Afghanistan, l’editto anti-oppio e lo "strano" tempismo di una guerra che non finirà
(Honoré de Balzac, "Illusioni perdute", 1843)
Kabul (Afghanistan) - No, dall'Afghanistan non ce ne andremo. La notizia del ritiro delle truppe occidentali il prossimo anno è un falso. O, per meglio dire, un “verosimile”. Se ne andrà la missione Isaf, ma non le truppe, che rimarranno ufficialmente per «proseguire l'assistenza e l'addestramento delle forze di sicurezza afghane», stando alle dichiarazioni fatte a fine giugno dal ministro della Difesa Mario Mauro in un incontro con i pari-ruolo tedesco ed afghano e che segue il vertice Nato tenutosi il 4 e 5 giugno a Bruxelles, dove è stata definita la missione “Resort Support”. L'Italia rimarrà in gioco attraverso l'invio di un contingente di 500-700 unità, nonostante non vi sia stato alcun passaggio in Parlamento e, dunque, alcuna possibilità di rendere noto alla popolazione l'ennesimo vilipendio all'articolo 11 della nostra carta costituzionale. [qui e qui]
Al nostro Paese, che assumerà un ruolo di primo piano, toccherà il controllo dell'area occidentale dell'Afghanistan, dove attualmente l'Italia già ha la responsabilità delle province di Herat, Farah, Badghis e Ghor. A Stati Uniti e Germania, gli altri due paesi che guideranno la missione, spetteranno rispettivamente la responsabilità della zona meridionale ed orientale e dell'area settentrionale.
Nonostante i proclami dall'Afghanistan, dunque, nessuno se ne andrà. Anche perché, in questi dodici anni di guerra, c'è un enorme – e in parte inquietante per l'Italia – non detto: Bin Laden, le armi chimiche di Saddam, la democrazia non sono mai entrate nell'agenda americane, sostituite da un'unica parola: droga.
Source: UNODC and UNODC/MCN opium surveys 1994-2001. The high-low lines represent the upper and lower bounds of the 95% confidence interval. |
Approfondimento: Afghanistan: Lessons from the Last War. The making of U.S. Policy, 1973-1990, di Steve Galser, 9 Ottobre 2001
L'editto afghano. «Da quando abbiamo preso il controllo dell'Afghanistan la produzione di oppio è passata dalle 3400 tonnellate del 2002 alle 8200 tonnellate dell'anno scorso [il 2007, ndr]» [Riccardo Iacona, “La guerra infinita”].
Il primo dei non detti è, infatti, un dato incontrovertibile, e ormai storia abbastanza nota: con l'occupazione occidentale la produzione di papavero da oppio è aumentata, come dimostra il grafico (vedi sopra) realizzato dall'Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (Unodc). La guerra in Afghanistan scoppia nel 2001, come reazione agli attentati dell'11 settembre e come ricerca di Osama bin Laden, la cui presenza era data per certa nel paese.
Il 2001 è, però, anche l'anno con il picco negativo della produzione di papavero da oppio. Ciò derivava non da avverse condizioni climatiche quanto da un decreto emanato dal mullah Omar nel 1999, come risposta ai tre anni di lunghe ed infruttifere trattative tra i taleban – saliti al potere nel 1996 – e l'Unodc e che avevano ottenuto come unico risultato le 4.600 tonnellate prodotte lungo 91.000 ettari di terreno.
Secondo l'Annual Opium Poppy Survey for 2001, la provincia di Helmand, che con i suoi 42.853 ettari costituiva nel 2000 l'area più vastamente coltivata, l'anno successivo, ad “editto” in corso, non registrava alcuna coltivazione. Con la quasi completa cancellazione della produzione vengono meno anche i flussi finanziari legati a quelli della droga, tanto che – come si può leggere nel libro “Missione Oppio. Afghanistan: cronache e retroscena di una guerra persa in partenza” di Giorgia Pietropaoli edito da Alpine Studio nel 2013 - «molti economisti e analisti sostengono che l'intervento sia servito per riappropriarsi del controllo della produzione e del commercio di droga che i talebani avevano interrotto».[1]
Da questa necessità, che può essere letta non esclusivamente come un modo per chiudere il traffico di eroina afghana (ad oggi tra l'80 ed il 90% della produzione mondiale, in un sistema che ogni anno genera circa 77 miliardi di dollari di profitto) si è tentato di dare una chiave di lettura legale a questi dati sotto l'intervento occidentale. Nel 2005 viene così lanciato il programma “Poppy for Medicine”, volto a far diminuire le coltivazioni illegali – che non significa eradicare l'intero problema – per farle diventare, attraverso un processo di vera e propria legalizzazione, la base di produzione principale per i medicinali a base di oppio, spostando i flussi produttivi dalle mani dei trafficanti a quelli delle grandi case farmaceutiche che, come si evince dalle “domande frequenti” (la pagina non sembra essere più disponibile. Qui la copia cache) del sito - ringrazio la dottoressa Maria Cristina Antonucci per avermelo segnalato - vede proprio le case farmaceutiche coinvolte nel programma e dunque evidentemente interessate non solo e non soprattutto all'aspetto “umanitarista” della vicenda quanto a quello economico, legato alla necessità di fare profitti come con ogni altro medicinale prodotto da “Big Pharma”.
L'interesse era però ancor più diretto ed indipendente da questo programma: l'80% degli antidolorifici – medicinali a base d'oppio – vengono consumati nei sei paesi più industrializzati (Usa, Francia, Canada, Germania, Gran Bretagna e Australia), con un incremento nelle vendite quadruplicato negli ultimi dieci anni, per un profitto annuo di circa 11 miliardi di dollari. Come insegna l'economia di base, alla massimizzazione del profitto corrisponde una necessità: l'abbattimento dei costi di produzione, magari cercando di abbassare i costi di acquisto della materia prima. Dunque cosa c'è di meglio che poter controllare direttamente i produttori?
A questo punto è d'obbligo una domanda, dai risvolti inquietanti: quanto ha inciso tale necessità sulle reali motivazioni dell'invasione occidentale in Afghanistan, come peraltro sostiene Giorgia Pietropaoli nel suo libro?
Può un sistema – quello farmaceutico appunto – che impone la politica dei brevetti, uccidendo migliaia di persone attraverso il non-accesso ai farmaci essenziali, inserito in un altro più ampio sistema che guadagna da clausole come l'“assicurazione sul contadino morto” (nome ufficiale: Corporate Owned Life Insurance, cioè un'assicurazione stipulata sulla vita dei dipendenti "non indispensabili" di una società - la c.d. "manovalanza" che nella maggior parte dei casi non ne sono a conoscenza - e della quale a beneficiare è l'azienda e non i parenti del dipendente) o apre tribunali affidandoli a società a scopo di lucro (come accaduto nel 2008 a Wilkes-Barre, Pennsylvania, quando la Pennsylvania Child Care ottiene l'appalto per la costruzione di un nuovo carcere minorile. Tra gli stipendiati dalla società anche Mark Ciavarella, giudice presso il locale tribunale minorile, attivatosi da un lato per la chiusura delle strutture carcerarie pubbliche e dall'altro comminando condanne "fantasiose", come i 3 mesi di carcere comminati a Hillary Transue, colpevole di aver aperto una pagina su MySpace per parlare, dal suo punto di vista, della direttrice scolastica) diventare un vero e proprio “ministero della Guerra” dei governi occidentali?
Il potere da togliere ai taleban, uno degli aspetti più importanti della “cartella stampa” con cui la guerra afghana è stata venduta ai media, era dunque il potere di eliminare le coltivazioni di oppio?
Note:
[1] Iintervista realizzata ad Enrico Piovesana per il documentario “Afghanistan”; dal libro "Missione Oppio. Afghanistan: cronache e retroscena di una guerra persa in partenza” di Giorgia Pietropaoli edito da Alpine Studio nel 2013
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