Andreotti, il Richelieu della politica italiana. Intervista agli autori del "Divo Giulio"
Beccaria: Da un certo punto di vista è stato uno uomo di Stato. Di quello Stato che è stato stabilizzato dalla stagione delle stragi, che non guardava troppo né alla destra né alla sinistra quando si trattava di preservare un potere che non era di un partito o di una coalizione, ma di correnti, se non di ambienti più ristretti ancora, rasentando il personale.
Pacini: Se guardiamo al significato etimologico del termine, Andreotti è stato sicuramente un grande statista, uno dei massimi esperti degli affari dello Stato. La tua domanda mi fa però venire in mente una vecchia battuta; ossia che Andreotti è stato davvero uno dei rari personaggi che ha sempre coerentemente, mirabilmente e diligentemente fatto gli interessi dello Stato. Solo che questo Stato non era l’Italia, ma il Vaticano. E, in fondo, questa è sì una battuta, ma contiene anche una parte di verità. Perché per definire Andreotti servono categorie di analisi del tutto diverse da quelle che di solito si usano quando si commemorano uomini politici che, nel bene o nel male, hanno segnato un’era. Andreotti non può essere paragonato a nessun’altra figura della storia della Dc. Perché, come ha scritto lo storico ed ex ministro Andrea Riccardi, più che un politico, Andreotti è stata l’ultima grande (e per certi versi tragica) figura di un uomo diretta espressione di Santa Romana Chiesa prestato alla politica. Ed ha ragione chi lo ha definito il “Richelieu” della politica italiana. Richelieu; un cardinale che diventò primo ministro, che comandò su eserciti, flotte, nobiltà e che aveva al suo servizio collaboratori di ogni tipo e risma. E che si trovò a gestire il potere in un periodo caratterizzato da intrighi, congiure, trame, lotte fratricide, veleni, doppi giochi. Uscendone sempre sano e salvo. Un po’ come Andreotti.
La sua storia personale coincide, anche cronologicamente, con la Storia della Repubblica italiana. Quand'è che Giulio Andreotti diventa il Divo Giulio?
Beccaria: In qualche modo lo è sempre stato, fin dall'inizio, quando era un astro nascente sotto l'ala di Alcide De Gasperi. E di certo, fin da subito, ha saputo dar esempio delle caratteristiche che si sarebbero delineate più nettamente in futuro. Qualche esempio? Al tempo in cui era sottosegretario di Stato e a lui faceva capo l'Ufficio zone di Confine, fine anni Quaranta. Il finanziamento a circoli ricreativi e sportivi che in realtà erano composte da frange violente che volevano silenziare le dissidenze. Oppure, altro esempio, l'abile manovra per neutralizzare nel 1952 l'operazione Sturzo, evitando la linea suicida tale per cui il candidato sindaco di Roma sarebbe stato appoggiato da monarchici e missini.
Pacini: Forse quando, a nemmeno trent’anni, De Gasperi lo nominò sottosegretario alla presidenza del consiglio, incaricandolo, tra le altre cose, di gestire i rapporti con un organismo di grande delicatezza come il cosiddetto Ufficio Zone di Confine. Si trattava di una struttura che operava lungo il fronte orientale e della quale solo oggi si cominciano a decifrare con sufficiente chiarezza competenze e funzioni. Detto in estrema sintesi, Andreotti si doveva occupare di gestire il flusso dei finanziamenti segreti che il governo italiano inviava a tutte quelle organizzazioni che avevano il compito di difendere i territori giuliani e friulani dalla “minaccia” slavo-comunista. Tra di esse vi erano anche quelle strutture paramilitari segrete che nel 1956 formeranno il nucleo primigenio di Gladio. Fu anche in virtù di questi pregressi rapporti con organismi militari segreti che, nel 1959, Andreotti divenne ministro della Difesa. In molte biografie, nel commentare quella sua nomina si sottolinea quanto fosse innaturale che lui, esonerato dal militare per insufficienza toracica, fosse andato a ricoprire una simile carica. In realtà, grazie ai documenti dell’Ufficio Zone di Confine, siamo stati in grado di dimostrare che Andreotti con le “cose militari” aveva avuto a che fare, e ad altissimo livello, fin dall’immediato dopoguerra. Va dunque sfatato una volta per tutte il luogo comune che vuole Andreotti finito quasi per caso alla Difesa, visto che in quel momento fra i democristiani vi era forse il solo Paolo Emilio Taviani (suo predecessore al ministero e “padre politico” di Gladio) ad avere maggiore esperienza nei rapporti con le gerarchie militari. Andreotti andò a ricoprire l’incarico di ministro della Difesa perché già ben conosciuto e apprezzato dall’establishment militare i cui quadri ufficiali all’epoca erano in gran parte vicini all’estrema destra.
Andreotti sapeva davvero tutto di tutti? L'archivio chilometrico, i fascicoli - alla maniera del SIFAR o del capo dell'FBI J. Edgar Hoover - le corrispondenze. Quanto c'è di leggenda e quanto di storia, in tutti questi racconti?
Beccaria: Probabilmente lui stesso direbbe che il confine tra i due ambiti è molto sfumato. Di certo lui, riformato alla visita di leva, fu un ministro della Difesa potente fin dalla fine degli anni Cinquanta. Si tentò di presentarlo come un personaggio inesperto in materia, dunque malleabile, ma fu tutt'altro, come ha già detto Giacomo.
Pacini: Come detto, Andreotti, è stato colui che più a lungo ha ricoperto la carica di ministro della Difesa e che quindi più a lungo ha avuto una responsabilità politica diretta sulle attività dei servizi segreti militari. Chiaro quindi che tutte le veline e i fascicoli prodotti in quegli anni del “famoso” (e famigerato) Reparto D del Sifar/Sid (il controspionaggio) finissero sul suo tavolo. Aldo Moro dal carcere brigatista si chiese proprio: “Che avrà significato [quel]la lunga permanenza alla Difesa; quali solidi e durevoli agganci essa deve avere prodotto?”. L’archivio quindi è davvero chilometrico e da qualche tempo, previa domanda di accredito, vi si può anche accedere. Tuttavia, chi pensasse di trovarvi informazioni “scottanti” rimarrebbe deluso (e, direi, non potrebbe essere altrimenti).
Pacini: Se ci facciamo caso Il Divo ha sempre avuto una particolare “simpatia” per personaggi, per così dire, “border-line”. È in effetti davvero impressionante la sproporzione che c’è fra l’immagine pubblica dell’Andreotti frequentatore delle ovattate e felpate stanze vaticane o ospite d’onore delle più importanti cancellerie europee e l’immagine che invece davano certi uomini della sua corrente. Perché dico questo? Perché Andreotti ha sempre delegato ad altri la sua rappresentanza. Non ha mai agito in prima persona, nulla era direttamente riconducibile a lui. È per questo che personalmente ho sempre avuto dei dubbi sulla veridicità della famosa questione del bacio a Riina di cui parlò il pentito Balduccio Di Maggio e che poi ha finito per catalizzare tutta l’attenzione mediatica del processo di Palermo (che, invece, si basava su ben altro). Ho sempre pensato (magari sbagliando) che quella fu una pericolosa polpetta avvelenata buttata in pasto ai Pm e che alla fine si è ritorta contro la pubblica accusa (se ci facciamo caso, la questione del bacio viene sempre citata strumentalmente, anche in queste ore, per dimostrare quanto “ingiusto” sia stato quel processo). Dubito che uno come Andreotti si sarebbe esposto in prima persona arrivando ad incontrare de visu addirittura Totò Riina. Perché al limite, se davvero necessario, ci sarebbe stato chi lo avrebbe fatto per lui...
Mattei, Moro, Pecorelli, Ambrosoli. Ipse dixit: "Spero di morire il più tardi possibile. Ma se dovessi morire tra un minuto so che nell'aldilà non sarei chiamato a rispondere né di Pecorelli, né della mafia. Di altre cose sì. Ma su questo ho le carte in regola". Nel vostro libro siete riusciti a mostrare su quali e quanti fatti non avesse davvero le carte in regola?
Beccaria: Le carte sono ancora parziali, purtroppo. Mancano quelle delle 27 richieste di autorizzazione a procedere rifiutate e a oggi non accessibili alla consultazione. Leggere la storia di Andreotti significa però osservare fenomeno più che ricercare dichiarazioni incontrovertibili. Per quanto alcuni documenti già oggi possano raccontare in modo piuttosto approfondito alcune delle vicende citate in precedenza.
Pacini: Nel 1977, negli anni della solidarietà nazionale, in uno dei suoi tipici articoli, Mino Pecorelli, dopo aver ironizzato sul Pci che nelle piazze chiedeva la verità su quelli che già allora si chiamavano i misteri d’Italia, ma che poi, in Parlamento, non era ostile ad Andreotti, così “riassunse” il “curriculum” del Divo: “Trent’anni di governo, aereoporto di Fiumicino, forniture militari, rapporti con Sindona, mafia alla regione Lazio, Cassa per il Mezzogiorno, faida tra chimica pubblica e privata, esportazione di capitali (…), trame rosse e trame nere, guerra tra generali, rapporto Pike, rapporto Church”. E in effetti non vi è dubbio che in ognuno di questi “fatti” fin da allora vi fosse l’ inconfondibile mano del Divo. Ed eravamo solo nel 1977…
Tutte queste vicende (qui necessariamente sintetizzate) fecero certamente da sfondo alla strategia della tensione e si verificarono quando Andreotti era ministro della Difesa e dunque politicamente responsabile delle attività dei servizi segreti militari. Poteva dunque ignorare quanto accadeva all’interno del Sifar? Ho troppa stima dell’intelligenza di Andreotti per pensarlo. D’altronde, ritenere che Rocca o il Nucleo Guerra non ortodossa del Sifar elaborassero simili progetti per una loro iniziativa personale, è risibile. Ma è altrettanto chiaro che se si pretendesse di dimostrare che Andreotti fu il diretto ispiratore di tutto ciò si perderebbe solo tempo, perché di questo non esiste la minima prova. E tuttavia, se non vi è prova di una sua responsabilità diretta, non può essere elusa una responsabilità politica. Perché come ha scritto l’ex presidente della Commissione Stragi Giovanni Pellegrino, ci sono circostanze in cui un politico è responsabile anche di ciò che non sa, se aveva il dovere di saperlo, anche di ciò che non voleva che accadesse, se aveva il dovere di impedirlo.
Ecco, lasciando stare il piano giudiziario (che non ci porterebbe da nessuna parte) rimane, in questo come in altri casi (si pensi, per esempio, ai rapporti con Sindona) una innegabile ed acclarata responsabilità politica di Andreotti in alcune delle più oscure vicende della storia d’Italia.
“È inimmaginabile per chiunque la quantità di Male che bisogna accettare per ottenere il Bene”, fa dire Paolo Sorrentino a Toni Servillo ne "Il Divo". Tra tutto il male fatto (o quello solo pensato) quanto bene resta nella carriera politica di Giulio Andreotti?
Beccaria: La frase che Paolo Sorrentino fa recitare a Servillo è una rappresentazione perfetta della carriera di Andreotti. I due ambiti non possono essere scissi ed entrambi possono essere ritrovati ricostruendone la carriera politica. Se poi si guarda al bene, speculare al male citato dalla domanda, l'impressione che se ne ha è che abbia riguardato, come si diceva all'inizio, aspetti specifici del potere, disgiunti dall'interesse più ampio dei cittadini.
Pacini: Una decina di anni fa il politologo Giorgio Galli pubblicò una interessante biografia di Andreotti che aveva un titolo molto azzeccato, ovvero; “Il prezzo della democrazia”. Perché per quanto oscure (e spesso vergognose) siano state molte delle pagine della storia dell’Italia Repubblicana, sarebbe francamente superficiale e non corretto appiattire solo su di esse quella storia e il non considerare che, comunque la si pensi, quell’Italia era comunque una democrazia, dove esistevano libertà di stampa e di associazione. A cavallo fra anni sessanta e settanta, in particolare, l’Italia fu a lungo l’unica democrazia che si affacciava sul Mediterraneo e questo la rese, suo malgrado, un paese sul quale si scaricavano tutte le tensioni non solo del conflitto est/ovest, ma anche nord/sud (per il controllo delle risorse energetiche). Come ha scritto Miguel Gotor nel suo “Il Memoriale della Repubblica”, fu anche in un contesto del genere che, in determinati snodi cruciali della storia d’Italia, Andreotti, a suo modo, rappresentò una sorta di punto di equilibrio forse imprescindibile per quel sistema di potere, quello di segnalare l’accensione di una spia di allarme, il punto oltre il quale il satellite Italia non avrebbe potuto spingersi nella definizione della propria autonomia nazionale all’interno del quadro dell’Alleanza Atlantica. Insomma, e torno al titolo del libro di Galli, Andreotti è stato uno dei “prezzi” che il nostro Paese ha dovuto pagare per rimanere una democrazia. Se sia stato un prezzo congruo lo diranno forse le generazioni di storici futuri.
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