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Zecchi e Rodotà: due analisi sballate sull’odio in Rete

Zecchi e Rodotà: due analisi sballate sull'odio in Rete

Il successone del gruppo Vi Odio ha reso per l’ennesima volta di attualità il dibattito sul’odio e sul suo rapporto con la Rete. Scendono in campo i “pezzi grossi”: Stefano Zecchi (ieri, su Il Giornale) e Maria Laura Rodotà (oggi, sul Corriere).

Il primo scrive:

Scopriamo che i nostri concittadini odiano praticamente tutto e usano la piazza virtuale non tanto come un luogo per spiegare ragionevolmente un disagio, ma come un letto gigantesco per una seduta psicoanalitica collettiva. Per esprimere cosa? Per ottenere cosa? Nulla: appunto, una psicoanalisi di gruppo che non porta niente, se non alla narcisistica esibizione di un proprio io, modesto e frustrato.

Serviva Facebook per far scoprire a Zecchi che “i nostri concittadini odiano praticamente tutto”: evidentemente dalle sue parti la realtà si ferma alla porta di ingresso. La conclusione, tuttavia, è ancora più arguta:

L’odio via Facebook è una specie di mugugno informatico, sterile, insignificante, che trasforma la crudeltà dell’odiare in un modo grottesco di prendersela con qualcuno o qualcosa. La democrazia della comunicazione virtuale finisce per banalizzare, togliere asperità e forza. Più energico e pericoloso il piccolo eroe della vita quotidiana che subisce i soprusi e tira avanti, essendo perfettamente consapevole che la protesta o costruisce una possibile alternativa o è sterile come il «no» di un bambino cocciuto, molto simile alla regressione infantile di un popolo che con i suoi banali mugugni su Facebook mostra di non sapere neppure più cosa significa odiare.

Chissà da quali dei suoi studi Zecchi desume l’idea che “il piccolo eroe della vita quotidiana” non possa essere lo stesso cittadino della “democrazia della comunicazione virtuale”. O che queste due persone (anzi, questa persona e il suo fantasma digitale) impugnino la protesta in modo diverso (il primo scendendo in piazza o agendo, il secondo standosene a fare – come dicevano degli amici – “la rivoluzione sul divano“). E poi sembra quasi Zecchi imputi a Facebook di non conservare la crudeltà tipica dell’odiare (e perché mai poi la crudeltà dovrebbe essere la cifra dell’odio più della catarsi di cui parla il creatore di Vi Odio?): niente da dire, se così non fosse la democrazia sarebbe certo meno banale, più aspra e forte. Un po’ come le nostre identità sarebbero meno modeste e frustrate.

Rodotà invece si produce in una riflessione più “analitica”, citando dibattiti oltreoceano e addirittura paper accademici. Peccato che il titolo di prima pagina sia “Perché Internet ci fa più cattivi” (a pagina 29 diventa “Le umiliazioni e le vendette in Rete. E’ l’epoca dei cattivissimi“). E peccato i momenti di ragionevolezza lascino a volte il passo a concetti come questo:

Sono riferibili, ma a dir poco avvilenti, i nomi dei gruppi ignoti e terrificanti che se la prendono con amici (insomma, amici) e compagni di scuola: “Per quelli che pensano che Cislaghi puzzi”, per dire. Sembra innocente, ma se Cislaghi è in terza media, una cattiveria online del genere gli segnerà la vita.

Immagino il povero Cislaghi, quarantenne, in cura da uno psichiatra a causa di quella feroce accusa (“io puzzo, io puzzo, io puzzo”). Nel proseguo dell’articolo, Rodotà argomenta che “tra coraggio dell’anonimato e ferocia insegnata dalla tv, i bersagli si moltiplicano: immigrati, omosessuali, rom, Down, e altro”, senza tuttavia dimenticare che spesso, per fortuna, l’ironia e la curiosità prevalgono sulla “cultura dell’odio”. Bene, benissimo: allora dove sta questa “epoca dei cattivissimi”?

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