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Vita e Morte ai tempi della Peste

Su gentile concessione dell’autore, pubblichiamo la traduzione in italiano di “Life and Death in Time of Plague”. Questo articolo è stato pubblicato originariamente sul The Salisbury Review, Summer Issue, 2020.

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 Il Salisbury Review è un trimestrale del pensiero conservatore anglosassone fondato dal filosofo Sir Roger Scruton nel 1982. La Salisbury Review si è nel corso degli anni affermata come una delle principali pubblicazioni della sua area ma per la sua capacità di studio dei grandi fenomeni della contemporaneità e per l’acume del suo fondatore, scomparso nello scorso gennaio, ha saputo conquistare seguito e interessamento anche fuori dal settore del conservatorismo tradizionale, sia per la sua capacità di mettere in discussioni diversi dogmi della sua stessa area che per il forte approfondimento culturale dei suoi lavori. Di cui questo articolo è un ragguardevole esempio: a mesi di distanza della pandemia possiamo in esso cogliere le sensazioni più profonde suscitate dall’avanzata del contagio, il richiamo alla trascendenza e a valori profondi a cui il contagio ci ha messi di fronte e l’importanza delle lezioni della storia. L’autore, Leonardo Palma, è un giovane e preparato studioso romano classe 1994, laureato magistrale in International Relations all’Università degli Studi di Roma-Tre e che è stato Visiting Student al King’s College di Londra. È curatore del saggio “Bella e perduta. L’Italia nella politica internazionale, edito nel 2019 da Idrovolante con prefazione di Giulio Sapelli.

In Italia, il più vecchio paese d’Europa, la Croce Rossa va di porta in porta come i medici della Peste del ‘300. Portano via gli infetti dal cuore nero della più mortifera epidemia dai tempi dell’influenza Spagnola. A Bergamo sono stati inviati i soldati per portare via le bare e i corpi da una città fantasma. Soltanto le sirene interrompono questo irreale silenzio, come quelle che durante l’ultima guerra avvertivano di un bombardamento imminente. “Carichiamo i morti dalla mattina fino alla sera”. Molti di loro non sono stati neanche onorati. Gli obitori raccolgono le vittime e i sacerdoti, che scelgono di stare con gli ammalati per offrire loro il conforto dei sacramenti, stanno anch’essi morendo. Tra la negazione della dignità della sepoltura e la possibilità della morte, scelgono la seconda. Chiuse in casa, le persone possono soltanto guardare smarrite, testimoni silenziosi di quei Caronte vestiti di bianco che portano via una generazione che fu la memoria vivente del paese. Nessun piange perché non ci sono più lacrime, soltanto paura. 30.000 morti. Una terribile conta che sale come il meccanico ticchettio di un orologio. Ho preso Tucidide dalla libreria e l’ho aperto al capitolo della peste di Atene. “Più che la peste, fu la paura della peste a distruggere Atene”. A causa della paura, finiremo poi per distorcere il principio di giustizia, al punto da esitare “con raccapriccio tra due bestemmie: negare Dio o accusarlo”.

La vita in quarantena è stata congelata nell’infinita ripetizione di un ossessivo presente, anomico ed alienante. Così tanto da essere letargico. L’epidemia ci ricorda che viviamo in un’età di angoscia, ansia, tra le rovine di tempi a lungo andati e dei quali non siamo che una eco distorta. Cosa può generare un tempo orfano se non l’anomica ansia della mia generazione? Da quando ho memoria, non riesco a ricordare niente che non sia guerra, terrore, crisi, recessione. Eventi che hanno toccato la mia pelle senza mai bruciarla, ma nondimeno lasciando cicatrici tra le pieghe dei ricordi.

Di fronte a tutta questa sofferenza, non è troppo poco e troppo lontana da noi la consolazione di Dio? Spesso abbiamo indugiato alla ricerca di un mondo in cui la consolazione fosse inutile, superflua, così da poter smettere di soffrire. “Vogliamo un mondo dove non c’è bisogno di amore”, ha scritto Brecht. Nondimeno, come suggerì Papa Benedetto XVI nel 1978, un mondo senza consolazione sarebbe brullo, un mondo senza amore sarebbe inumano. Chiaramente, non possiamo portare indietro i morti, né cancellare il dolore o il mondo che l’ha concepito. Tuttavia possiamo condividere la solitudine generata da un amore infranto, nata nella perdita di quell’amore. Non possiamo cambiare ciò che accade, nondimeno possiamo guarire. Se potessimo sconfiggere la sofferenza così da far scomparire il dolore noi perderemmo la nostra umanità e talvolta è proprio quello che aneliamo. Essere umani è un fardello, ma senza la nostra umanità smetteremmo di essere umani e il mondo diverrebbe disumano. Durante la Settimana Santa, Papa Francesco ha impartito la benedizione Urbi et Orbi in una vuota ed irreale Piazza San Pietro. Le sue parole erano come una eco rotta da una lacrimevole pioggia, come se il cielo compatisse le nostre sofferenze. In quel momento, Francesco era come tutti noi: un apostrofo bianco dentro ad una tempesta, come una foglia in un uragano. Nel suo zoppicare scorsi le tribolazioni ma anche la forza silenziosa della Chiesa, mentre il vecchio crocifisso portato in piazza, quello di San Marcello al Corso che protesse Roma dalla peste del 1522, sembrava sussurrare: stat crux, dum volvitur orbis. E infine lo vidi, il Cristo piangente che guardava il Papa baciargli i lignei piedi feriti: un inno alla mirabile insensatezza della pietà di Dio.

In effetti, mi pare di scorgere un senso di bellezza nella tragicità della vita, un più profondo significato che non deve essere spiegato ma scoperto. La morte è la madre della bellezza, scrisse Wallace. Ma da dove viene questo apparentemente malriposto senso di gratitudine di fronte alla sofferenza? Credo che nella solitudine del dolore finiamo per scoprire la trascendenza, perché siamo perseguitati dal desiderio di andare oltre la proposizione “Io sono”. Ego sum non indica un oggetto materiale nel mondo sensibile, ma neanche al di là di esso. Tuttavia, guardando negli occhi di qualcun altro, ci accorgiamo che quegli stessi occhi ci stanno cercando. E questa è in se stessa una esperienza di trascendenza, la materia grezza di cui sono fatte la fede e l’amore: quella intellegibile oscurità metafisica che tutti noi sperimentiamo ogni giorno. Raskolnikov si libera dei suoi tormenti interiori solo dopo l’incontro con Sonja. “Ho visto il meccanismo dell’amore”, scrisse Borges, “e la fine della morte”. Questo mi fa pensare ad uno come Rilke, che combatté l’Illuminismo perché troppa luce oscura le stelle di notte. Immaginando di rivolgersi a qualcuno che piange da solo nella sua stanza, egli gli si fa incontro. “Permetti alle cose di accadere. Bellezza e Terrore. Solo, continua ad andare avanti. Nessun sentimento è permanente”. Questa transitorietà confligge con il tempo sospeso nel quale stiamo vivendo. Ma il tempo è un mistero come l’aldilà: il tempo è un’illusione tenace, anche se questo non lo rende meno reale. Per gli atomi la sofferenza non esiste, non significa che faccia meno male.

Coloro che sono morti e moriranno per l’epidemia sono stati privati della vita ma non della realtà. Gli anni che sono stati concessi loro erano sub specie aeternitatis, non temporis. Nessuno li potrà rivivere perché sono loro propri e, sebbene non li potranno rivivere nel tempo, quel tempo è loro per sempre. Ciò che esiste tra passato e futuro non è fugace, ma eterno. Secondo Blake, l’eternità ama ciò che si produce nel tempo ed è per questo che gli dei Omerici amano e odiano gli uomini al tempo stesso. Perché noi viviamo solo la vita, non la morte. Siamo creature di un sol giorno, ma possediamo l’eternità nel nostro presente.

νῦν δ᾽ ἔμπης γὰρ κῆρες ἐφεστᾶσιν θανάτοιο
μυρίαι, ἃς οὐκ ἔστι φυγεῖν βροτὸν οὐδ᾽ ὑπαλύξαι,
ἴομεν ἠέ τῳ εὖχος ὀρέξομεν ἠέ τις ἡμῖν

Iliade, 12.326-8

Foto di Kien Le da Pexels

Questo articolo è stato pubblicato qui

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