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Agorafobia. Finalmente in Italia l’ultimo film di Alejandro Amenábar

Finalmente, dopo le complicanze che ne hanno ritardato la distribuzione in Italia, la nuova creatura del regista spagnolo Alejandro Amenábar espugna le sale cinematografiche nostrane per merito della Mikado. I centoventisette minuti di ricostruzioni storiche sfoggiati da Agorà scuotono, impressionano, informano e commuovono.

Appurato lo scarso interesse che il popolino suole rivolgere ai personaggi non mediati – dacché, se un personaggio non figura sugli schermi, semplicemente non esiste – l’opera di Amenábar si rivela quanto mai indispensabile per apprendere dell’esistenza di Ipazia, una delle donne senza le quali il mondo moderno sarebbe assai meno moderno, e non soltanto per quanto concerne il sapere scientifico.

La pellicola, vincitrice di sette premi oscar – per fotografia, costumi, acconciatura, direzione artistica, produzione, sceneggiatura ed effetti speciali – è sbolognata a teatri sussidiari per far posto agli acculturanti Scontro tra Titani e La città verrà distrutta all’alba: ennesimi fuochi d’artificio USA – e getta – che tanto suggestionano la fantasia dei nostri bambini. Anche over 40.

Le reazioni dei fortunati che hanno dissertato le pompe & lustri di matrice hollywoodiana in favore dell’altrettanto avvincente Agorà sono state molteplici. I più hanno sbadigliato, com’era da prevedersi. Parecchi hanno pianto. Pochi, decisi a carpire il messaggio ultimo del regista, si sono fermati a riflettere.

Era forse questo l’invito, neppure troppo velato, della pellicola. Si faccia mente locale alle scene che ritraggono la nostra Terra in orbita, attorniata dalle tenebre dello spazio siderale, o alle vedute aeree di Alessandria d’Egitto. Amenábar propone una visione d’insieme dell’antica roccia muscosa su cui viviamo, nella sua semplicità geometrica di sferoide oblato – un solido ottenuto dalla rotazione di un’ellisse attorno al proprio asse minore. Difatti, la figura dell’ellisse sarà la chiave di Volta delle intuizioni di Ipazia.

Ricordata erroneamente come martire – termine nato in ambito cristiano che significa testimone – del libero pensiero, Ipazia terminò bruscamente la sua vita nel marzo del 415, in un’età compresa tra i 45 e i 65 anni. Ciò che imprime un solco profondo nella memoria di quanti si interessano alle vittime dell’estremismo – laico o religioso che sia – è la brutalità delle esecuzioni. Il film di Amenábar propone un’alternativa non meno straziante della vicenda tramandataci da Socrate Scolastico. Nella versione archetipica la filosofa è massacrata brutalmente da un gruppo di fanatici cristiani mediante scorticamento – utilizzando ostrakois, gusci d’ostrica o cocci, come arma sul corpo denudato.

Il film sembrerebbe aver rispolverato lo sterile dibattito tra fedele e scienziato – anziché quello tra Fede e Scienza – svilendo la necessità di un serio confronto che miri a stabilire quale delle due dottrine sia utile e quale, per contro, dannosa alla vita. Un interrogativo, questo, toccato dal biologo britannico Richard Dawkins che, nel documentario Root of all Evil? – mai giunto in Italia – si domanda se l’umanità vivrebbe meglio senza l’ausilio – o l’impaccio – della religione.


L’impatto sociale di Agorà ha suscitato, com’era presagibile, la reazione dei giornali più tendenziosi del Paese. Un opinionista di Avvenire – il giornale dei vescovi – estingue il fuoco dalla coda di paglia riaprendo una vecchia ferita, parlando di una Ipazia addirittura “illuminista”, quando non semplicemente indifferente alle convinzioni indimostrabili della religione, fosse questa pagana o cristiana. Il tutto perché furono effettivamente gli illuministi a ricordare un personaggio che, altrimenti, sarebbe finito obliato.

Un altro scrittore di Avvenire fa della filosofa neoplatonica una cristiana per poi ritrattare e correggere il tiro, senza tuttavia mollare la convinzione che i parabolani non fossero cristiani, beffando gli esperti di storia delle religioni. Qualcun altro tenta la via del vittimismo – il sempre pronto salvagente della Chiesa cattolica – proponendo al regista, visto che ci siamo, di “dedicare il suo prossimo film alle persecuzioni dei cristiani in Paesi come il Pakistan.”

Stesso escamotage per il giornalista di La Repubblica che ricorda la triste vicenda di Pavel Florenskij, ossimoricamente teologo e matematico, ucciso a suo avviso “dall’intolleranza dogmatica dell’antireligione”, senza tuttavia sottolineare che fu vittima dei campi di concentramento sovietici, della repressione politica e non propriamente antireligiosa.

La verità è che la barbara vicenda dell’omicidio di Ipazia, della distruzione – seppur parziale – della biblioteca di Alessandria, e delle origini cruente di un cristianesimo che ha potuto diffondersi solo mediante l’utilizzo della forza contrastano con il messaggio di pace promulgato dai moderni leader della dottrina, e dipingono un fanatismo non troppo dissimile dal “diverso” fondamentalismo islamico.

Il tutto, insomma, contrasta con la storia del cristianesimo inculcata dalla scuola teo-fascista, che si preoccupava soltanto di rievocare la persecuzioni cristiane ad opera dei romani nell’antica Roma, le quali videro i cristiani costretti a ripiegare nelle catacombe.

Sarebbe questo il presagio che, stando a quanto raccontato dalla Mikado, ha fatto storcere il naso della Commissione CEI durante la visione della pellicola alla vigilia della diffusione nelle sale del circuito cattolico. Amenábar tratta un periodo del cristianesimo mai portato al cinema, in una trasposizione filmica che anni addietro non avrebbe superato la censura vaticana.

Il film raffigura un’esistenza possibile anche senza religione ed è questa la vera polpetta amara nel secondo di carne alla mensa del palazzo Apostolico.

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