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Rinascimento aquilano

É più facile che, senza perder il trapiantato crine,

passi per la cruna di un ago la testa di un nano,
che, dal berlusbertolasian rinascimento aquilano,
resti fuori la mano smisurata dell’Impregilo affine.

Nondimeno sento dire: “Mah, che vole, anche se avessero fatto altri tipi di operazioni ci sarebbe stato un business. Quello c’è sempre, non è questo il problema. Il problema è quello di realizzare l’obiettivo. L’obiettivo: è stato deciso, in questa situazione, di non fare una sorta di fase intermedia e di andare verso una ricostruzione definitiva e il più possibile anticipata. È una bella sfida importante e io credo … magari riuscissimo a dimostrare che siamo capaci … e quindi a dimostrare che L’Aquila si imporrà nel futuro come un modello della ricostruzione”. [1]
 
Dopo l’incontro/dibattito <<Città policentrica o città compatta: è questo il momento della scelta>>, organizzato dall’Associazione per la Ricostruzione di Aquila (l’A.R.A.), ai microfoni di Abruzzo24ore appare, così ci viene detto, l’arch. Francesco Karrer. Ma quello non è Francesco, probabilmente è il fratello/gemello Julio. Non posso credere che, chi ben conosce Impregilo per varie ragioni connesse alla professione di architetto-urbanista e di docente alla Sapienza di Roma, possa aver fatto questa dichiarazione. Solo Julio potrebbe sorvolare sul colossale affare apparecchiato per Fintecna (“legata” ad Impregilo) e, quindi, eccepire soltanto sulla New Town della Protezione civile, con le seguenti argomentazioni: c’è rischio di compromettere per sempre un equilibrato e razionale sviluppo della città preesistente con problemi di connessione tra i vari quartieri localizzati anche a decine di chilometri dal centro storico, nei pressi di piccoli paesi, come Assergi, Camarda, Cese di Preturo, Collebrincioni, che vedranno decuplicarsi la popolazione residente; c’è rischio di creare ghetti e favorire conflitti di convivenza in comunità nuove e troppo eterogenee; è improbabile la futura conversione dei moduli abitativi in campus universitari. Insomma, solo Julio, dopo una presenza alla seral-populista università fondata e diretta da Bruno Vespa, con assai minor esperienza urbanistica del fratello, può aver esposto al convegno dell’A.R.A., la netta convinzione che il Piano c.a.s.e. fosse un processo irreversibile. Solo Julio può aver visto l’apparenza: a Francesco, la sostanza sarebbe stata ben evidente.
 
A questo punto, occorre fare “un’urbanistica di accompagnamento”, che di tale piano “ne riduca gli svantaggi e ne valorizzi quelle parti realmente utili e positive”. Occorre “andarci a costruire intorno una strategia, perché al momento la strategia è troppo implicita, se c’è, ma probabilmente non c’è, si sono scelte aree disponibili (diciamo così) più facilmente acquisibili, il che non è un buon criterio di scelta, dal momento che stiamo rilocalizzando 12–15 mila persone, quindi un pezzo consistente della città v e r a, della città vera e quindi creiamo una condizione per la quale dobbiamo inevitabilmente accompagnare questa decisione, appunto, pensando intorno a quei luoghi come si può far crescere qualche cosa di oltre, insomma una città policentrica che però riduca anche questo policentrismo diffuso a favore di una maggiore concentrazione attorno al cuore centrale della città, perché questa sarà la condizione della garanzia della ricuperabilità del centro storico, perché se si disperde troppo si perde la possibilità di recuperare il centro storico”. A dire ciò, non può essere stato Francesco Karrer. [1]
 
Probabilmente scambiando il favellar di Julio con il ragionar di Francesco, alcuni esponenti dell’intellighenzia locale supposero che l’unica strada percorribile fosse quella di mitigare l’impatto complessivo del Progetto C.A.S.E., riducendone la superficie, spingendo verso una più razionale localizzazione dei moduli in prossimità della città preesistente, inserendo i quartieri in un piano strategico degno di questo nome. Intellettuali e professionisti locali (con la scarsa decisionalità concessa dal proconsole della Protezione) discussero, poi, soprattutto “dove” rifare L’Aquila e, sempre meno, “come” rifarla. Nella localizzazione dei new village, quelli videro ricatti urbanistici messi in atto dalla speculazione fondiaria locale e questi lavorarono per accertare l’idoneità “idrogeologica” di nuove aree, per erigervi moduli c.a.s.e. già appaltati.
 
Francesco Karrer, l’incaricato della redazione del piano regolatore della città nel decennio scorso, per contrastare strategia e pratica del “rinascimento aquilano”, sicuramente avrebbe proposto tutt’altra “cosa” e, di conseguenza, il più grande cantiere del mondo, dove sono in costruzione a tempo di record stra-olimpico e mega-galattico le “case portate dal terremoto”, sarebbe ancora ai nastri di partenza. All’esperto in trafori, in passanti autostradali, smaltimento rifiuti e … in ponti scilla-cariddici, non si poteva camuffare un viadotto temporale - dall’emergenza nelle tende alla ricostruzione urbana vera e propria – come semplice passerella atta a far transitare - senza soluzione di continuità - gli sfollati da una fase all’altra. Francesco non avrebbe permesso che, fagocitati gli auspici d’una maggiore integrazione del nuovo con la città preesistente e d’un più elevato rispetto del territorio rurale, alla fine, trionfasse la strategia della shock economy: assistiti, fiaccati ed isolati nelle tendopoli o nelle requisite strutture costiere, gli sfollati saranno sostenuti, spossati ed emarginati nelle venti porzioni della new town diffusa o dis-integrata. Questa, infatti, è la soluzione preferita dal padrone del vapore: riduce i rischi di contestazioni popolari organizzate (twenty minizen, meglio di one …); permetterà il controllo totale del territorio e futuri insediamenti commerciali; favorirà una trasformazione controllata di alcuni quartieri periferici in villaggi per vacanze (ai Tour operator, Fintecna dirà quanto e quando); non richiede garanzie per la ricuperabilità dei centri storici. Infine, anche l’Uomo del monte ha detto sì. Con lui Julio, giammai l’accademico Francesco.
 
Nel Rinascimento, gli intellettuali fornivano al Signore i canoni, le regole, le proporzioni per la costruzione della casa, della città e dello stato, al fine di congegnare il consenso delle genti al detentore del potere. Nelle Signorie si costruivano palazzi (residenze e centri di comando), ma le città reali venivano solo adattate a quelle ideali, collocate nei trattati tra le Utopie. Però, allora, “utopia” significava denuncia e annuncio: critica del reale ed annuncio del nuovo. Oggi, il signore muta pelle e concezione di sé con ritmi imposti da “padrini” reali ed occulti. Per votarsi al “santo” del giorno, per non “prendere lucciole per lanterne”, occorre discernerne la versione contingente, celebrarla, assecondarla con ogni mezzo. L’utopia è solo chimera. Capita, dunque, di scambiare Julio con Francesco: l’invenzione con la realtà. Disquisire tra città compatta e città policentrica, tra new town e new village, senza divulgare ciò che occorre celare. Adesso, la signoria permette l’esibizione dell’opulenza come virtù principale e declassa il meretricio mediatico da vituperio a necessità quotidiana. Primi piani riservati ad architetti, urbanisti, pianificatori, economisti, politicanti. In sordina, il parere di cittadini solitari, di sindacalisti “sinistri”, di sparuti amministratori locali. Ostracismo per gl’indomati manifestanti.
 
Mentre risulta difficile contestare l’evidente sproporzione quantitativa tra Complessi Abitativi Sostenibili ed Ecocompatibili (le c.a.s.e. durevoli) e Moduli Abitativi Provvisori. (i m.a.p. o casette in legno), mentre risulta incomprensibile la non casuale tempistica progettuale e realizzativa di queste differenti tipologie ri-abitative messe in cantiere dalla Protezione civile, mentre ancor prima di “un otto settembre” ufficiale chi può si arrangia alla meglio in contenitori prefabbricati d’altri tempi, l’attuale “propaganda paternalistica del potere costituito” (successiva alla carità di stato dei primi giorni) viene raramente concepita come un raggiro dei cittadini inermi e delle loro sacrosante aspettative per la vera ricostruzione delle vere case, nonché per una ripresa immediata delle attività produttive (principali ed indotte) adatta a far uscire dal coma profondo l’anima della città ed a far pulsare nuovamente il suo cuore che permane “zona rossa”, non attraversabile, anche dopo il G8.
 
Nella lacerante contraddizione di una terremotata che si occupa del lavoro edile (segretaria della Fillea-Cgil), ci vuole fegato per considerare il progetto C.a.s.e. «una truffa mediatica che distruggerà la città e dilazionenà all’infinito la ricostruzione». Nel dilemma degli universitari che vivevano nelle “seconde case” del centro storico, quelle per cui non sono previsti rimborsi (quindi finiranno nelle braccia di Fintecna), ci vuole fegato per non iscriversi altrove e sperare di alloggiare tra Avezzano e Sulmona, dal momento che i loro antichi “tetti” sono quasi tutti inagibili e le C.A.S.E. berlusconiane non diventeranno residenze universitarie fintantoché serviranno a chi potrà rifare, entro il 2030, le case classificate di tipo “E”. Nella difficile condizione di sindaci del cratere, ci vuole tanta biblica “virtù dei forti” per controllare gli attacchi di bile e limitarsi a dismettere la fascia tricolore, quando il governo minaccia il ritorno alla tassazione normale, fin dal gennaio 2010. Nella comoda situazione di chi non c’e, non vede e non sente, per intollerabile disinformazione perdurante, che ci vuole per dire: BASTA ?
 
[1] http://www.abruzzo24ore.tv/news/Con...

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