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Vivere negli oggetti. La realtà come costrutto individuale

Uno degli aspetti più affascinanti della ricerca – psicologica, sociologica e oltre – è lo “studio dei casi”. Perché permette ai praticanti delle singole discipline di trovare spunti di riflessione per la teoria, perché consente a noi tutti – se facciamo lo sforzo di provare a pensare e sentire come il protagonista del “caso” con cui veniamo in contatto – di affacciarci sulla soglia di universi alieni quanto straordinari, bizzarri quanto illuminanti.

È ormai ampiamente condiviso il punto di vista, ad esempio, che la letteratura e il cinema ci offrono, tramite i personaggi che mettono in scena, tipizzazioni che illuminano moltissimi aspetti della nostra stessa identità.
Lo stesso vale, a maggior ragione, forse, per i casi studiati da psicanalisti, neurologi, psichiatri. Valga per tutti il libro che ha fatto conoscere Oliver Sacks al grande pubblico, "L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello" (2001), una raccolta di casi che per prima, forse ci ha mostrato quali effetti estremi, eccentrici, sconcertanti possano produrre traumi e disturbi neurologici.
 
Altrettanto affascinante è "Tengo tutto", di Randy Frost e Gail Steketee (Erickson, 2012, pp. 270, € 15,50), un altro studio di casi, che però si concentra sull’illustrazione della vita e delle difficoltà di persone che soffrono tutte di un unico disturbo del comportamento, la coazione ossessiva a accumulare – disposofobia, in termini scientifici.
 
Una vita difficile, quella degli accumulatori, stretta fra la compulsione ossessiva ad accumulare e conservare tutto, e il desiderio di conservare i legami affettivi – familiari e amicali – che spesso finiscono per frantumarsi, per l’impossibilità di adeguarsi non solo ai bisogni dell’accumulatore, ai suoi ritmi, alle sue abitudini, ma banalmente di condividere gli spazi – visto che ogni singolo angolo della casa viene occupato dai “tesori” di questi, da buste, scatole, vere e proprie “sculture” di oggetti, cianfrusaglie, riviste, quotidiani, carte di caramelle, rifiuti di ogni genere, a seconda del tipo di oggetti su cui si fissa l’interesse del collezionista. Quando non sono tutti, gli oggetti che costui raccoglie e tesaurizza. Veri e propri musei della vita vissuta, dei percorsi – casuali o obbligati – che costui o costei si è trovato a percorrere.
 
Perché – ed è qui l’aspetto che, se si prescinde dalla sofferenza di queste persone e di coloro che le circondano, affascina – questi cumuli di cose disparate diventano dei veri e propri banchi di memoria, la memoria dell’intera vita delle persone che soffrono di questo disturbo, capaci di ricordare tutto di ogni singolo “pezzo” della loro collezione – quindi di ogni singolo istante della propria vita, contrassegnata da infinite, variegate pietre miliari, ognuna legata ad un istante, ad uno stato d’animo, ad una situazione.
 
Come, contemporaneamente, queste persone sono capaci di ricordare la collocazione precisa nello spazio casalingo di ogni singolo oggetto, tanto da rischiare di essere sommersi dal panico e di scatenarsi in esplosioni di rabbia incontrollabile se qualcosa viene spostato, come se l’intera struttura che connette la realtà vada incrinata, frantumata, distrutta, Una realtà fatta di singoli elementi raccolti e catalogati secondo criteri per noi, spesso, imprevisti, invisibili, capaci come sono, gli “accumulatori”, di individuare o attribuire a ogni singolo pezzo della loro collezione particolari, aspetti per noi ampiamente invisibili.
 
Come se la realtà perdesse i suoi ancoraggi, come se quello che definiamo come “il mondo-dato-per-scontato” di cui scriveva Alfred Schutz, nella scalena (per noi) versione dei disposofobici perdesse certezza e solidità. Mettendo in crisi l’identità di costoro.
 
Perché questo è un altro aspetto cruciale della vita di queste persone: gli oggetti, le cose, i rifiuti accumulati sono la loro memoria, la loro identità. Come nelle affermazioni di Irene, una delle persone che gli autori di Tengo tutto hanno avuto in cura: “Se butto via troppe cose, non resterà nulla di me”. E, a proposito di Debra, un’altra di queste persone, “Queste cose adesso erano – scrivono Frost e Stekelee di lei – «espressioni di me»”. 
 
Un disturbo, la disposofobia, che pare conti un numero consistente di casi, tanto che ce n’è uno, quello dei fratelli Collyer di New York, che è diventato tanto famoso da entrare nel gergo di vigili del fuoco, operatori sanitari, assistenti sociali, che definiscono “inquilini Collyer” coloro che soffrono di questo disordine del comportamento. E da finire anche in alcune serie Tv, come Bones e C.S.I. Scena del crimine, che vi hanno dedicato almeno un episodio ciascuno.
 
E quando un fenomeno – anche se fatto di episodi singoli, che riguardano individui indipendenti l’uno dall’altro – entra nell’immaginario, vuol dire che ci dice qualcosa che riguarda tutti noi.
 
La memoria, l’identità, la narrazione di sé, la definizione del reale attraverso l’attribuzione di senso assegnata alle cose che ci circondano, a quelle che costruiamo. Con la differenza che se come umani la realtà si costruisce socialmente, in questi casi, questa è frutto di una costruzione del tutto individuale, basata su parametri personali, autoreferenziali, irriducibili alla dimensione sociale della cultura e della conoscenza. Tanto che diventa, per costoro, impossibile anche cambiare casa: non potrebbero mai trasportare con sé tutto ciò che accumulano in casa, e poi nel seminterrato, in garage, in magazzini affittati appositamente…
Viene in mente uno dei grandi protagonisti della letteratura del Novecento: Peter Kien, il sinologo protagonista del capolavoro di Elias Canetti, Autodafé (2001): cacciato da casa da una donnaccia che aveva assunto come donna di casa, e che era riuscita a farsi sposare da lui, si convince di aver portato con sé, nella testa, la sua intera biblioteca fatta di migliaia di volumi: la sua vita, il suo mondo, la sua identità. Fino allo scioglimento della vicenda: rientrato finalmente in casa, in preda al delirio, dà fuoco a tutto, per morire bruciato insieme ai suoi amati libri.
 
Letture
Canetti E., Autodafé, Adelphi, Milano, 2001.
Sacks O., L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Adelphi, Milano, 2001.
 
 
di Adolfo Fattori

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