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Arabia Saudita: la forza lavoro indonesiana si ribella

Il Presidente Indonesiano Susilo Bambang Yudhoyono ha mandato una lettera di protesta al Re saudita Abdullah bin Abdul Azis tramite l’Ambasciatore saudita in Indonesia, Abdulrahman Mohamed Amen Al-Khayyat che aveva ricevuto presso il Palazzo Presidenziale in un incontro a porte chiuse. La lettera è giunta dopo un avvenimento che ha sollevato grandi proteste sia in Arabia Saudita che in Indonesia.

Il 18 giugno è stata decapitata una donna di 58 anni, Ruyati binti Satubi Saruna, in Arabia Saudita, con l’accusa di aver ucciso il suo datore di lavoro. La donna lavorava, alla stregua di tante sue connazionali, come domestica presso una famiglia saudita.

La condanna a morte della donna di servizio ha scatenato l’ira delle migliaia di donne indonesiane che lavorano nel paese arabo, denunciando le condizioni lavorative a cui vengono sottoposte e all’assenza di regole che le possa proteggere. Le accuse hanno colpito in primis lo stesso Governo indonesiano, additato di non fare abbastanza per i suoi cittadini. Da parte del Governo, c'è stata un'immediata chiusura, vietando ai lavoratori l’uscita dall’isola. Solamente ora, quindi, il presidente sta tentando di riaprire un dialogo con l’emirato arabo e di istituire un accordo internazionale più saldo, garante dei diritti dei lavoratori indonesiani.

L’Indonesia è uno dei paesi che fornisce la maggior parte della forza lavoro al mondo. Le indonesiane che lavorano come collaboratrici domestiche sono, nella sola Arabia Saudita, più di un milione. Il fatturato che entra ogni anno in Indonesia raggiunge almeno i 7 miliardi di dollari, soldi che permettono a chi rimane nell’isola di migliorare le proprie condizioni di vita, diminuendo in questo modo il tasso di povertà del paese, che ha ricevuto un notevole incremento negli ultimi anni, portando l’Indonesia dal 169° posto nel 1980 al 108° nel Human Development Index pubblicato dall’Onu.

Entrambi paesi islamici, sono tuttavia legati da una “sudditanza” economica, che mette il Paese del Sud-est asiatico in una posizione di subalternità e debolezza. Ma le donne indonesiane non vogliono rinunciare a questa opportunità di lavoro e di guadagno sufficiente per sé e a garantire il mantenimento della propria famiglia rimasta in patria. Chiedono solo condizioni di lavoro più umane e un maggiore rispetto anche da parte dei loro capi.

Il capo dell’Indonesia's national agency for the placement and protection of migrant workers ha affermato che in the future we plan not to allow migrant workers to live in the houses of their employers. That's where the problem partly lies, poiché, spiega, se le donne vivono fuori dalla casa dove lavorano c’è la possibilità di controllare in maniera continuativa le loro condizioni lavorative e anche psico-fisiche. Infatti, spesso vengono rinchiuse in casa e tenute in uno stato di semi-prigionia dai loro datori di lavoro, a cui sequestrano il passaporto, arrogandosi la decisione della mobilità delle sottoposte.

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