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Argentina, sovrani ed impiccati

Immaginate di vivere in un paese in cui vi raccontano favole circa l’effettivo tasso di inflazione, che è pari a due-tre volte quello ufficiale. Ed immaginate di vivere in un paese le cui autorità, dopo anni di politiche economiche demenziali, che hanno distrutto il ricco surplus di bilancia commerciale di cui il paese disponeva, si trovino a dover contrastare con ogni mezzo la fuoriuscita di valuta pregiata, dollari americani nella fattispecie. In situazioni come questa si forma un florido mercato nero di valuta estera, a cui i cittadini ricorrono per tentare di proteggere i propri risparmi dalla falcidie inflazionistica. E, poiché l’uomo ha una tendenza innata a chiudere gli arbitraggi che gli si parano davanti (con buona pace di moralismi laici e scomuniche religiose sui malvagi “speculatori”), ecco che si creano continui “inseguimenti” tra cittadini e stato. Verrebbe da dire che si gioca a “guardie e ladri”, dove il ruolo dei secondi spetta ai pubblici poteri.

È il caso dell’Argentina, esempio da manuale di come sia possibile gettare alle ortiche la riconquista dell’agognata “sovranità monetaria” con politiche economiche suicide, fatte di populismo e rifiuto di accettare la realtà economica. Ecco quindi che, tra i disperati tentativi messi in atto dagli argentini per preservare il proprio potere d’acquisto c’è pure l’importazione di auto, meglio se di lusso. Tali acquisti avvengono infatti in regime di cambio ufficiale (oggi pari a 5,9 pesos per dollaro), contro i 9,9 pesos per dollaro che vengono negoziati sul mercato nero (anzi blu, come si chiama in Argentina).

L’arbitraggio è reso possibile dalla cocciutaggine delle autorità a mantenere un livello “ufficiale” del cambio, sfidando la realtà ed il senso del ridicolo, al punto da costringere i locali McDonald’s ad alterare il proprio listino prezzi per poter passare il famoso test Big Mac dell’Economist sulla parità del potere d’acquisto. Gli argentini che dispongono di dollari, opportunamente occultati alle autorità, riescono in tal modo a comprare auto di lusso a condizioni estremamente favorevoli, che in realtà altro non sono che il riflesso della parità di potere d’acquisto, come indica l’esempio fatto da Bloomberg: negli Usa una Mini Cooper Coupé costa circa 22.000 dollari, mentre in Argentina costa poco più di 19.000 al cambio “nero” (cioè realistico) ma oltre 37.000 a quello ufficiale. Non c’è nulla di più eversivo della realtà, al solito. Peraltro, all’acquisto di auto come riserva di valore si è fatti ricorso anche in Brasile, durante gli anni dell’iperinflazione, più forte del fisiologico deprezzamento del veicolo.

Il boom dell’importazione di auto causa - ovviamente - pressione sulle riserve in dollari del paese, motivo per cui le autorità richiedono ai concessionari argentini di “compensare” questi acquisti con esportazioni. Ecco allora che si può assistere alla Bmw che si cimenta con l’esportazione di riso, e Porsche con quella di olive e vino rosso.

Ora arriva il giro di vite, come segnala Alphaville, con obbligo di registrazione presso le autorità e di dimostrare la provenienza dei fondi utilizzati per l’acquisto. Le “autorità” parleranno di antiriciclaggio, ma è piuttosto buffo, detto da chi ha cercato (fallendo) di farsi centro di riciclaggio internazionale di dollari, pur di mettere le mani sul biglietto verde.

Ma quale sarebbe la “morale”, nell’aberrato ed aberrante caso argentino? Che il paese, malgrado disponga di una propria valuta, continua a produrre gli stessi effetti pratici e le stesse disfunzioni di un paese che si trova ad avere un peg più o meno rigido ad una moneta altrui, e soffre di andamento macroeconomico fortemente divergente. Un grande risultato, non c’è che dire.

Ora che il regno della Presidenta volge malinconicamente al termine, sarà interessante capire se e come gli argentini faranno i conti con la realtà.

 

Foto: Alejandro Gomez/Flickr

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