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25 luglio 1943: Mussolini, penultimo atto

Ore 22.45 del 25 luglio 1943: “Attenzione, attenzione. Sua Maestà il Re e Imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di capo del governo, primo ministro segretario di Stato, presentate da S.E. il cavaliere Benito Mussolini ed ha nominato capo del governo, primo ministro segretario di Stato, S.E. il cavaliere maresciallo d’Italia Pietro Badoglio”. Con queste parole Titta Arista, speaker ufficiale del Giornale Radio, annunciava la fine del Ventennio fascista. Da un paio d’ore Mussolini era stato scaricato in una caserma dei carabinieri di via Legnano, proveniente da Villa Savoia, dove alle 16.15 di quel pomeriggio aveva avuto un colloquio con Vittorio Emanuele III al termine del quale era stato fermato e fatto salire (per “motivi di sicurezza”) su un’autoambulanza della Croce Rossa.

Nel corso della precedente notte, alle 2.40, il gran consiglio del fascismo convocato alle 17 di giorno 24 nella sala del Pappagallo, dopo quasi dieci ore di riunione aveva approvato l’ordine del giorno presentato da Dino Grandi, con il quale si invitava “il Governo a pregare la Maestà del Re, verso il quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore di tutta la Nazione, affinché egli voglia, per l’onore e la salvezza della Patria, assumere, con l’effettivo comando delle Forze Armate di terra, di mare e dell’aria, secondo l’articolo 5 dello Statuto del Regno, quella suprema iniziativa di decisione che le nostre Istituzioni a lui attribuiscono, e che sono sempre state in tutta la nostra storia nazionale il retaggio glorioso della nostra augusta Dinastia di Savoia”.

Da tempo il re, con i vertici dell’esercito, spingeva per la soluzione traumatica. Un tentativo disperato di separare i destini dell’Italia (e della monarchia) da quelli politici e personali di Mussolini. L’esito della guerra era ormai compromesso. Nonostante l’eroismo dei militari italiani ad El-Alamein, il fronte nord-africano era in mano alleata da otto mesi; ai primi di luglio (dopo la “resa” di Pantelleria, 8-11 giugno), il successo dell’operazione “Husky” aveva prodotto lo sbarco dell’esercito anglo-americano in Sicilia; la crisi economica, la difficoltà dei trasporti e dei rifornimenti, la penuria dei generi razionati e i continui bombardamenti sulle città avevano ridotto allo stremo la popolazione, alimentandone il senso di sfiducia nei confronti del regime.

All’interno del partito nazionale fascista cominciava a tirare aria di fronda, anche se i gerarchi andavano in ordine sparso nei loro tentativi di agganciare personalità dell’esercito e membri della corte. L’iniziativa di Dino Grandi riuscì a mettere (quasi) tutti d’accordo, pochi giorni dopo il primo vero bombardamento di Roma, che creò notevole impressione tra i vertici del fascismo e i membri del governo. Tre gli ordini del giorno presentati alla riunione: quello di Grandi, quello di Roberto Farinacci (favorevole ad un rapporto ancora più stretto con la Germania nazista), quello del segretario del Pnf Carlo Scorza. Con 19 voti a favore, sette contrari e un astenuto, l’approvazione dell’ordine del giorno Grandi costituiva finalmente il “mezzo costituzionale” che restituiva al sovrano le prerogative di capo politico supremo e di comandante delle forze armate e consentiva di ottenere “legalmente” le dimissioni di Mussolini.

In realtà, non mancò chi parlò di “colpo di Stato monarchico”. La legge del 9 novembre 1928 che costituzionalizzava il gran consiglio del fascismo, istituito sin dal dicembre del 1922 per fungere da “camera di compensazione” (Alberto Aquarone) necessaria a Mussolini per controllare il “rassismo” delle province e tracciare le linee guida riducendo a una le tendenze interne al partito, all’articolo 13 stabiliva infatti che la nomina del successore del duce spettava alla Corona, su proposta del gran consiglio: procedura che doveva così garantire la perpetuità del regime e che, in definitiva, incarnava la ratio stessa della costituzionalizzazione del gran consiglio.

D’altro canto, gli articoli 5 (“Al Re solo appartiene il potere esecutivo”) e 65 (“Il Re nomina e revoca i ministri”) dello Statuto albertino, di fatto, non erano mai stati abrogati, nonostante lo scempio delle prerogative costituzionali e delle libertà individuali e collettive. Così come l’intera Carta “concessa” ai piemontesi da Carlo Alberto il 4 marzo 1848 e adottata dallo Stato unitario il 17 marzo 1861.

Scempio consentito dal carattere “flessibile” della Carta costituzionale, che poteva essere modificata per via ordinaria, senza il ricorso cioè a un procedimento di revisione aggravato, quale quello previsto (non a caso) dall’art. 138 della Costituzione repubblicana. E che portò alla realizzazione del progetto di “abolizione delle garanzie statutarie, simulando il rispetto dello Statuto” (Piero Calamandrei). Ma anche a causa della prassi consolidatasi già in età liberale e alla base della teoria dei “germi patogeni”, elaborata negli ambienti azionisti e repubblicani, secondo la quale con il regime fascista ci fu un cambiamento nella quantità – non nella qualità – delle violazioni dei diritti sanciti dallo Statuto, che si erano verificati a partire dal 1848.

Per cui, se colpo di Stato vi fu, si trattò di un colpo di Stato tutto interno al regime fascista. “Signori, con questo voto avete provocato la crisi del regime. La seduta è tolta”, il lapidario commento finale del duce.

Si concludeva così l’esperienza storica del fascismo in Italia, che ebbe una coda dolorosa e tragica nei 600 giorni della Repubblica di Salò, Stato fantoccio a capo del quale Hitler collocò lo stesso Mussolini, ormai all’ultimo atto della sua esperienza politica e umana, dopo averne organizzato la fuga da Campo Imperatore, sul Gran Sasso.

 

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