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Guerra mondiale a pezzi: verso la terza fase

Due temi sono assolutamente centrali in vista delle prossime presidenziali americane di novembre: la politica estera e l’immigrazione.

Temi che potrebbero facilmente costare a Joe Biden la rielezione.

Entrambi sono sfruttati e in buona misura alimentati dai suoi avversari interni (un partito repubblicano decisamente in mano a Trump) e da quelli esterni (Putin e l’asse illiberale che lo appoggia).

Delle due guerre in corso, Ucraina e Gaza, sicuramente quella mediorientale rappresenta la mina su cui potrebbe cozzare – e forse essere affondata – la corazzata democratica.

Nessun tema è divisivo per la sinistra Usa, come per tutte le sinistre occidentali, quanto il sostegno a Israele nella sua reazione al massacro perpetuato da Hamas il 7 ottobre. Non a caso il capo del governo guidato da Benjamin Netanyahu (ostile a Biden tanto quanto era vicino a Trump) sembra essere sordo a tutte le sollecitazioni internazionali che lo invitano a moderare l’azione militare. In particolare sembra fare orecchie da mercante allo stesso Biden che lo ha richiamato più volte a un atteggiamento più cauto, benché non abbia mai fatto mancare il sostegno militare statunitense allo stato ebraico.

In questa contraddizione, tra disapprovazione a parole (per la condotta della guerra) e ininterrotto rifornimento di armi e munizioni (per il proseguimento della stessa), rischiano di collassare le speranze del candidato democratico di riconfermarsi come inquilino della Casa bianca.

Buona parte dei tradizionali sostenitori del partito, i giovani (anche ebrei), gli afroamericani, ovviamente i musulmani, la sinistra radicale (benché Bernie Sanders abbia confermato il suo sostegno al presidente uscente) potrebbero far mancare il loro voto. A tutto vantaggio di Trump che ha appena dichiarato di approvare senza rèmore l'attacco israeliano su Gaza.

Divisivo anche l’altro tema, quello dell’immigrazione che vede la sinistra più propensa ad accogliere i migranti e la destra più decisa nell’erigere muri (anche se non solo i presidenti repubblicani hanno eretto muri al confine).

Negli Stati Uniti l’immigrazione crescente vede uno scontro sempre più forte tra il governo federale (con i suoi agenti) e il governatore repubblicano del Texas (con la sua guardia nazionale), al punto da rischiare addirittura un "confronto" fisico fra le due forze di sicurezza. Il che ha fatto dire alla propaganda di Mosca che lo stato sarebbe sul punto di staccarsi dall’Unione (lasciando intendere che prossimamente negli Usa scoppierà una vera e propria guerra civile).

Sappiamo inoltre quanto questo tema sia divisivo anche in Europa.

Non si può dimenticare che la Russia di Putin sembra essere stata molto attiva nel “testare” la tenuta dell’Unione europea facendo arrivare migranti di varia origine in Bielorussia per poi spingerli a forzare il confine polacco, che è anche il confine esterno dell’Unione. Il dramma dei migranti dispersi nelle foreste innevate nel corso del gelido inverno ha segnato le coscienze europee, critiche verso l’intransigenza polacca ed europea e la mancanza di canali sicuri per l’immigrazione legale.

Ma proprio quel test ha messo in allarme via via che i russi, tramite la compagnia di mercenari Wagner ha occupato posizioni significative non solo nella Libia cirenaica, ma anche in numerosi stati del Sahel, in cui colpi di stato a ripetizione hanno di fatto scalzato la presenza francese (pesantemente post-coloniale) a favore di quella russa.

La giunta golpista del Niger ha abolito la legge del 2015 che aveva trasformato il Paese in una sorta di “hub” per migranti in cui era stato reso illegale il trasporto passeggeri che coinvolgesse migranti. Attività che procurava introiti interessanti per i giovani del paese. Di fatto è stato nuovamente liberalizzato (e facilitato) il transito dei migranti diretti verso le coste nordafricane.

Dal momento che Niger, Mali e Burkina Faso (tutti coinvolti da attività golpiste recenti con l’aiuto di mercenari russi, poi sostituiti da truppe regolari di Mosca) sono proprio gli stati in cui si raccolgono i flussi migratori in transito verso la Libia e i porti di partenza verso l’Italia, è legittimo chiedersi se la strategia russa in Africa non sia funzionale a usare i migranti come un’arma estremamente potente per minare la solidità dell’Unione europea.

Parliamo di flussi migratori che potrebbero essere alimentati a volontà aprendo o chiudendo le esportazioni di cereali verso il continente che provengono in gran parte da due paesi: Russia e Ucraina. Nel caso che la Russia, sfruttando il blocco degli aiuti militari americani e le titubanze europee, riuscisse a sfondare le difese ucraine occupando tutta la costa del Mar Nero fino alla Transnistria (come dimostrerebbe la mappa alle spalle di Medvedev), praticamente tutte le esportazioni di cereali dalle sterminate pianure dell’est europeo sarebbero nelle sue mani.

Collegando i vari puntini si delinea un quadro sufficientemente chiaro.

La migrazione di sempre più consistenti quote di popolazione africana, mediorientale o asiatica spinta verso i confini europei potrebbe essere l’arma più efficace per il Cremlino contro l'Unione europea. Un’arma a cui non si può rispondere militarmente, a meno che non si arrivi a certi deliri meloniani pre-governativi o salviniani, ma, come succede nel Texas, così divisiva da poter far collassare il progetto di unificazione del continente. In sintesi, un'arma dietro cui si intravede una strategia che di fatto potrebbe rivelarsi estremamente aggressiva (e vincente).

Utile ricordare d'altro canto che il candidato repubblicano alle presidenziali, Donald Trump quasi certamente, ha pubblicamente dichiarata la sua indisponibilità a supportare i paesi europei nel caso venissero attaccati da Mosca. La sua vittoria a novembre – facilitata dall'azione di Hamas & Co. (in questi giorni nella capitale russa con i dirigenti di Hezbollah, dell'Anp e di altre formazioni islamiste) e dalla prevedibile reazione di Israele – spianerebbe la strada alla terza, e più preoccupante fase, della "guerra mondiale a pezzi".

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