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La guerra contro l’Is potrebbe durare tre anni

La battaglia contro l'IS, secondo fonti del New York Yimes, potrebbe durare a lungo, molto a lungo. Chi immaginava che sarebbero bastati pochi attacchi mirati contro gli avamposti strategici delle milizie fondamentaliste per neutralizzarne la minaccia, dovrà prendere in considerazione scenari meno ottimistici. Secondo alcuni ufficiali americani interpellati dal NYT, la campagna miliare potrebbe durare altri tre anni, superando la scadenza della secondo mandato di Barak Obama

L'operazione di lungo periodo sarebbe organizzata in tre fasi. La prima, attualmente in corso, coinvolge l'aviazione con attacchi aerei sulle posizioni jihadiste in Iraq. Lo scopo è duplice: permettere alle milizie alleate di riconquistare le zone attualmente sotto il controllo dell'IS e difendere le popolazioni locali minacciate e il personale diplomatico e di intelligence già presente sul terreno. Seguirà una fase di addestramento ed equipaggiamento dell'esercito iracheno, dei Pashmerga curdi e delle tribù sunnite ostili all'IS. Il secondo step, che dovrebbe realizzarsi entro breve tempo, è subordinato alla formazione di un nuovo governo iracheno realmente inclusivo, che sia capace di superare le contrapposizioni causate dalla miopia politica dell'ex-premier Maliki. La terza fase sarà la più complessa sotto il profilo politico-strategico, poiché avrà l'obiettivo di eliminare le roccaforti jihadiste sul territorio siriano. Per ottenere tutti i risultati prefissati dalla strategia saranno necessari almeno 36 mesi.

Obama, in un discorso alla radio previsto per mercoledì prossimo, dovrà dare prova di diplomazia ed equilibrismo per allargare il fronte della coalizione anti-IS, arrivando forse a coinvolgere lo stesso Iran, e convincere, al contempo, i cittadini americani che non si tratta di una nuova guerra in Medio Oriente e che l'interventismo dell'amministrazione Bush non è destinato a tornare di moda.

I toni sfoderati domenica scorsa, durante un'intervista radiofonica alla NBC, non lasciano però dubbi sulla determinazione di Obama, forse anche per allontanare le critiche di eccessivo attendismo che gli sono piovute addosso a più riprese: “Nel corso dei prossimi mesi” ha detto il Presidente USA, “non ci limiteremo a frenare lo slancio dello Stato Islamico. Noi intendiamo degradarne in modo sistematico le capacità, ridurre il territorio sotto il suocontrollo e, in ultima istanza, sconfiggerlo”.

Il NYT sottolinea come la campagna in preparazione abbia caratteristiche del tutto inedite. Non sarà un attacco condotto unicamente con l'ausilio di droni, come successo in Yemen e Pakistan. Non prevederà l'utilizzo di truppe di terra, come in Afghanistan. Non sarà una campagna aerea intensiva e limitata nel tempo, come quella sferrata da Cinton in Serbia e Kosovo nel '99, insieme agli alleati della Nato. Gli USA, questa volta, non si limiteranno a svolgere un ruolo secondario, come avvenuto nel 2011 ai tempi della guerra in Libia, quando le operazioni furono condotte principalmente da Francia e Gran Bretagna.

Lo ha ribadito il Segretario di Stato John Kerry: gli USA intendono essere in prima linea nella nuova guerra al terrorismo islamico. “Abbiamo le capacità per distruggere lo Stato Islamico”, ha detto durante il vertice NATO della scorsa settimana, “potrebbe volerci un anno, potrebbero servire due anni, potrebbero servirne tre, ma siamo determinati a farlo. Lo sforzo per indebolire e distruggere l'IS richiederà tempo e persistenza.(...) Lasciare intatta anche solo una parte delle sue capacità, in qualunque luogo, significherebbe non estirpare un cancro che, alla fine, tornerebbe a colpirci”.

Kerry e e il Segretario della Difesa Chuck Hagel sarnno in questi giorni in Medio Oriente e Turchia per solidificare la coalizione anti-IS. Secondo fonti autorevoli del governo, Giordania e Arabia Saudita dovrebbero già farne parte, mettendo a disposizione le loro capacità di intelligence e i loro contatti nella regione. Gli Emirati Arabi Uniti hanno espresso una disponibilità di massima a collaborare mentre, sul fronte occidentale, si prevede il coinvolgimento di Australia, Gran Bretagna, Danimarca e Francia. Germania a Italia hanno invece confermato la loro disponibilità a fornire armamenti ai Pashmerga del Kurdistan iracheno.

Grande collaborazione sull'Iraq dunque, ma poche certezze sulla Siria, in previsione della terza fase della strategia. Come riferito da un ufficiale americano al NYT, rispetto alla Siria “ci sono molte più preoccupazioni” in relazione a quelle che potrebbero essere le conseguenze dei bombardamenti. Il primo passo importante, comunque, passa per il completo coinvolgimento di Ankara, cui si chiederà di operare un più stretto controllo delle frontiere con Siria e Iraq, attraverso cui transitano molti dei combattenti stranieri che continuano rafforzare le fila jihadiste, e di offrire alcune basi strategiche per la preparazione e il lancio degli attacchi contro le roccaforti dell'IS. Anche il coinvolgimento diretto e massiccio della Turchia non è però scontato, considerato che 49 membri dello staff della sede diplomatica turca di Mosul, compreso il Console e tre bambini, sono stati rapiti dallo Stato Islamico in giugno, quando la città è caduta nelle mani degli islamisti. Il rischio di ritorsioni sarebbe ovviamente altissimo.

Molti punti devono dunque essere chiariti e si aspetta il discorso di Obama del prossimo mercoledì per capire come l'amministrazione intenda procedere, su quali linee e con che tempistiche. Resta un solo punto fermo, a meno di improbabili stravolgimenti: non saranno inviate truppe di terra americane. Al massimo, si ipotizza, saranno impiegate alcune unità dei corpi speciali o della CIA, per indirizzare i bombardamenti verso obiettivi specifici.

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