Sulla questione dell’evasione per sopravvivenza: alcune proposte
Ho commentato qualche giorno fa le parole di Stefano Fassina su quella che lui aveva definito “evasione per sopravvivenza”; argomento decisamente molto caldo.
Vorrei ricordare che - come l’esponente PD - non ho certamente avvallato in alcun modo l’evasione, ma ho voluto distinguere l’evasione vera (quella di chi si infratta, magari all’estero, i soldi delle tasse non pagate), che ho definito “evasione per avidità”, da quella di chi ha magari dichiarato tutti i suoi redditi fino all’ultima lira, e quindi non è tecnicamente un evasore, ma che non ce la fa a pagare allo Stato il dovuto.
Oppure chi, sapendo di non poter pagare ha “evaso” nascondendo parte dei redditi, pur di poter tenere aperta l’attività. Questa è l’evasione “per sopravvivenza” citata nel mio articolo e, credo, anche il senso delle parole del viceministro.
Può darsi che lui, in quanto politico di primo piano e membro del governo, abbia sbagliato ad esternare il suo pensiero su un argomento così sensibile, ma questo ovviamente non riguarda me.
In buona misura la differenza, che ritengo essenziale, fra queste due “categorie” di non-contribuenti è stata volutamente negata o incompresa e, quindi, contestata. Penso ingiustamente e, ritengo, con una pesante dose di ideologia.
Non so assolutamente quantificare quanti siano gli evasori “per fame” rispetto agli evasori “per donne e champagne”, forse la minoranza, forse no. Di sicuro le attività in Italia sono ferocemente tartassate; mi soccorre su questo un articolo apparso su il Fatto Quotidiano, certo non un giornale vicino agli evasori abituali, che invito a leggere così come suggerisco di leggere anche i commenti.
Non basta dilazionare i debiti se poi si impiccano le attività già nella culla.
In ogni caso quello che conta è il dramma umano che sta dietro queste storie - anche fosse una sola in tutta Italia - e che travaglia la vita di chi, dopo anni, decenni, magari una vita intera di lavoro si trova davanti a un muro troppo alto da scalare.
Il muro di una crisi che dura da cinque anni consecutivi, che la classe dirigente del paese non ha saputo prevedere né contrastare, che ha stupidamente negato a lungo, a cui ha risposto poco e male, aggravando ulteriormente le condizioni di vita degli strati più deboli della popolazione.
Classe dirigente che ha dato prova, in questi frangenti, di essere la peggiore di sempre; la più ottusa, la più narcisistica, la più impreparata, la più disumana, la più litigiosa e anche la più supponente. In tutte le sue componenti vecchie e nuove.
E il sistema bancario non è stato da meno: a partire dai farabutti del Monte dei Paschi per arrivare agli organi di sorveglianza che abbiamo visto bene quanto sorvegliavano. Tutta gente che teneva d’occhio solo il proprio conto in banca, si direbbe.
Ma questo ci porta lontano dal discorso che mi preme. Pochi o tanti che siano ci sono lavoratori, autonomi, professionisti, imprenditori che si trovano nella condizione di dover scegliere se pagare le tasse (o le rate delle dilazioni già accordate) oppure tenersi i soldi per sopravvivere (che non significa solo “mangiare”, ma anche tenere aperta l’attività rimandando il problema di qualche tempo, sperando in un meglio che tarda a venire).
Per questa categoria di persone in difficoltà ho ipotizzato che l’unica soluzione vera sia una drastica, ineluttabile rateazione dei debiti fiscali e contributivi, “sine die”, senza scadenza, dal momento che dalla crisi non si sa quando e come si uscirà (e in ogni caso se ne uscirà stremati).
Potrebbe non bastare, in tanti casi particolarmente colpiti dalla crisi, l'allungamento delle dilazioni da 72 a 120 mensilità come previsto dal Decreto el Fare, ma potrebbero essere utili importi predeterminati, estremamente contenuti e indipendenti dall'ammontare complessivo del debito - quindi anche cento euro, anche cinquanta, anche venti - e senza scadenza. E dopo aver drasticamente tagliato gli oneri accessori derivanti da sanzioni, penalità, interessi eccetera.
Da concedere, ovviamente, a chi può dimostrare di essere effettivamente in difficoltà e accompagnando la proposta con tutte le iniziative necessarie a contrastarne un utilizzo fraudolento.
In questo modo lo Stato potrebbe incassare qualcosa anziché niente (e scusate se è poco) e il contribuente in difficoltà si sentirebbe parte di una comunità che lo capisce, che ne comprende la buonafede e le difficoltà, che lo appoggia nei momenti difficili e lo aiuta ad affrontarli, che non lo lascia solo e gli dà l'opportunità di non sentirsi - appunto - un evasore, ma un uomo in difficoltà (e in difficoltà create perlopiù da altri, vedi classe politica, vedi speculazione finanziaria, vedi sistema bancario, vedi globalizzazione eccetera).
C’è quindi, in questa proposta, un’attenzione “etica” verso drammi umani a cui non intendo rinunciare in nome di princìpi che rispetto, ma che non posso considerare più importanti della vita umana; qui ci sono persone a cui si deve riconoscere una sostanziale diversità rispetto ai veri evasori, quelli che, ad esempio, esportano capitali salvo poi farli rientrare con un trattamento, questo sì, di ignobile favore; o verso le grandi aziende, così numerose, che all'estero costituiscono quelle sacche di danaro da utilizzare poi in patria per "ungere" le ruote giuste, di solito politiche.
Di fronte a questo problema, il governo nel frattempo che fa? Elimina la pignorabilità della prima casa, ammettendo implicitamente che la questione è così importante e diffusa da rendere necessario un intervento eccezionale di questo tipo. Tanto per chiarire di che "numeri" stiamo parlando.
Qualcuno di sicuro ringrazierà e ovviamente si sentirà sollevato, ma con questo non si aiutano le persone a pagare; al contrario si dice loro che se non pagano non succede niente. La casa - insieme all’auto l’obiettivo primario dei creditori - non è a rischio.
Non critico la proposta, giustificabile e comprensibile in un'ottica di non ridurre la gente alla disperazione più nera, ma così lo Stato accetta di non incassare e, nello stesso tempo, crea una platea di contribuenti in difficoltà che invece di mantenere una speranza di uscire dalle difficoltà con un’immagine di sé integra e pulita si troverebbe mortificata e umiliata per non aver potuto saldare il dovuto ad uno Stato che cristianamente fa la carità e “rimette a loro i loro debiti”, come se fossero peccati.
Non è così che si affronta questa vicenda: i debitori devono pagare i loro debiti, prima di tutto per poter mantenere un'integrità ai loro stessi occhi, senza lesioni alla propria identità. Ma devono ricevere dallo Stato un aiuto, in dilazioni commisurate alla gravità del problema, non l'assoluzione.
Lo Stato che aiuta i cittadini ad essere e a sentirsi cittadini integri assolve alla sua funzione di gestore della cosa pubblica (che non significa solo amministrare); in caso contrario non è altro che una Chiesa che crea le disparità fra i "buoni" e i "cattivi", i fedeli e i peccatori, riservandosi il diritto di concedere la grazia, come se fosse un Papa o un Principe dei bei tempi andati.
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