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"Narrare per restituire il senso delle proprie esperienze". Tre fratelli magri di Lorenzo Pavolini

Nella struttura del discorso retorico classico la narratio rappresenta la seconda fase, quella dell’esposizione dei fatti per informare l'uditorio “in ordine cronologico o con una introduzione ad effetto in medias res”. In questo proverò a raccontare il più in medias res possibile i miei incontri e scontri con alcune narrazioni contemporanee, preferibilmente libri ma anche spettacoli teatrali, film, canzoni, fumetti, aggiungendoci una E- per ricordarci che questo è uno spazio digitale ma come tutti gli spazi bisogna che a riempirlo ci sia sempre qualcosa. Qualcosa come una narratio.

Lorenzo Pavolini è uno di quei rari scrittori italiani che pur perseguendo un’idea alta di letteratura non s’è mai ubriacato del sentirsi in volo, forse perché per passione è abituato agli effetti del vento non fraintende l’Altezza con la Verità e come romanziere non si ritiene portatore sano di sacre leggi, né morali né letterarie; soprattutto ha l’aria di essere uno di quelli che se fosse costretto a scegliere tra l’essere un bravo scrittore o una brava persona sceglierebbe senza dubbio quest’ultima opzione. D’altro canto è lui stesso a tirare in mezzo l'antinomia a proposito di un articolo di Jonathan Franzen che ha letto in treno mentre giungeva alla presentazione del suo Tre fratelli magri (Fandango, 162 pagine, 13 euro) lo scorso 30 ottobre a Napoli a cui ho partecipato con lo scrittore Maurizio Braucci: “Quando racconti le vite degli altri, quando la tua scrittura si alimenta di percorsi umani reali l'aspetto più difficile è trovare la giusta sensibilità nei loro confronti. Perché succede a molti scrittori: pur di scrivere qualcosa d’interessante rinunciano a essere delle brave persone. Aspirazione che invece io mantengo intatta.”

Perché il punto è soprattutto questo: in Tre fratelli magri Lorenzo Pavolini bada alla sostanza di ciò che per lui è la letteratura e per farlo non esita a usare alcuni degli strumenti che compongono la restante parte del suo lavoro di operatore culturale in radio e in teatro. Si documenta sui fatti, riflette, sceglie le parole, pesa e lima queste parole per un indefinibile lasso di tempo e alla fine le pubblica. Se l’industria culturale di oggi non fosse un covo di intellettuali sciatti e di romanzieri fluviali tutto ciò non desterebbe alcuno stupore e non varrebbe nemmeno la pena di sottolinearlo: scegliere le parole è ciò che fa o dovrebbe sempre fare chiunque pratichi il mestiere di scrivere. Ma Lorenzo Pavolini si spinge oltre, non solo a negare l’esistenza di un dio delle narrazioni che spinge gli appassionati lettori di storie a credere che un romanzo sia una linea più o meno retta che comincia ad A e finisce a Z, ma soprattutto a sostenere che “la letteratura non può essere considerata una religione. Perché davanti a certe esperienze come la morte e la malattia, le verità contenute nei libri non ti servono più. I libri ti hanno portato in un luogo, ma a quel punto devi sbrigartela da solo. Aver letto tutto Conrad o Melville non ti aiuterà mai, nemmeno per mare”.
 
Due anni fa Lorenzo Pavolini aveva dato alle stampe Accanto alla tigre, libro-ricordo sul nonno che non ha mai conosciuto, Alessandro, superfascista finito a Piazzale Loreto assieme al duce, libro che ha ottenuto un unanime riconoscimento di pubblico e critica piazzandosi tra i finalisti al Premio Strega 2010. Tre fratelli magri, pur mantenendosi nel solco del racconto di vite di persone vicine all’autore, racconta le storie di tre fratelli tra cui l’io narrante più un altro la cui memoria il vento non s’è mai portata via: Stefano, il fratello della madre dell'io narrante morto a diciannove anni mentre si arrampicava sul Gran Sasso nel 1954, lo stesso anno in cui un altro gruppo di scalatori italiani aveva conquistato la vetta del K2. E l’avventura in tutte le salse, per mare e per monti, nel deserto, in Thailandia, alla Mecca, è l’intenzione attorno a cui ruota questo romanzo, l’ancora a cui si tengono aggrappati come a una religione i tre nel momento della vita in cui il distacco tra fratelli non è rancoroso ma naturale, di quella naturalità slabbrata e densa di tautologiche prese d’atto di cui son fatti i rapporti tra adulti, ancor di più se familiari.
 
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Lorenzo Pavolini

Dice Pavolini: “Se in Accanto alla tigre, muovendomi alla scoperta di mio nonno, sono finito per fare i conti con mio padre, in Tre fratelli magri, tramite il mezzo dell’avventura, sono invece finito per scontrarmi con mia madre. D’altronde ero partito esattamente con quest’idea. Anche l’esergo del libro (un verso dell’Iliade in cui Achille si rivolge infuriato alla ninfa Teti) ricalca quest’intenzione “materna”. In questo romanzo ho cercato di esorcizzare la storia di mia madre che perse un fratello molto giovane, il quale qualche mese dopo essere uscito dal collegio, durante un’avventura in montagna, è caduto ed è morto. Era in compagnia di un amico, uno scout della sua stessa età che pur cadendo gli sopravvivrà e che poi, molti anni dopo diventerà il nostro medico di famiglia. Dunque, la pulce nell’orecchio per questa storia ce l’ho sempre avuta. Da bambino coi miei fratelli andavamo a farci visitare dal nostro medico senza che la sua storia o quella di mio zio ci interessasse più di tanto (erano gli anni '70 e ormai erano passati molti anni da quella tragedia) eppure il nostro medico era sempre stato visto in famiglia come colui che ce l’aveva fatta, che era rimasto vivo. Sin dall’inizio la mia intenzione è stata quella di scrivere un libro di avventura, cercando di capire cosa a un certo punto in quella storia di arrampicate è andato storto, dove è occorso l’errore che ha portato quei due ragazzi a cadere, uno a vivere l’altro a morire. Ho sempre avuto una grande passione per le storie di avventura e di errori umani, come ho sempre amato “Ferro”, il racconto in cui Primo Levi, ancora studente di fisica, rischia la vita in montagna trovando in quell’esperienza un insegnamento che gli servirà a sopravvivere ai campi di concentramento.”

 
Pur avendo un motivo tanto appassionante alla base, il libro sfugge all’idea di romanzo monolitico basato su un’unica storia. Anzi. È un libro pieno di storie: oltre quella di Stefano, lo zio morto sul Gran Sasso, ci sono le storie dei tre fratelli sospese tra passato e presente. Come nasce la scelta di un romanzo plurale?
 
Quando ho iniziato a scrivere ho deciso di lavorare assieme a tutte le storie che sentivo di voler raccontare, mettere in campo le narrazioni che mi riguardavano personalmente, che riguardavano la mia famiglia, e metterle con onestà a disposizione degli altri. Non ho mai creduto che la letteratura servisse a elaborare le proprie difficoltà personali, però la letteratura serve a mettere in scena delle difficoltà. E poi non mi piaceva l’idea di separare le storie, di risparmiarmi magari per lavorare a più progetti e scriverci un libro dopo l’altro come fanno tanti altri, oppure dividere queste storie tra la scrittura di un romanzo, di una sceneggiatura e di uno spettacolo teatrale. Ho preso le storie che sentivo di dover raccontare e le ho lanciate dentro questo libro.
 
Come mai la scelta è caduta proprio sulla messa in scena di queste difficoltà?
 
Una decina d’anni fa, dopo una pausa che m’ero preso dalla scrittura, mi sono chiesto cosa potesse interessare alla gente di ciò che avevo da raccontare. Le persone che incontravo mi chiedevano sempre di mio nonno, Alessandro Pavolini, che era stato un importante esponente del fascismo. Quelle loro domande suscitavano in me altre domande, su me stesso e su di lui. Fu così che compresi che dovevo scrivere di Alessandro Pavolini (che per ovvie ragioni temporali non ho mai conosciuto) e dovevo rispondere a chi mi chiedeva di raccontargli la sua storia. Il mio unico punto di contatto con quest'uomo, oltre le tracce contenute nei suoi scritti e nelle testimonianze storiche, era mio padre. Lo stesso è accaduto per Tre fratelli magri. Tutti mi chiedevano di mio fratello che qualche anno fa si è trasferito in montagna, è diventato istruttore di sci e si è convertito all’Islam. Cercando una risposta, ho ripensato alla casa che mio padre aveva costruito alle pendici del Gran Sasso, e pian piano quella casa è diventato il luogo sotto il cui tetto infilare tutte le storie che riguardavano me e la mia famiglia. Così sono arrivato allo zio scalatore che cadde in montagna. Ovviamente la scommessa per fare un libro comincia lì, narrando. Io non ritengo di essere un narratore spontaneo, anche nella conversazione tra amici non ci riesco. Ma il punto non è questo. Il punto è che non sai mai se ciò che interessa te interessa anche gli altri. Qui inizia il lavoro di un libro.
 
E il libro inizia con due incipit. Quello che riguarda i fratelli nella casa di montagna e quello dal medico della mutua, cioè da colui che sarà il compagno di Stefano durante quella maledetta arrampicata. Qual è il metodo che hai scelto per riannodare e ricostruire queste storie?
 
Il mio metodo è più o meno sempre lo stesso, potrei definirlo 'documentaristico'. La prova di questo percorso di documentazione è il libro stesso. Faccio un esempio: a un certo punto il narratore va a trovare sua madre e lì lei gli consegna una scatola coi documenti che riguardano la morte di zio Stefano, gli articoli di giornale che ne raccontarono la tragica morte, i diari del papà di Stefano che per anni continuò a scrivere lettere al figlio morto… il percorso di scrittura è stato esattamente lo stesso. Ciò che accade nel romanzo è ciò che è accaduto nel momento in cui mi documentavo per scriverlo. Prima di scrivere faccio accadere qualcosa, poi mi fermo a raccontare cosa è accaduto, cioè mettere in scena il più onestamente possibile una ricerca, il che dal mio punto di vista significa dare attenzione a qualcosa o a qualcuno nel passato e soffermarsi sui loro percorsi umani. Stavolta ho cercato di farlo entrando di più nelle emozioni di quelle vicende. Narrare, come ho fatto in questo libro di fratelli, mi ha permesso di riguadagnare attenzione nei confronti di me stesso, delle persone che hanno vissuto con me certi momenti. Fondamentalmente per me la letteratura è un modo per dare senso a esperienze che ho condiviso con qualcuno e restituire agli altri questo senso.
 
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Copertina di Tre fratelli magri

Chi sono questi altri a cui ti rivolgi? Gli altri protagonisti delle esperienze che hai condiviso o il pubblico più ampio dei lettori?

 
Bisogna fare una distinzione: gli altri nel caso specifico sono coloro con cui si è condivisa l'esperienza, di cui sono anzi i protagonisti. L'altro, invece, è al centro di quello che racconto sempre, in questo non sono originale: approfitto delle alterità per placare il rimpianto di tutte quelle cose che si sarebbero potute fare, le possibilità sfrondate via via che si sopravvive, ma di cui altri fanno piena esperienza, permettendoti anche momenti di autentica vicinanza. La debolezza dell'altro, che non può fare tutto da solo, diventa uno spiraglio. Da lì puoi cominciare a capire... un pubblico più ampio non credo siano l'altro, sono più vicini al me stesso che narra piuttosto che ai personaggi di cui cerco di descrivere l'alterità. Per quanto capisco, se la mia difficoltà diventa la stessa del lettore, allora può ascoltarmi. Questo mi si è chiarito dopo aver pubblicato Accanto alla Tigre osservando la reazione di molti lettori che volevano esprimermi imbarazzi storici perché li avevano sentiti in qualche modo simili ai miei. In fondo è così che la narrazione ha sempre creato comunità, no? O meglio: un senso di comunità. Che poi è la stessa cosa. 
 
Un senso di comunità che passa attraverso sempre, nei tuoi libri, una voce narrante in prima persona. Pur elaborando secondo questo punto di vista archetipi letterari dell’avventura come il mare o la montagna, Tre fratelli magri ha la tendenza a voler destrutturare l’immagine di romanzo lineare, classico.
 
Oltre a non sentirmi un narratore spontaneo ho sempre avuto difficoltà a nutrirmi di narrazioni classiche. Non amo i romanzi di genere, tanto per dirne una. Quindi in un certo senso potrei dire di aver sempre avuto la predisposizione a scrivere storie non organizzate in una narrazione lineare. In più, negli ultimi anni, mi sono via via innamorato di quegli scrittori che hanno trovato delle strategie narrative a metà tra l’autofiction e il romanzo post moderno che hanno disintegrato ai miei occhi, e agli occhi del pubblico, la forma classica di intendere il romanzo, con personaggi, storie e descrizioni. Leggo molto Emanuele Carrère, Javier Cercas, W.G. Sebald, tutti scrittori europei che in quanto figli di un continente morto (perché tutti non facciamo che ripeterci che l'Europa è morta) sono riusciti a elaborare la perdita di centralità dell’Europa in una maniera che a me sembra interessante, senza focalizzarsi troppo sulla trama e sui fatti. I miei libri in questo momento riflettono questi modelli, negli anni ’90 erano altri, forse meno sofisticati e non è detto che domani non si sposteranno ancora…
 
Non credi che al fondo di ogni discorso su forma e letteratura, anche gli scrittori che hai citato siano in realtà dei semplici narratori? I libri di Emanuel Carrère non raccontano l’epica di un personaggio con le sua ascese e le sue cadute esattamente alla maniera di Omero o del romanzo tradizionale?
 
Forse hai ragione. Carrère, Sebald, Cercas sono narratori come tutti gli altri (e la non linearità è solo l'ultima delle loro caratteristiche). Quello che mi piace di loro, che trovo come novità, è l'appartenere a una categoria di narratori che mettono in scena se stessi alle prese con "vite che non sono le loro" (il penultimo romanzo di Emanuele Carrère s'intitola in italiano Vite che non sono la mia) pur essendolo pienamente, vite anche proprie, e di farlo più onestamente possibile. Autofiction e post modernità sono un quadro acquisito e molto più ampio di quello che fanno loro (e provo anche io a imitare) le cui regole sono, primo: non si mettono in scena personaggi ma persone. Questa oltre a una fastidiosa retorica è persino una pretesa etica... secondo: l'Io narrante cerca di non essere invadente ma di farsi invadere. Terzo: si gioca sempre e tutto sulla frase scritta, che è come la linea d'equilibrio tesa tra narcisismo dell'autore e senso della collettività.
 
SCHEDA LIBRO:
Allineati lungo la parete di una casa di montagna battuta dal vento, tre fratelli alimentano il loro bisogno d’avventura tenendosi stretti ai propri lettini. Sono educati a non invocare il soccorso dei genitori, tanto meno quello delle divinità, e nelle notti di bufera si rassicurano a vicenda, vivendo gli ultimi giorni di unione sotto lo stesso tetto, forse stringendo i nodi più profondi del loro legame.
Lorenzo, Emanuele e Marco sono tre fratelli talmente magri che potrebbero stare in uno stesso letto. Una volta cresciuti, ciascuno ha preso una strada diversa e i loro destini si sono irrimediabilmente allontanati. Chi è andato per mare, chi ha scelto la montagna, chi ha deciso che restare aveva più senso che partire. Ora il passaggio all’età adulta li coglie nel punto di massima distanza dalle promesse che credevano di essersi scambiati con la fine dell’adolescenza. E quando gli errori si trasformano in drammi personali e il paesaggio intorno si popola di rovine occorre prendere la storia da capo e ricominciare.
Lorenzo ripartirà da una vicenda di famiglia chiusa in una scatola dal dopoguerra, uno zio caduto in montagna quando aveva diciannove anni, per riscoprire le storie che li avevano tenuti insieme, loro tre fratelli magri al cospetto della natura. Ma basterà riunirsi nel vecchio rifugio dell’infanzia per fare pace con il mondo e con se stessi? Tra invenzione e molta realtà, Lorenzo Pavolini torna, dopo il successo di Accanto alla tigre, con un romanzo che si nutre di epica familiare e storia contemporanea, attraverso una lingua limpida e suggestiva che racconta di memorie, di viaggi e di vita.
 
BIOGRAFIA:
Lorenzo Pavolini è nato a Roma nel 1964. È redattore della rivista Nuovi Argomenti. Ha pubblicato i romanzi “Senza rivoluzione” (Giunti 1997, premio Grinzane Cavour esordiente), “Essere pronto” (peQuod, 2005), “Accanto alla tigre” (Fandango, 2010, finalista Premio Strega, vincitore del Premio Mondello e del Biografilm Books Award). Ha curato tra l’altro “Italville – New Italian Writing” (Exile Edition, 2005) antologia di giovani autori italiani tradotti in inglese e l’edizione integrale delle “Interviste impossibili” (Donzelli 2006).

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