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36 anni dopo Vermicino, si ripete la tragedia del bambino morto nel pozzo

Primo aprile 2017 come il 10 giugno 1981, la stessa tragedia: un bambino che cade nel pozzo.

È morto il bimbo Adrian Vasile Costan di 23 mesi caduto sabato sera in un pozzo di nove metri a Velletri, vicino a Roma, situato nel cortile dell'abitazione dove stava giocando con la sorellina di 3 anni.

Vermicino è una frazione del comune di Frascati (RM). Passò agli onori della cronaca per la sfortunata vicenda di Alfredino Rampi, un bambino di 6 anni che il 10 giugno 1981 cadde in un pozzo. L'imponente sforzo dei soccorsi venne seguito da tutta l'Italia in diretta televisiva. Il 13 giugno Alfredino morì.

È morto il bimbo Adrian Vasile Costan di 23 mesi caduto sabato sera in un pozzo di nove metri a Velletri, vicino a Roma, situato nel cortile dell'abitazione dove stava giocando con la sorellina di 3 anni. Secondo la ricostruzione il bimbo stava giocando in giardino quando, approfittando di un attimo di distrazione della mamma e del nonno, si era avvicinato al pozzo recintato ed era caduto all'interno, dove c’erano quasi 3 metri di acqua. Il nonno si era immediatamente calato nel pozzo, profondo circa 9 metri, e con una corda e altri mezzi rudimentali aveva cercato di tenere il bambino fuori dall'acqua. Il piccolo però aveva già introdotto molto liquido nei polmoni, e ciò gli è stato fatale. All'arrivo dei Vigili del Fuoco, il bimbo era stato portato in superficie. Rianimato dagli operatori del 118 era stato trasportato in condizioni gravissime all'ospedale Bambin Gesù, dove i medici del Dea, il dipartimento dell'area rossa, hanno lottato fino all'ultimo per strappare il piccolo alla morte.

Primo aprile 2017 come il 10 giugno 1981, la stessa tragedia: un bambino che cade nel pozzo.
Vermicino è una frazione del comune di Frascati (RM). Si trova ad Ovest di Frascati, fra le vie Casilina e Tuscolana. Passò agli onori della cronaca per la sfortunata vicenda di Alfredino Rampi, un bambino di 6 anni che il 10 giugno 1981 cadde in un pozzo. L'imponente sforzo dei soccorsi venne seguito da tutta l'Italia in diretta televisiva. Il 13 giugno Alfredino morì.
Tutto cominciò mercoledì 10 giugno 1981. Una famigliola romana, quella dei Rampi, stava trascorrendo qualche giorno di vacanza in una casetta che possedeva in località Vermicino, borgata Finocchio, a Roma. Stavano per andare a cena quando si resero conto che Alfredino, 6 anni, figlio maggiore della coppia, non era rientrato da una passeggiata nei campi intorno alla casa. Partirono le ricerche, e si scoprì così una terribile verità: il piccolo Alfredo era caduto all’interno di un pozzo artesiano profondo 80 metri, scavato in un fondo adiacente a casa Rampi, ed era lì, ancora vivo, ma bloccato all’interno di un cunicolo impervio e strettissimo. Partirono le operazioni di salvataggio e con esse anche la diretta TV che continuò fino alla fine. Toccò al comandante provinciale di Roma, Elveno Pastorelli, organizzare i soccorsi. Il primo problema fu parlargli, sapere come stava e fargli sentire che tutti, in superficie, stavano lavorando per tirarlo fuori: arrivò un microfono. Nei giorni successivi, a quel filo, tenuto a un capo dal Vigile del Fuoco Nando Broglio, sarà legata la speranza di poter riabbracciare Alfredo. Tutti seguirono l'Eroe Pompiere che tentava di tener sveglio Alfredino, gli promise un giro sull'autopompa e gli disse che a salvarlo stavano arrivando Mazinga e Gig Robot.

Questo evento ebbe una notevole importanza mediatica. Si trattò del primo caso che, trasmesso a lungo in televisione, ha fatto rimanere milioni di persone in ansia davanti al televisore per seguirne lo svolgimento. Le tecnologie per le dirette da luoghi esterni non erano sufficientemente sviluppate da permettere agevolmente lunghe dirette e gli eventi di cronaca erano mandati in onda in differita e in sintesi. Inoltre i giornalisti dell'epoca, per pudore o per motivi etici, erano contrari a trasmettere tragedie così dolorose e tragiche, per rispetto sia delle vittime che degli spettatori. In questo caso le immagini in diretta furono inizialmente trasmesse perché si riteneva che si trattasse di un incidente che si sarebbe risolto positivamente in poco tempo. Col passare del tempo la situazione si era lentamente aggravata, ma era troppo tardi per interrompere le trasmissioni.
Il 10 Giugno 1981 l’Italia si fermò. Le televisioni trasmisero le immagini del paese di Vermicino, nei pressi di Roma dove un bambino di 6 anni, Alfredo Rampi era caduto in un pozzo artesiano.
La vicenda si trasformò immediatamente, per la prima volta in Italia, in un fenomeno mediatico in cui milioni di persone seguirono in tv la vicenda, trasmessa a reti unificate ed è ancora oggi la diretta più lunga della storia, da venerdì 12 giugno a sabato 13 giugno. La polizia accorse sul luogo in serata, chiamata dai genitori e localizzò il bambino. Poco dopo mezzanotte arrivarono i Vigili del Fuoco. Il pozzo era largo 30 cm, profondo 80 metri. Si pensò che Alfredino fosse bloccato a 36 metri: scivolò invece fino a 60.
Una tv locale si precipitò sul posto a registrare il primo tentativo di salvataggio con una tavola di legno, metodo proposto da un gruppo di speleologi: ma si rivelò un fallimento totale. Il Comando dei Vigili del Fuoco li allontanò quindi senza riserve: il tentativo ufficiale fu quello di scavare un pozzo parallelo con una trivella. Si fece un appello tv per reperirla. Prontamente, rispose un privato. Le immagini, intanto, erano sempre più tragiche, un microfono calato nel pozzo diffuse i lamenti agghiaccianti del piccolo e le grida della madre. A Vermicino, intorno al pozzo si radunò una folla di migliaia di curiosi e volontari. Venerdì pomeriggio il Presidente Pertini arrivò facendosi largo tra la folla. In serata, il colpo di scena: Alfredino era caduto troppo in basso e la trivella era inutile. Bisognava calare di nuovo gli speleologi, che fin dall’inizio avevano criticato l’uso della trivella.
Nelle stesse ore, Angelo Licheri, piccolo di statura e molto magro, nato verso la fine della seconda guerra mondiale a Gavoi, paese di 3 mila abitanti nel centro della Barbagia, trapiantato a Roma, assieme a sua moglie Orazia e alla loro bambina, seguiva la tragedia di Alfredo attraverso la trasmissione della RAI. Con loro, altri 32milioni di italiani non riescivano a staccare gli occhi dal teleschermo. Angelo Licheri è un uomo estremamente minuto, ma coriaceo. Non ha avuto una vita facile rimasto orfano di padre a 17 giorni, in una famiglia poverissima, ma si è sempre dato da fare. E’ uno spirito libero, magari inconcludente e girovago, ma è anche persona di gran cuore. Quella sera Angelo non cenò. Continuò ad osservare i tanti tentativi degli ingegneri e degli speleologi di riportare in superficie il piccolo Alfredo. Continuò ad osservare i fallimenti. L’operazione non portava risultati di sorta. Macchinari non all’altezza, terreno particolarmente friabile, situazione generale impossibile, confusione totale con migliaia di curiosi accorsi da ogni dove, e perfino il presidente Pertini arrivato a portare coraggio. Comunque, si provò tutto, ma senza successo. Franca Rampi, madre di Alfredo, attraverso un microfono che fu calato fino al bimbo, tentò di incoraggiare il suo piccolino imprigionato al freddo e al buio. Angelo non ce la fece più a guardare, immobile ed impotente.
Angelo è un uomo piccolissimo. Ha delle spalle larghe 30 centimetri. Così, il pomeriggio del 12 giugno, quando dal divano di casa sentì l'inviato Rai annunciare il fallimento delle trivellazioni, si alzò di scatto e salutò la moglie Orazia: «Le dissi: “Vado a comprare le sigarette, torno per cena”».


 Prese la macchina, si accese una delle tante sigarette che aveva nel cruscotto e guidò verso il circo mediatico nato attorno a Vermicino. Si intrufolò oltre il cordone di sicurezza e quindi il coraggioso volontario Angelo Licheri si presentò al capo delle operazioni che stavano tentando di salvare la vita al piccolo Alfredino. Fece presente di essere forte ma al contempo estremamente minuto: . «Sono piccolo, là dentro mi infilo. Fatemi provare». Suggerì di essere imbracato e calato a testa in giù nel cunicolo fino a raggiungere Alfredino per poterlo riportare alla luce. Gli esperti confabularono un po’ ma alla fine anche loro convennero che quella sembrava l’unica idea sensata da mettere in atto, anche se a voler fare quello che fece Angelo ci vuole il coraggio di un leone, e che non c’era nessuna sicurezza che l’operazione potesse riuscire ma che anzi, alla fine, era più probabile che ci si potesse ritrovare non con una vittima ma addirittura con due.
Si cominciò. Sotto gli occhi dell’intera nazione, Angelo venne preparato, poi con addosso solo le mutande, venne calato nel pozzo artesiano. L’ometto cominciò a farsi strada nel fango e nel freddo, tagliuzzandosi contro le rocce e le radici che sporgevano dal terreno, ma senza mai nemmeno ipotizzare di arrendersi. Alla fine, dopo 20 interminabili minuti, nel silenzio generale delle migliaia di persone presenti sul luogo e che tutte insieme trattenevano anche il respiro, Angelo raggiunse Alfredo. I due si parlarono, il giovanotto sardo tentò di tranquillizzare il bambino che però piagnucolava perché ormai stava male, la temperatura corporea troppo bassa, ed era ormai vicino alla fine. Con tutta la forza della disperazione che aveva in corpo, Angelo tentò di imbragare il bambino, ma non gli riuscì perché il luogo era troppo stretto e le cinghie non passavano. Allora tentò di tirarlo a sé per un braccio, ma il polso del piccolo gli si ruppe tra le mani. «Il bimbo rantolava. Gli parlai, gli promisi che saremmo usciti fuori insieme e saremmo andati a prendere un gelato. Tentai di imbracarlo, ma continuava a scivolarmi dalle mani. Lo presi per un polso ma glielo spezzai. Non ce la facevo». Il resto della squadra di soccorso decise di tirare di nuovo su Angelo prima che fosse troppo tardi anche per lui che da 45 minuti era a testa in giù nel cunicolo. Un tempo fuori da ogni soglia di sicurezza, e bastò vedere le immagini che i fotografi gli scattarono quando riapparve per comprendere meglio. L’uomo riemerse dalla terra ricoperto dal sangue delle tante escoriazioni e dal fango che lo avvolgeva. Era sconvolto, anche lui aveva una temperatura corporea pericolosamente bassa, respirava a fatica e non riesciva nemmeno a parlare. Piangeva. Non per la sua sofferenza ma per il fallimento. I fotografi lo immortalarono con una coperta addosso, tremante e morto di freddo, in una sorta di Pietà dell’era televisiva.
La testimonianza diretta di Angelo Licheri. «Lavoravo a Roma, ero autista per una tipografia e avevo 37 anni, sposato con tre figli. La mattina dell’11 giugno devo consegnare dei pacchi e sento le segretarie che parlano di un bambino. “Che succede?”. Mi spiegano a grandi linee e poi parto. A metà tragitto faccio una sosta al bar e tutti i clienti raccontano di un certo Alfredino. Mi incuriosisco. Arrivo a casa e chiedo informazioni alla mia ex moglie, ma lei fa finta di nulla. Il giorno dopo tra radio, giornali e tv capisco cosa è successo, torno a casa verso le 19, mi spoglio e mi piazzo nudo davanti allo specchio: mi osservo di fronte, poi di profilo. E decido: devo andare. L’avesse saputo, mia moglie mi avrebbe legato in casa!! Ho dovuto mentire: “Cara, esco a comprare le sigarette e torno per cena...”.
E andai lì. Arrivai sul posto e dissi ce la posso fare. Maurizio Monteleone mi giudicò adatto. Mi imbragarono, mi legarono per i piedi e mi calarono giù. Non avevo mai visto una grotta, avevo paura dei serpenti, fumavo e avevo un piccolo enfisema polmonare, ma dovevo farcela. Urlavo mollate, mollate, sapevo che dovevo farmi spazio con il corpo, la roccia mi tagliava le gambe, le braccia, le anche sanguinavano...”. Angelo riesce ad avvicinarsi al bambino, gli pulisce la bocca dal fango, gli libera gli occhi. Cerca di stringerlo con una corda a mo’ di giubbottino come gli speleologi gli hanno insegnato. “Lo prendo per un polso, sento un rumore secco, gli ho fatto male”. Angelo sta in quella posizione per 45 minuti, un tempo interminabile, insopportabile finanche per un uomo allenato. Il bimbo gli scivola, non riesce a stringere bene la corda. Angelo cede. «Rantolava , era rannicchiato con le ginocchia incastrate davanti al corpo. Gli libero le mani, sussurro: “Alfredino, torna su con me che ti porto in Sardegna, ti faccio andare in barca e ti compro una bicicletta nuova”. Nel frattempo, in superficie, pensano sia morto anche io perché non rispondo più al microfono. Poi metto una specie di imbracatura sotto le ascelle e chiedo di tirare su. Lo strappo è troppo forte, si slega. Riprovo, stesso risultato. Allora lo prendo per le braccia. Niente. Provo per i polsi e sento crac, il braccino sinistro si rompe. Ultimo tentativo, la maglietta. Nulla, scivola. Capisco che non c’è altro da fare, sono stremato e chiedo di risalire. Guardo Alfredino, gli mando un bacio, scoppio a piangere e mi tirano su»
L’Italia ammutolisce. Non solo i ventimila italiani nei pressi del pozzo della morte, ma anche quelli incollati agli schermi della televisione. Perché sì, si è visto tutto su due reti unificate della Rai, ed è stata la diretta televisiva più lunga della storia italiana. Con punte fino a trenta milioni di spettatori, tutti sconvolti dalle immagini, dalle voci e dai silenzi provenienti da Vermicino.
Un evento mediatico senza precedenti, un accavallamento di informazioni che raggiunse il suo acme nella lunga diretta con un’unica telecamera, un interminabile piano-sequenza, partita venerdì 12 giugno e durata diciotto ore. Fu una diretta indispensabile, nata così, naturale, automatica, priva di copioni e di inviati melliflui. Senza quella diretta e senza l’informazione giornalistica, molti volontari da tutta l’Italia non si sarebbero presentati e calati nel “cantiere della morte” fino all’ultimo momento; senza quella diretta, il Paese non avrebbe potuto esprimere una sconfinata solidarietà. Senza quella diretta, quasi certamente non saremmo qui a ricordare.
La diretta di Vermicino nacque dalla convinzione che a tutta l’Italia stesse per essere recapitato un regalo, il lieto fine, e che quelle riprese rappresentassero una favola, e non un incubo. L’anima di quella diretta era insomma un’anima buona. Fu “una sterminata depressione di massa”, la patologia degli italiani che hanno seguito con disperazione le ultime ore del piccolo Alfredo.
Alla fine, il giornalista del TG2 Giancarlo Santalmassi, chiuse il collegamento rivolgendo a tutti parole agghiaccianti: “Volevamo vedere un fatto di vita, e abbiamo visto un fatto di morte. Ci domanderemo a lungo a cosa è servito tutto questo, che cosa abbiamo voluto dimenticare, che cosa ci dovremmo ricordare, che cosa dovremo amare, che cosa dobbiamo odiare. È stata la registrazione di una sconfitta, purtroppo”.
Dopo 60 ore di reality show, la folla si disperse: il tragico spettacolo era finito. I 21 milioni di italiani che avevano seguito la vicenda in Tv cambiarono canale: tornarono all’attentato al Papa, alla loggia P2, alle Brigate Rosse. Dopo la dichiarazione di morte presunta, per assicurare la conservazione del corpo, il magistrato competente ordinò che fosse immesso nel pozzo dell’azoto liquido a −30 °C. Il cadavere fu poi recuperato da tre squadre di minatori della miniera di Gavorrano l’11 luglio seguente, ben 28 giorni dopo la morte del bambino. Il funerale di Alfredino Rampi si tenne il 17 luglio del 1981 nella Basilica di San Lorenzo Fuori Le Mura.
Finì così la storia di Vermicino, ma non quella di Angelo Licheri, che uscì da quell’esperienza frastornato. Si separò dalla prima moglie, si risposò, ma anche la seconda unione andò male. Conobbe May una ragazza italo africana e con lei si trasferì in Kenya dove aprì un ristorante che andava benissimo fino a quando Angelo non scoprì di avere una grave forma di diabete che lo portò all’amputazione di una gamba e alla perdita quasi completa della vista. Oggi, Angelo Licheri, 71 anni, vive in una casa di riposo alle porte di Nettuno con 1200 euro di pensione al mese e un cane abbandonato che Angelo ha adottato. A chi gli chiede che rimpianti abbia sulla sua vita passata, Angelo non ha dubbi: non essere riuscito a tirare fuori Alfredino da quell’orrendo buco.

Della tragedia di Vermicino esiste un ricordo diffusissimo, forte, ma ancora tutto unicamente emotivo. Per Alfredino ha fatto il tifo un intero Paese. E' finita male. E' diventato un tabù, qualcosa da non evocare. Un trauma collettivo che ancora cerchiamo di rimuovere. Perché è fatto della stessa sostanza delle nostre paure più profonde. Rimuovere un trauma è un meccanismo di difesa, aiuta ad andare avanti. Eppure è un incubo che purtroppo torna ancora, come sabato a Velletri, ad assediare le nostre coscienze.

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