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Far sparire se stessi per far nascere un buon romanzo. Nessuno è indispensabile di Peppe Fiore

Un attimo prima di incontrare Peppe Fiore mi rendo conto che, del tutto casualmente, ci siamo dati appuntamento in Via Gemito, a Napoli, la strada che dà il titolo al romanzo di Domenico Starnone vincitore del Premio Strega nel 2001 e non per questo un brutto libro. Anzi. Via Gemito è un romanzo che ho amato molto, il che a proposito del mio incontro con Peppe Fiore non è del tutto una casualità, considerato che si tratta del libro che l’ormai acquisito romanzo Starnone dedicò alla sua infanzia napoletana, trasudando in ogni pagina quel dilemma che da La Capria in poi la città impone ai suoi abitanti migliori: andarsene o restare? Non è una casualità perché io a questo dilemma ho sempre risposto con l’ostinato restare, mentre Peppe Fiore, classe 1981, uscito da poco con il suo secondo romanzo Nessuno è indispensabile (Einaudi, 224 pagine, 17 euro) ha risposto da molti anni andandosene proprio in quella Roma che oggi sente essere la sua città. Ma c’è qualcosa di più. A mio avviso l’intuizione che rende i libri di Peppe Fiore godibili da un punto di vista narrativo sta per un pezzo nell’assenza di un simile dilemma geografico nella sua scrittura e nel suo carattere. Vivaddio, mi ripeto mentre mi appresto al nostro appuntamento, finalmente qualcuno, per giunta uno scrittore, nato a Napoli e che non si è preso una fissazione con questa città che ama troppo parlarsi addosso e mai ragionare per davvero su se stessa.

La restante parte che fa di Nessuno è indispensabile un congegno a perfetta orologeria di narrazione contemporanea mi par di coglierla nelle parole con cui l’autore, dopo una lunga sorsata di ingannevole birra che non è weizen manco per niente, appronta in quello che mi par essere un sintetico manifesto ideologico della sua idea di letteratura: «La mia priorità era quella di scrivere un libro che non fosse per gli addetti ai lavori, per il giovane o aspirante scrittore, perché banalmente avevo voglia di scrivere un libro per il lettore, qualcosa che presupponesse il fatto che ciò che sta sulla pagina meritava di stare lì e non altrove perché esiste un pubblico interessato a leggerlo. Ma non fraintendermi, non sono le aspettative di vendita che mi interessano, o meglio: m’interessano come interessano tutti. In ogni caso, di questi tempi, di che vendite vogliamo parlare?»
 
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Peppe Fiore

Già, penso, di questi tempi non si vende nemmeno il prosciutto cotto in offerta, figurarsi i romanzi. Allora proprio per questo, mi chiedo, perché lo ha fatto Peppe Fiore? Perché scrivere un libro per un pubblico che non c’è, dal plot di ferro, con i colpi di scena e i tiranti sempre nel posto giusto? Perché scrivere un libro con al centro un personaggio come Michele Gervasini, l’uomo qualunque in attesa di promozione alla Montefoschi, società leader nella produzione di latte e caseari in cui lavora da anni, che a un certo punto, spinto da una spirale di suicidi in azienda, comincia a scompattarsi come individuo-sguardo investigativo sui misteriosi suicidi ma anche come come individuo-spettatore passivo di un universo in sbriciolamento? (E che il mondo di Gervasini sia in sbriciolamento per me diventa inesorabilmente evidente a pagina 195, quando lo sguardo impietoso dell’autore tratteggia la carcassa di una Duna incendiata rivolta verso l’ultima violacea deiezione del tramonto). La risposta di Peppe Fiore è abbastanza convinta da spingermi a ritenere di aver appena detto una sciocchezza (“Non esistono domande stupide” mi disse una volta un professore all’università, e invece si sbagliava), lo scrittore sbatte il vetro vuoto di finta weiss sul tavolo e, in un tono di voce appena percettibilmente più alto di quella del resto della città durante uno svigorito sabato pomeriggio vomerese, si lancia nello sbudellamento del proprio io letterario: «Prima di questo libro ho fatto degli esperimenti, perlopiù testi autoreferenziali tutti stomaco e verità. Con Nessuno è indispensabile, invece, sono riuscito a liberarmi di me stesso e questo è un grande successo. In questa fase della mia vita di scrittore voglio sparire e possibilmente lasciare storie che si tengano in piedi da sole, anche a rischio di sembrare un marziano. Se fra dieci anni sarò uno scrittore maturo vorrà dire che la scelta di oggi è stata giusta, cioè dovevo attraversare una fase di sparizione. Lo scrittore nasce da un bozzolo di egocentrismo e di narcisismo, in genere è un timido patologico che non ha il coraggio di imporre la propria personalità nella vita reale e quindi lo fa nei libri, ma se poi sei fortunato ed entri nell’ottica di promuovere un gesto di comunione con gli altri capisci che devi uscire da te stesso, finalmente comprendi che il luogo dove si fa il libro non è la tastiera, ma è la comunità dei lettori possibili di quel libro. Il mio obiettivo come scrittore è questo: edificare uno spazio confortevole per chi legge».

 
Altro giro di birra.
«Confortevole?» gli chiedo. «A volte, invece, la sensazione che se ne ricava è di un’enorme sgradevolezza. Nel senso che il mondo del lavoro in cui si muove Gervasini, in cui si muovono tutti i personaggi, è un luogo terribile in cui, come lettori, si ha quasi la voglia di dar ragione ai suicidi…»
«Sono contento che questo libro risulti sgradevole nella maniera in cui dici tu. Il mondo del lavoro è un paradigma, non mi interessa fare sociologia o scrivere il romanzo industriale o sul precariato, di denuncia. Non mi interessa perché non rientra nella mia idea di scrittura dare delle chiavi di interpretazione della realtà. Il mondo del lavoro è uno scenario fantastico dove c’è tutto ciò che mi interessa, hai la possibilità di raccontare gli esseri umani immersi in logiche di branco asfissianti, colti nei loro istanti di lerciume atavico… allo stesso tempo è un territorio denso di svolgimenti per temi etici e morali. Il lavoro come scelta dell’uomo di essere liberamente schiavo, quasi come se una parte dell’essere umano avvertisse il bisogno di essere schiavo di qualcosa, condividendo spazi di vita in comune per dieci ore al giorno con individui della stessa specie su un piano del tutto superficiale di relazione… ecco, la relazione superficiale sul lavoro è uno dei motivi che ha innescato questo romanzo. Dopo La futura classe dirigente (il suo precedente romanzo del 2009, edito da Minimum Fax) volevo scrivere un libro in terza persona che recuperasse un mondo di periferia, di coatti, di esistenze da formichine sulla pontina, e naturalmente l’azienda come luogo del metafisico dove i manager non sono più individui in carne e ossa ma sono la funzione che svolgono, cioè un’entità astratta che trascende la funzione, il tempo e lo spazio.»
 
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Copertina di Nessuno è indispensabile

A proposito di individui che smettono di essere tali e diventano pura funzione: nella birreria dove siamo seduti la ragazza addetta alla pizzette è, nella progressiva perdita di connotati in favore della funzione riscaldare le pizzette nel microonde, abbastanza simile al direttore della Montefoschi: «Se la metti giù così, adesso non so bene perché, mi fai venire in mente Cosmopolis di Don De Lillo» gli dico.

«Anche quello, ma nella mia testa il Don De Lillo più presente è quello di Rumore Bianco… quel romanzo fa parte di una categoria di libri che per me rappresentano un modello, come La peste di Camus e Cecità di Saramago, cioè un modello in cui prendi un insieme chiuso di esseri umani sui quali fai abbattere un dramma metafisico che non ha spiegazioni, dopodiché racconti cosa succede in questo formicaio chiuso sottovetro. Certo, si tratta di un modello narrativamente un po’ limitante, perché le storie di questo tipo puoi portarle in una sola direzione, cioè quella in cui gli esseri umani diventano animali e si autocannibalizzano in una sorta di regressione.»
«Rispetto a questi libri Nessuno è indispensabile si mantiene, almeno a livello di tensione narrativa, su un piano piuttosto mimetico della realtà…»
«Sì, perché il libro nasce intrecciandosi a un fatto di cronaca. Non posso negare che quando ho letto la questione dei suicidi in France Telecom, ho subito pensato che s’intrecciasse perfettamente con il modello di romanzo che avevo in mente.»
«Pensi di essere riuscito a fare quello che avevi in mente?»
«Non lo so. La prima versione del libro era molto diversa da quella pubblicata. Nessuno è indispensabile viene da otto precedenti stesure nelle quali la lingua era più articolata, gonfia, barocca, in cui la struttura era più digressiva, corale. Nelle prime versioni ci sono cinquecento pagine sul passato di Gervasini perché io di Gervasini so tutto, ha avuto una storia d’amore a sedici anni, ha una madre che telefona continuamente alla vicina di casa e che mangia solo merendine del discount e che gli rompe le scatole per telefono, il cugino Ernesto ha un figlio genio campioncino di matematica e autistico a cui Gervasini si sente in qualche modo molto legato... successivamente c’è stato un massiccio lavoro di editing, quando l’ho finito non mi piaceva e quando mi hanno detto che mi avrebbero fatto il contratto ero incredulo perché io già lo stavo riscrivendo.»
Le nostre birre sono finite. I negozi del Vomero cominciano a chiudere. I primi adolescenti brufolosi se ne vanno, la pizzettara-funzione ha messo a scongelare i primi cornetti.
 
«Dimmi un’ultima cosa» dico. «Lo sai che ci siamo dati appuntamento in Via Gemito? Il romanzo di Starnone, ce l’hai presente? Non è un caso, perché c’è qualcosa, nel tuo libro, che mi ha ricordato l’umorismo dei primi libri di Starnone, non certamente Via Gemito, che invece per me resta un libro dolorosissimo. Anche se, in generale, devo dire che nei libri di Starnone l’umorismo era meno cinico e pervasivo, più pietoso…»
«Ridere è quello che volevo provocare quando ho iniziato a scrivere di Michele Gervasini. Se vuoi, è un feticcio anche un po’ infantile che mi sono portato dietro mentre ci lavoravo. Basta che fa ridere, mi ripetevo scrivendo. Ti ripeto: è stata una foglia di fico che mi sono messo da solo a mo’ di giustificazione psicologica nel caso in cui il libro non fosse piaciuto…»
«Bene Peppe, grazie per la birra.»
«Aspetta, dove vai. Prendiamone altre due…»
 
 
SCHEDA LIBRO
Impiegato modello in un'azienda modello - italiano medio tragicamente modello -, Michele Gervasini fa coincidere la sua idea di felicità con gli angoli acuti del contratto a tempo indeterminato. E poco importa se ogni mattina deve affrontare il traffico isterico della via Pontina per raggiungere il suo ufficio alla Montefoschi, azienda leader nella produzione di latte e derivati. Lì lo aspettano gli altri dipendenti dell'Ufficio pianificazione e controllo, una pattuglia di buffi animali da scrivania che vive - non solo simbolicamente - all'ombra dell'enorme, minacciosa mucca aziendale in vetroresina che campeggia davanti agli stabilimenti. Ma un giovedì mattina la più mite fra le colleghe si dà fuoco nello sgabuzzino delle scope, e all'improvviso bisogna rivedere i confini di quelle giornate che fino ad allora avevano funzionato con l'efficienza di un formicaio. Con lo spirito dissacrante di una commedia tragicomica, Nessuno è indispensabile compie un piccolo miracolo: sovverte la tradizione del romanzo industriale seguendo il ritmo e la grammatica della contemporaneità, per descrivere in maniera umanissima e feroce i rituali, le mitologie, il misticismo laico che stanno alla base della vita aziendale. Peppe Fiore racconta la deriva impazzita del mondo in cui viviamo, la nevrosi da scrivania, i tic e le frustrazioni di ogni giorno, mettendo in scena con un'irresistibile dose di cinismo personaggi che non hanno a disposizione un'altra vita, né il desiderio di immaginarsela. Se è vero che in ufficio contano solo gli obiettivi raggiunti, quando un tuo collega lascia vestiti e scarpe a filo della balaustra - allineati con la massima precisione - prima di gettarsi nel vuoto in mutande e canottiera, forse la strategia va ripensata. E non solo quella aziendale.

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