si servono per azioni violente) lo scopriranno, se vorranno e se gli sarà permesso, i magistrati. Chi s'intuisce, ripetiamo, è il mandante: Abd al-Fattah al-Sisi, per sciagura dell’Egitto, da due anni presidente. Forse se ne sta accorgendo anche la stampa mainstream. 

Enrico Campofreda, 5 febbraio 2016

articolo pubblicato su http://enricocampofreda.blogspot.it

 

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